Settembre 2016, università di Duke: una delegazione dei Pelicans fa visita a Jrue Holiday e si ritrova per caso a sfidare sul parquet i giovani talenti collegiali. Tra loro c'è anche Jayson Tatum, che in quei giorni ha cambiato senza saperlo le sorti del suo destino in NBA
Domenica prossima compirà 21 anni, ma a Jayson Tatum sono bastati pochi mesi per mettere in mostra tutto il suo talento sui parquet NBA. Tecnica, sagacia, efficacia su entrambi i lati del campo, personalità quando conta di più: sono tante le doti che vengono riconosciute al n°0 dei Celtics, diventato oggetto del desiderio dei Pelicans che da un mese a questa parte devono liberarsi (non per volontà loro) di Anthony Davis. New Orleans ha rinunciato all’offerta dei Lakers anche per quello: perché mettere le mani su un talento come Tatum (oltre che a un ricco pacchetto di scelte) potrebbe rivelarsi il modo più rapido per far ripartire il progetto tecnico dopo la scelta del n°23. Per questo i Pelicans terranno sicuramente d’occhio il n°0 dei Celtics nei prossimi mesi, ben consapevoli che l’amore nei suoi confronti risale a tempi non sospetti. A quando il grande pubblico non aveva ancora idea di chi fosse quel ragazzo magrolino originario di Saint Louis che nel settembre 2016 si trovò per caso a incrociare sul parquet i Pelicans e Anthony Davis. “Quando siamo usciti dalla palestra quel giorno, sapevo che Tatum era già pronto per diventare un giocatore NBA”, ha raccontato recentemente lo stesso Davis, memore della tre giorni di sfide andata in scena nella palestra di Duke. “Fece delle giocate pazzesche in quelle gare, sfidando chiunque senza subire mai il colpo e dominando contro ogni avversario. Il modo migliore per mettere in mostra tutto il suo potenziale”. I parquet dei college americani non li aveva ancora calcati, sfidando al massimo avversari di 17 anni in partite ufficiali, ma l’occasione di affrontare una squadra NBA era troppo ghiotta e fece così venire fuori tutto il talento del giovane Tatum.
Tre giorni per stare vicini a Jrue Holiday
Ma perché buona parte del roster dei Pelicans decise di giocare una partita contro Duke a pochi giorni dall’inizio della preseason? Per una ragione che va ben oltre il campo e la pallacanestro in generale. In quella estate Lauren Holiday, moglie di Jrue e giocatrice della nazionale di calcio femminile USA, era rimasta incinta della primogenita e poco dopo il ritiro dal professionismo e la lieta notizia aveva purtroppo scoperto di avere un tumore benigno al cervello nei pressi dell’occhio destro. Una situazione delicatissima che portò per diversi mesi il giocatore dei Pelicans ad allontanarsi dalla squadra per stare vicino alla compagna. La signora Holiday scelse di ricoverarsi per diversi mesi al Duke Medical Center (portando con sé tutta la famiglia nel North Carolina), dove alla fine riuscì a dare alla luce la piccola che portava in grembo e a esportare con successo le cellule tumorali. Un settembre molto travagliato per Jrue e per quello un gruppo di compagni di squadra, tra cui il già citato Davis, Solomon Hill, Tim Frazier, Quincy Pondexter e Dante Cunningham decise di passare qualche giorno a Duke per stargli vicino. Con la stagione NBA ormai alle porte però, serviva anche una palestra dove allenarsi e la buona notizia in quel caso fu che il college poteva mettere a disposizione non soltanto strutture all’avanguardia, ma anche degli avversari di primissimo livello. I giovani talenti reclutati e pronti ad affrontare la stagione collegiale 2016/17. Una notizia che infiammò anche la fantasia di ragazzi appena 18enni, chiamati a confrontarsi con i loro idoli: “Ero eccitato all’idea – racconta Tatum – perché avevo sentito che ci sarebbe stato anche Anthony Davis”. Un’occasione da non farsi scappare e il primo incrocio (ufficioso) tra i due.
