In un articolo uscito su The Players' Tribune il centro di Philadelphia ha raccontato di aver pensato di lasciare il basket quando morì suo fratello minore Arthur nel 2014: "Volevo solo tornare in Camerun e stare con la mia famiglia, è stato un momento durissimo. Ho dovuto scavare dentro me stesso per ritrovare la gioia di giocare"
“A chiunque stia passando qualcosa di brutto, a chiunque sia in difficoltà. Ho una piccola storia per voi”. Inizia così l’articolo firmato da Joel Embiid uscito sul sito americano The Players’ Tribune. Il giocatore camerunese si confessa a cuore aperto e racconta come abbia pensato di lasciare la pallacanestro nell’ottobre del 2014. “Non so in quanti conoscano questa storia – racconta Embiid – ma poco dopo essere stato scelto al Draft da Philadelphia, pensai di lasciare la pallacanestro. Non sto esagerando, ho considerato seriamente l’ipotesi di abbandonare la NBA ancor prima di giocare una partita”. Pensieri legati alla terribile notizie della morte di suo fratello minore Arthur, investito da un camion in Camerun quando aveva solo 13 anni. In quel momento Embiid si stava allenando per recuperare dall’operazione al piede, ma pensò di mollare tutto e tornare a casa. “Il dolore fisico è temporaneo – scrive - il corpo guarisce. Ma il tuo cuore? È diverso, in quel caso è tutto più complicato. Ho dovuto guardare a fondo dentro me stesso per ritrovare la gioia di giocare”. Embiid spiega di aver quindi deciso di continuare a lavorare duro per riuscire a tornare in campo: “Non ci sono scorciatoie, devi affrontare le avversità e fare un passo avanti alla volta, non importa quanto ci metti. Ho sentito che se ce l’avessi fatta mio fratello sarebbe stato molto fiero di me. A chiunque stia pensando di mollare voglio dire una cosa: prova solo a fare un piccolo passo avanti”.
L’inizio di tutto
Nell’articolo il giocatore, tornando indietro nel tempo, racconta anche di come l’inizio del suo viaggio dal Camerun alla NBA sia legato a suoi fratello Arthur, e di come per stare insieme a lui stava quasi rischiando di perdere la sua grande occasione. Quando si racconta la storia di Embiid si parte quasi sempre dal camp organizzato dall’ex giocatore africano Luc Richard Mbah a Moute, nel quale Embiid fu scoperto e poi portato negli USA. “Quello che tanti non sanno – racconta ora il giocatore – è che il primo giorno nel camp non mi presentai, restando a casa a giocare ai videogiochi con mio fratello. Per me era quella la cosa più bella del mondo, e poi pensavo di non avere alcuna possibilità di andare nella NBA o in un college americano. Anzi, non pensavo neanche che sarei mai stato in grado di giocare un basket organizzato”. Fortunatamente il giorno successivo il padre di Embiid lo convinse a presentarsi al camp e da lì ebbe inizio la storia che lo ha portato a essere una superstar della NBA. “Ma sapete una cosa? – racconta ancora il giocatore – ricordo meglio quel pomeriggio a giocare con mio fratello di quanto ricordi i momenti più importanti della mia carriera nel basket”.
Gli obiettivi di Joel
Dopo la delusione degli scorsi playoff, con l’eliminazione in gara-7 al secondo turno da parte dei Toronto Raptors poi campioni NBA, Embiid ha grande voglia di rivincita. “Abbiamo iniziato la stagione parlando di quanta voglia abbiamo di vincere un titolo. Siamo abbastanza bravi a parlare, incluso me. Ma parlare non basta, bisogna agire. Dobbiamo lottare ogni singola sera”. Da qui la frustrazione per non poter aiutare la squadra in questo periodo a causa dell’infortunio al dito: “Nessuno è più dispiaciuto di me per l’infortunio – scrive – ma è solo un dito. Tornerò presto e le cose andranno bene, nei playoff saremo un problema per tutti. Ve lo prometto”. Nella parte finale dell’articolo Embiid racconta della sua infinita ammirazione per i grandi lunghi del passato come Hakeem Olajuwon e Shaquille O’Neal, ma di non volerli imitare “anche perché il gioco si è evoluto rispetto agli anni '90’”, e di ispirarsi anche a giocatori in ruoli diversi dal suo come Durant, Harden e Curry. “Sono uno studente del gioco – scrive Embiid – e non siamo più nel 1995, ma nel 2020: non puoi più essere un lungo che gioca solo in post. Non voglio diventare il miglior centro della storia, ma il miglior giocatore della lega. Se vincerò il titolo sarò un po’ Hakeem, un po’ Iverson e un po’ Kobe”. Per concentrarsi sulla conquista dell’anello Embidd scrive di aver lasciato perdere il trash talking e le provocazioni sul web: “Non sto cercando di vincere un dibattito. Sto cercando di vincere un titolo”. Vedremo se sarà questo l’anno buono, l’unica certezza è che quando succederà la dedica sarà per Arthur.