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14/30: focus su Carmelo Anthony, come giudicare la stagione del ritorno in campo

NBA

Pochi giocatori dividono come Carmelo Anthony: c'è chi lo ama e c'è chi lo detesta. A Portland - dopo le ultime esperienze poco felici a OKC e Houston (e dopo quasi un anno passato lontano dai campi NBA) - l'ex stella di Syracuse ha avuto forse l'ultima chance della carriera di giocare nuovamente da protagonista. Ecco l'analisi del suo anno in maglia Blazers

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E quindi, Carmelo Anthony? E quindi Carmelo Anthony niente. In medio stat virtus, si dice spesso, e se può sembrare assurdo ritrovarsi ad applicare una frase del genere a uno dei giocatori più tecnicamente polarizzanti di tutta la NBA — c’è chi lo ama, c’è chi lo odia — la valutazione più onesta sull’impatto di Carmelo Anthony ai Blazers è questa: non ha salvato la loro stagione, non li ha neppure affossati. Che in fondo è anche la conclusione più logica, se si pensa all’impatto di un giocatore che a maggio compie 36 primavere, lontano dai campi NBA per più di un anno, chiamato a dare man forte a un roster decimato da infortuni importanti — su tutti quelli di Jusuf Nurkic e Zach Collins, due giocatori interni la cui assenza ha di fatto tolto una delle due componenti del gioco (dentro/fuori) di coach Terry Stotts. Assenze ancora più importanti nei Blazers che da anni sono ormai la squadra di Lillard&McCollum, ovvero una coppia di esterni, due superstar che abitano entrambe il perimetro. E qui c’è il primo punto interessante da sottolineare nell’analizzare la stagione di Carmelo Anthony: ‘Melo il tiratore, ‘Melo il giocatore di isolamento, ‘Melo l’amante del mid-range si dice spesso, ma il n°00 dei Blazers è stato di gran lunga il giocatore più cercato e utilizzato in post-up di tutta la squadra (5.6 tocchi di media a partita, secondo dietro di lui il centro Hassan Whiteside con meno di 3 a sera). Anthony — che per caratteristiche fisiche (appena sopra i due metri) e tecniche (tiratore, buon trattamento di palla) può essere considerato un esterno — nella pallacanestro moderna è un perfetto 4 tattico, capace di aprire il campo col suo tiro ma anche di dare quella dimensione interna che coach Stotts, ritrovatosi senza i suoi due giocatori interni più importanti, ha dovuto chiedergli.

Il problema dell’efficienza offensiva

E qui, strettamente collegato al suo utilizzo in post, irrompe subito la questione dell’efficienza offensiva di Carmelo Anthony. Solo Joel Embiid, Nikola Jokic, LaMarcus Aldridge e Anthony Davis hanno giocato più possessi di lui in situazione di post-up (238), ma lui è quello con la peggior efficienza offensiva (neppure 0.9 punti per possesso). Ancora: dei nove giocatori NBA che hanno giocato più di 200 possessi in post, ‘Melo è ottavo per efficienza offensiva. Sotto questo punto di vista, l’unica area del suo gioco dove il n°00 di Portland produce con ottimi risultati è nelle conclusioni in spot-up: quando riceve uno scarico e tira, Anthony produce 1.141 punti a possesso, un dato che — tra i giocatori con un certo volume di tiri — lo piazza appena fuori dalla top 25 NBA. Fa molto meno bene in isolamento, l’area del suo gioco offensivo per cui ha subìto le maggiori critiche e dove le sue cifre effettivamente sono mediocri (0.843 punti per possesso), a riprova che — dopo 17 stagioni nella lega — le caratteristiche tecniche del giocatore, i suoi punti di forza e quelli deboli, sono ovviamente consolidati, nel bene e nel male. Tra i secondi — quelli deboli — la difesa, soprattutto quando a Anthony viene chiesto di cambiare sui giochi a due e di scalare a chiudere sui tiratori: pigro, svogliato, molto spesso in ritardo, concede al suo avversario quasi 1.19 punti a possesso, che tra i giocatori con almeno 150 possessi è il sesto peggior dato NBA.

