Riunioni tra giocatori e staff tecnico, ammutinamento prima di un allenamento, la peggior sconfitta della storia della franchigia a fare da sfondo: a Chicago in una settimana sta accadendo di tutto e la situazione non sembra volgere al meglio
BOYLEN: "FIGURA IMBARAZZANTE CONTRO I CELTICS"
In una settimana da capo allenatore Jim Boylen ha cambiato un bel po’ di cose in casa Bulls. La sua personalità spigolosa e diametralmente opposta a quella di Fred Hoiberg (da più parti indicato come persona conciliante e vicina ai giocatori), ha spaesato il giovane roster che in meno di una settimana è già crollato sotto la scure del nuovo coach. L’idea da far entrare nella testa della squadra è chiara: “C’è un nuovo sceriffo in città, qui comando io”. Un progetto tecnico che va alla ricerca di solidità e un ritorno alla vecchia scuola difensiva (nonostante manchino chiaramente i giocatori adatti per provarci) e che al momento ha portato la squadra alla peggior sconfitta della sua storia – ben 56 punti di scarto incassati contro Boston – oltre che a un ammutinamento nello spogliatoio. Il nome di Boylen è già entrato nel libro dei record della franchigia, un’onta che lo ha mandato su tutte le furie e che lo ha portato a prendere delle decisioni drastiche. Il nuovo coach dei Bulls infatti ha spiegato che la decisione di lasciare in panchina negli ultimi 21 minuti di partita i titolari (consegnandosi di fatto ai Celtics) è stata “premeditata”, volendo poi spremere i suoi ragazzi il giorno successivo in allenamento nonostante il back-to-back. Un sessione che non c’è mai stata perché i giocatori si sono opposti a quella decisione: i veterani della squadra hanno tentato in tutti i modi di parlare con l’allenatore sabato sera nel post-partita e quando l’idea è stata respinta dal diretto interessato, sono iniziate a circolare altre idea all’interno delle chat di gruppo della squadra. Una nottata intera passata a scrivere messaggi infastiditi e arrabbiati, contrari a un atteggiamento “da generale” che non ha convinto buona parte del roster.
Boicottare l’allenamento o presentarsi per discutere?
L’idea più ricorrente nelle varie chat – ben raccontate da Darnell Mayberry - era quella di non presentarsi all’Advocate Center la mattina seguente, riunendosi tutti insieme nella casa di un giocatore in attesa della telefonata dello staff tecnico. Una scelta infantile e scongiurata grazie alla mediazione di Lauri Markkanen e Robin Lopez che hanno fatto ragionare i compagni, sottolineando la mancanza di professionalità di un comportamento di ribellione del genere. Un’indicazione che è stata ascoltata in un gruppo giovane e inesperto, mentre altri già ipotizzavano allora di presentarsi all’allenamento tutti assieme “per fare presenza”, prima di volgere le spalle al coaching staff e tornare a casa come atto dimostrativo. Calata la febbre e l’eccitazione notturna, tutto il roster si è presentato al campo, optando per una serie di un due incontri in cui vuotare il sacco e discutere a viso aperto delle difficoltà. Prima si sono riuniti tutti i giocatori, lasciando fuori lo staff che ha partecipato soltanto in un secondo momento. “Era qualcosa di cui avevamo bisogno e sono felice del risultato ottenuto”, ha raccontato Zach LaVine, che assieme a Justin Holiday è stata una delle anime dell’incontro e del confronto tra giocatori durato più di due ore. “La cosa da sottolineare è che questo ci ha uniti, abbiamo affrontato la questione tutti insieme: abbiamo vuotato il sacco e iniziato a essere trasparenti e onesti tra di noi. Andare avanti non può che farci bene”. Un faccia a faccia in cui, come raccontato da Wandell Carter Jr., i giocatori si sono presentati “da uomini, parlando senza peli sulla lingua”. L’unico modo per chiarirsi dopo la scelta che aveva scatenato le ire di molti giocatori a fine partita: “Ti fa incaz**re il fatto di sapere di poter dare un contributo ed essere costretto a guardare”, aveva spiegato LaVine dopo la figuraccia.
Boylen modello Popovich, ma le differenze sono enormi
A sua (parziale) giustificazione, il neo-allenatore dei Bulls aveva tirato fuori il suo passato da assistente allenatore di Popovich; una personalità abituata a colpi di testa del genere, senza che nessuno abbia mai pensato di criticarne o metterne in discussione il comportamento. “Se non mi piace come stanno in campo, io li sostituisco e provo una combinazione nuova”. Il problema però sta nel fatto che per permettersi una gestione del genere in uno spogliatoio NBA c’è bisogno di aver riscosso del credito in precedenza. Popovich può pensare di farlo dopo anni di lavoro, Boylen invece ci ha provato già nel primo allenamento, avendo poi a che fare con dei ragazzi alle prime armi e non con giocatori dall’enorme spessore umano come Duncan, Parker e Ginobili. Una cultura che non appartiene ai Bulls e che non può essere “insegnata” urlando a casaccio nello spogliatoio e in una settimana. Una realtà che Boylen conosce, ma alla quale non sembra essere interessato. Un maresciallo sin dal primo giorno, in cui ha costretto i Bulls a fare più di due ore dall’allenamento, seguito da un shootaround prima della sfida con i Pacers di oltre 90 minuti, con tanto di sessione video in cui cercare di capire cosa non funziona nella copertura a rimbalzo e nella gestione del pallone. Tornati a Chicago (dopo la sconfitta), la squadra è stata sottoposta a un altro allenamento eccezionale di oltre due ore, in cui far correre avanti e indietro per il campo i giocatori. Una dimostrazione di forza che ha stremato la squadra, senza tenere conto della tenuta atletica del roster: “Penso che la condizione fisica del gruppo non ci permette di competere: per quello devo ristabilire quella, altrimenti non otterrò risultati”. Nel breve periodo al momento una tecnica suicida, nonostante venerdì fosse arrivata una significativa vittoria in volata contro OKC. L’aria infatti resta pesante, nonostante le rassicurazioni: “Ci stiamo ancora conoscendo, devono capire quello che voglio. Questi sette giorni sono stati sconvolgenti per loro, ma riusciremo a fare degli aggiustamenti”.