In campo ha rivoluzionato il gioco, come uno dei primi lunghi capaci di colpire con continuità e precisione da tre punti. Fuori dal campo la sua mossa di lasciare Toronto per Miami è quella poi imitata dai vari Durant, Butler e Leonard più recentemente. E ora gli Heat sono pronti a ritirargli la maglia
A pochi giorni dalla cerimonia del ritiro della sua maglia n°1 alla American Airlines Arena – solo il quarto giocatore di sempre ad avere questo onore nella storia dei Miami Heat (dopo Alonzo Mourning, Tim Hardaway e Shaquille O’Neal) – Chris Bosh ha raccontato a Tom Haberstroh gli alti e bassi di una carriera senz’altro prestigiosa ma non senza momenti molto difficili. A partire dalla decisione di doverla terminare in anticipo sui tempi, per via delle conseguenze di quegli accumuli di sangue – prima nei polmoni poi al polpaccio – che lo hanno convinto al ritiro l’anno scorso, dopo quasi tre anni dalla prima diagnosi. “La cosa più difficile è stata vedere il gioco evolversi verso una direzione perfetta per le mie caratteristiche”, ammette il lungo degli Heat, che all’ultimo anno a Miami – nel 2015-16 – tentava più di 4 triple a sera (che realizzava con il 36.5%), il settimo per numero di triple tirate tra i lunghi della lega quando invece oggi quasi il triplo dei lunghi (18 il totale al momento) hanno questo volume di tiri dalla lunga distanza. “Non è stato facile, lo ammetto, ma oggi sono contento per i giocatori che hanno approfittato di questo nuovo scenario tecnico: ha avuto un piccolo ruolo nell'evoluzione del gioco nella NBA”. Come non era stata facile neppure durante i playoff del 2012, con gli Heat a un passo dall’eliminazione in semifinale di conference contro Indiana e Bosh infortunato e nell’occhio del ciclone: “Il mio errore è stato ascoltare i talk show in tv: mi entravano in testa tutte le critiche, al punto da pensare di smettere di giocare, e ritirarmi. È stata mia moglie a convincermi a non farlo”. Il ruolo di pioniere di Bosh nella NBA moderna non si ferma al suo impatto tecnico, sul campo – lo stretch 4 che diventa stretch 5, negli Heat dei “Big Three” con Dwyane Wade e LeBron James – ma anche fuori, uno dei primi a forzare la sua cessione da una squadra a un’altra con il suo passaggio da Toronto (una sola stagione vincente nei suoi sette campionati lì) a Miami: “Una decisione che ha avuto un impatto importante – riconosce, pensando ai trasferimenti futuri dei vari Kevin Durant, Kyrie Irving, Jimmy Butler e Kawhi Leonard – ma la cosa divertente è che in molti non l’hanno apprezzata. Alla gente non piacciono gli atleti con un cervello”. A convalidare la sua scelta di abbandonare il Canada per cercare di vincere un titolo (poi diventati due, nel 2012 e nel 2013), anche il parere di chi – prima di lui – lo aveva fatto, lasciando il Minnesota per Boston: “Durante l’All-Star Game di Dallas del 2010 io e Kevin Garnett eravamo in squadra assieme. Prima del via gli ho chiesto: ‘Quando hai capito che era il momento giusto di lasciare i T’Wolves?’. Mi ricordo il consiglio di KG, quello di cercarmi una squadra dove i miei nuovi compagni potessero togliermi dalle spalle un po’ di pressione e permettermi di non dover pensare ad altro che a giocare a basket al mio meglio”.
Il basket non è tutto, i social fanno più male che bene
Come parte degli “Heatles” di quegli anni, sempre di fronte alle telecamere, scrutinati 24 ore al giorno sui social, Bosh ha conosciuto anche il lato oscuro della fama e dell’attenzione mediatica. “All’inizio è divertente immergerti nei social ma dopo un po’ cambia tutto. Tweet carichi di odio, commenti cattivi su Instagram: mi ci è voluto un po’ per capire che non valevano niente, che non avrei dovuto prestargli attenzione”. Critiche, a volte insulti, e soprattutto tanta pressione in più: Bosh lo vede accadere anche oggi, guardando a Los Angeles. “L’anno scorso il gruppo di giovani Lakers era amato da tutti perché nessuno si aspettava granché da loro. Con l’arrivo di LeBron le aspettative sono cambiate e ora di colpo sui social diventi bersaglio di ogni commento”. Un fenomeno che influenza anche l’attuale discontento di molte superstar NBA (“Il fatto che lo abbia fatto notare anche Adam Silver è incredibile, ma per quanto pazzesco è vero”, conferma Bosh) e che ha portato il lungo degli Heat a realizzare che in fondo la pallacanestro non è tutto, anche nella vita di un giocatore professionista: “Durant ha ragione, anche vincere un titolo non ti realizza come persona. Se fossi completamente realizzato allora potresti anche morire, no? È importante trovare sempre nuovi interessi e nuovi obiettivi”. Il primo appuntamento è per martedì sera e la gara dei suoi Heat contro Orlando, quando Bosh entrerà ufficialmente nella storia dei più grandi a Miami.