"Il miglior talento in campo, più forte anche di Davis"
Alla fine furono non una, ma diverse le partite disputate a cui non ha avuto accesso nessuna telecamera (e rimaste “segrete” a lungo). Vista la particolare situazione, nessuno pensò di mischiare le squadre: Holiday e i suoi compagni da una parte, i giovani talenti collegiali dall’altra. Una serie di test molto più complicati del previsto per New Orleans – di cui nessuno conosce il risultato, ma che portarono molti addetti ai lavori a pronunciare un parere unanime: “Fin dal primo possesso Tatum ha iniziato a fare la differenza, dimostrando di poter fare tutto sul parquet. Era chiaro come fosse in grado di tirare sulla testa anche di un difensore NBA, l’atletismo dell’avversario non incideva sulla sua resa. Vista quella partita, tutti abbiamo capito che al college sarebbe rimasto giusto il tempo di compiere 19 anni”. Un’impressione rimasta negli occhi anche dei suoi coetanei, a partire da Luke Kennard (poi finito ai Detroit Pistons), alla prima partita sul parquet al fianco di Tatum: “Non penso che ci fosse qualcuno in grado di contenerlo. Era a livello NBA già in quel momento, segnava a proprio piacimento e se ne rendeva conto. Le sue capacità erano superiori rispetto al resto dei giocatori e in molti pensarono che fosse il migliore talento presente in palestra”. Anche più di Anthony Davis, una buona notizia in prospettiva per la New Orleans di oggi, che in quei giorni dispose di buona parte dei pochi spettatori che riuscirono ad avere accesso alla sfida. Sugli spalti infatti sedeva coach Alvin Gentry, qualche manager di Duke (gli allenatori non c’erano perché stando alle regole NCAA, non essendo una sessione ufficiale, non potevano assistere), i giocatori coinvolti e anche Danny Ferry – all’epoca consulente e che da pochi giorni è diventato il nuovo GM dei Pelicans al posto di Dell Demps. Lui quella partita e quelle sensazioni le ricorda molto bene.
Uno dei (tanti) motivi per cui i Celtics lo hanno scelto
Anche Solomon Hill, intervistato recentemente quando il nome di Tatum è stato più volte accostato a New Orleans, è tornato con piacere a parlare di quei giorni del 2016: “Quando attacchi un atleta più grosso e formato fisicamente di te, ci sono pochissimi giocatori che riescono a creare lo stesso la separazione necessaria per prendersi il tiro: questa è la caratteristica che rende Tatum così letale. La maggior parte dei ragazzi avrebbe fatto il suo compitino, svolgendo il proprio ruolo e provando a incidere facendo bene le piccole cose. Se approcci in quel modo invece vuol dire che sei un leader. Il suo è stato un impatto fisico e tecnico, come se quel giorno fosse già la sua prima partita NBA”. E col senno di poi potrebbe avere avuto molto più senso del previsto: “Ricordo che Davis venne da me a fine partita a dirmi che ero molto talentuoso e che ci saremo rivisti presto su un parquet NBA. Fu la conclusione migliore per quella giornata”, racconta Tatum, informato forse nei mesi successivi che la notizia di quella prestazione così convincente arrivò anche alle orecchie di Dave Lewin, direttore dello scouting dei Celtics a cui fu raccontato che “Tatum aveva giocato meglio di Davis”. Boston, che sapeva di avrebbe avuto a disposizione una scelta molto alta al Draft grazie alla trade con i Brooklyn Nets, segnò in cima alla lista delle sue preferenze quel nome. L’infortunio al piede che costrinse Tatum a restare fuori da ottobre a dicembre della sua stagione al college e ne rallentò la resa una volta tornato sul parquet, preoccupò il giusto i biancoverdi, rinfrancati da quanto saputo in quell’occasione: “Eravamo consapevoli che nel momento di massima forma era riuscito a distruggere qualsiasi tipo di avversario. Anche un All-Star come Davis”. Per scoprire se sarà in grado di prenderne il posto a New Orleans invece, toccherà aspettare (come minimo) qualche mese.