Il n°77 dei Mavericks si racconta dopo le prime settimane in NBA, a caccia del premio di rookie dell'anno (nel solco di Michael Jordan) e consapevole di dover fare un bel po' di lavoro per rimettere in piedi la complicata stagione dei Mavericks
DONCIC, IL SOGNO DIVENTA REALTA': LEBRON GLI REGALA LA MAGLIA
Tutti lo aspettavano al varco e dopo tre settimane sono già arrivate le prime sentenze: Luka Doncic ha dimostrato di essere pronto ad affrontare un palcoscenico importante come quello NBA, punto di snodo fondamentale sul parquet dei claudicanti Mavericks di questo avvio. Dallas ha il peggior record della Western Conference al pari di Phoenix, molli in difesa (24° rating difensivo) e ancora tutti da rodare. L’unica certezza è che i texani sono diventati già la squadra di Doncic, il giocatore più utilizzato da coach Carlisle (quasi 35 minuti di media sul parquet), miglior realizzatore con oltre 19 punti e secondo miglior rimbalzista di squadra dietro DeAndre Jordan (6.6). Il dato più significativo in questo campione ridotto di partite è legato al rating offensivo dei texani: con lui sul parquet sono 107.4 punti prodotti per 100 possessi, senza soltanto 99.6 (ben peggio degli Orlando Magic ultimi in NBA, per avere un termine di paragone). Senza di lui si spegne la luce, nonostante l’inesperienza che la barbetta incolta che si è fatto crescere nasconde soltanto in parte. Sul parquet ragiona già da adulto, merito di anni d’esperienza maturati da protagonista in Europa e già più “vecchio” dell’età anagrafica, come sottolineato da LeBron James qualche giorno fa. La maglia n°23 dei Lakers è già virtualmente appesa nella sua cameretta, autografata in uno dei rari momenti in cui Doncic si è mostrato in questo primo mese per quello che è: un ragazzo di 19 anni chiamato a sfidare i più grandi campioni sul parquet. E proprio da quell'episodio è partita la conference call con cui lo sloveno si è raccontato: "È stato incredibile, ho aspettato a lungo una cosa del genere. È stato un momento speciale". Adesso però c'è da pensare soltanto ai Mavericks e al periodo complicato che stanno attraversando: “Voglio essere il leader di questa squadra, tutti provano ad aiutarmi in questo. Sarebbe speciale conquistare il titolo di rookie dell’anno, anche se per me conta solo quello che faccio con la squadra. I premi individuali vengono dopo, ma potrebbe essere una grande opportunità per me conquistare un riconoscimento così ambito al termine della regular season”.
A caccia del premio di Rookie dell'anno
Maxi Kleber – intervistato assieme al compagno sloveno – racconta come il lavoro fianco a fianco con il connazionale Dirk Nowitzki in estate sia stato decisivo per la sua crescita (“Dirk è un amico, siamo stati insieme, mi ha invitato anche a casa sua e mi ha spiegato un sacco di cose sulla Lega”) e per l’inserimento complicato di un rookie di 25 anni. Doncic invece è un ragazzino a confronto (nonostante Kleber lo ponga all'interno del quintetto ideale di europei presenti in NBA, forse perché ce lo aveva seduto di fianco), ma non quando si tratta di gestire il gioco in campo: “Sono abituato ad affrontare un alto livello di competizione da quando avevo 17 anni…”. Ormai a suo agio sotto i riflettori, quasi svogliato anche quando si tratta di chiacchierare un po’ a telefono. La sua voce è pastosa, negli USA sono le nove di mattina e lo sloveno non fa nulla per scrollarsi di dosso il torpore della sveglia suonata da poco: “Devo ancora lavorare molto sul mio fisico e sì, l’inserimento in NBA è stato facilitato dal nuovo formato della Eurolega che mi aveva costretto a giocare ogni tre giorni anche la passata stagione”. Risposte a mezza bocca, saltando dall’inglese allo spagnolo con estrema facilità (gli chiedono dell’influenza di Nocioni sul suo gioco, uno dei tantissimi maestri dai quali ha potuto apprendere qualcosa), fino a quando dall’Italia non arriva la domanda del collega de “La Stampa”: Quale n°7 manca di più al Real, tu o Cristiano Ronaldo? Doncic non ha dubbi: “CR7 è il miglior giocatore al mondo, manca certamente più lui di me a Madrid”, sperando magari un giorno di raggiungere quelle vette, seguendo il sapiente lavoro di Carlisle (“Mi sono trovato da subito alla grande con lui”) e provando a invertire la tendenza di una stagione finora avara di soddisfazioni per Dallas: “Rispetto a quello che vedevo in tv, non sono rimasto molto sorpreso dall’adattamento alla NBA. Sapevo che il gioco era molto più veloce, così come il livello di fisicità elevato. Ci sono ancora tante partite da giocare, le cose andranno meglio e magari inizieremo anche a vincere”. La prossima volta per ottenere risposte più ricche, converrà telefonare ore pasti.