Le stimmate del realizzatore

Ai Blazers Carmelo Anthony ha dato quello che ci si poteva (e doveva) aspettare da lui: una terza — o quarta, dietro a Whiteside — opzione offensiva capace di assicurare una quindicina di punti a sera (quelli fatti registrare nella sua ultima annata completa, in maglia OKC, e con percentuali anche migliori, sia dal campo che da tre punti). Perché questo è essenzialmente Carmelo Anthony, un realizzatore, uno scorer, uno che — se la stagione si fosse conclusa regolarmente — dopo aver già superato Kevin Garnett avrebbe sicuramente passato Paul Pierce tra i migliori marcatori NBA, entrando nella top 15 all-time, e che forse prima della fine avrebbe messo nello specchietto retrovisore anche tale Tim Duncan. Non sono mancati — neppure a 36 anni, neppure reduce da un lungo stop — diversi momenti nella sua nuova avventura in Oregon: a fine novembre è stato addirittura votato dalla lega miglior giocatore della settimana a Ovest (oltre 22 a sera con il 57% abbondante al tiro e il 45.5% da tre, per tre vittorie dei suoi Blazers), ma il 7 gennaio e il 23 febbraio 2020 restano due date particolari. La prima lo ha visto affossare i campioni NBA in carica dei Toronto Raptors con 28 punti e 10/17 al tiro compreso anche il canestro della vittoria a 3.3 secondi dalla fine (la 17^ volta in carriera in cui ha segnato il canestro del vantaggio per la sua squadra, nessun altro giocatore dal 2003 a oggi lo ha fatto più di 13 volte); la seconda lo ha rivisto andare sopra quota 30 punti per la prima volta dal febbraio 2017, con i 32 (e 11/16 al tiro) rifilati ai Detroit Pistons che hanno portato a 272 i trentelli messi a segno da Anthony in carriera. 

Il contributo alla squadra

Sere come quelle contro Raptors e Pistons Anthony probabilmente sarebbe in grado di confezionarle anche a 50 anni o giù di lì — ma il punto non è questo. Il punto è: quanto l’innesto di Carmelo Anthony ha reso i Blazers una squadra migliore? Nei 1.623 minuti che lo hanno visto in campo Portland ha fatto registrare un net rating positivo (+0.3) mentre negli 878 minuti senza Anthony il segno diventa negativo (-3.3): a mancare — non è una sorpresa — è l’attacco, che cala per efficienza, mentre il dato difensivo resta più o meno invariato. L’ex stella di Nuggets e Knicks — chiamato a fine novembre a mettere una pezza a un roster che perdeva pezzi — ha disputato (partendo sempre in quintetto, fin dal primo giorno) 50 gare, vincendone 22 (il 44% del totale). Dal giorno del suo debutto Portland ha una percentuale di vittorie ancora superiore (il 46%), mentre un avvio di campionato con 6 vinte e 9 perse aveva visto i Blazers in difficoltà ancora maggiori (35.7%). Quando però si va a conteggiare — alcuni indici statistici provano a farlo — l’impatto del giocatore sul rendimento della squadra, le cifre di Anthony sono quelle di un giocatore medio, non certo d’élite: il suo PER (Player Efficiency Rating) è anzi inferiore (12.28) a quello medio (attorno a quota 15) e lo posiziona al 173° posto NBA (davanti a lui, per dare un’idea, Goga Bitadze, Patrick Beverley, Langston Galloway e Nicolò Melli), mentre con 7.8 il suo PIE (Player Impact Estimate) lo vede lontanissimo dai vertici NBA (Karl-Anthony Towns chiude la top 10 a quota 16.8, a guidarla è Giannis Antetokounmpo con 23.9). Soprattutto, essendo la pallacanestro un gioco di squadra, l’innesto di Anthony nei piani del front office e di coach Stotts doveva servire — nonostante gli infortuni — a centrare quella qualificazione ai playoff mai fallita nelle ultime sei stagioni (solo altre quattro squadre NBA possono dire altrettanto). Al momento dello stop i Blazers erano invece noni a Ovest — la prima squadra esclusa — a tre gare e mezzo di distanza dai Grizzlies ottavi ma con Pelicans e Kings in forte rimonta da dietro e già sostanzialmente appaiati, con speranze di postseason ridotte al lumicino. Con buona pace di Carmelo Anthony, dei suoi sostenitori e dei suoi detrattori.