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NBA Finals 1998, Utah Jazz-Chicago Bulls: perché guardare gara-2 su Sky Sport

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©Getty

Dopo la prima partita della serie persa dai Bulls all’overtime, il 6 giugno 1998 si torna in campo per il secondo atto: una sfida già da dentro o fuori per Chicago, chiamata a recuperare le forze e il fattore campo, dovendo per forza di cose affidarsi al suo punto di riferimento

Passare il pallone e lasciare il tiro decisivo a un compagno spesso può essere sinonimo di forza, oltre che di successo. Lo aveva imparato nel corso degli anni anche Michael Jordan, che grazie ai canestri dei vari John Paxson, Steve Kerr e altri era riuscito fino a quel giugno 1998 a conquistare cinque titoli NBA. Il sesto però, dopo il ko nella partita d’esordio della serie, appariva più complicato del previsto, tanto da dare a quella gara-2 per i Bulls il senso dell’ultima spiaggia. Alla stampa e ai critici non era sfuggito il fatto che a segnare la tripla del tentativo di rimonta Bulls a 5.4 secondi dal termine dell’overtime era stato Toni Kukoc, mentre l’ultima conclusione disperata era partita dalle mani di Scottie Pippen: in entrambi i casi Jordan aveva preferito affidarsi a un compagno, leggendo l’enorme pressione difensiva messa su di lui dai Jazz e affidandosi ai suoi più fedeli scudieri. Il tiro del n°33 Bulls sulla sirena però si era spento sul secondo ferro, così come le speranze di allungare una partita infinita per una Chicago esausta. E proprio la stanchezza mostrata dagli ospiti nell’esordio di Salt Lake City e in particolare da MJ erano la questione al centro del dibattito nei giorni che precedettero gara-2: “Non sono affaticato, ve ne renderete conto già dalla prossima partita”, sottolineava noncurante il n°23 di Chicago preso d’assalto nella hall dell’hotel scelto dai Bulls a “un tiro di Steve Kerr di distanza” dal Delta Center. Un albergo a meno di 2 chilometri dall’arena, per evitare di dover affrontare il lungo viaggio da Park City che l’anno precedente aveva creato non pochi problemi durante gli oltre 45 minuti di tragitto necessari. Un vero e proprio bunker all’interno del quale restare barricati per tre giorni in attesa della partita del 6 giugno 1998.

Una gara diversa nel segno di Michael Jordan

Durante la partita tra Jazz e Bulls di regular season dell’inverno 1998 erano state impiegate 28 guardie per garantire la sicurezza al Delta Center. Per le Finals ne furono aggiunte 26 dallo staff di Utah, oltre alle quattro fornite a Chicago direttamente dalla NBA come ulteriore presidio dello spogliatoio ospiti. Un vero e proprio esercito chiamato a garantire il completo isolamento di un gruppo che riuscì ancora una volta a trovare le forze necessarie per rispondere “presente” e battere un colpo in una partita da dentro o fuori. A fare la differenza in quella gara-2 in favore dei Bulls fu la difesa, con i Jazz tenuti soltanto al 27% dal campo nell’ultimo quarto (dopo aver viaggiato ben oltre il 50% nei primi tre spezzoni di gara). Una delle chiavi fu la scelta da parte di Phil Jackson di mettere Scottie Pippen in marcatura su Malone. Il n°33 dei Bulls infatti era costretto ad avere un approccio diverso rispetto ai lunghi di Chicago, dato il diverso peso specifico rispetto all’All-Star dei Jazz. Pippen giocava d’anticipo, lo marcava davanti e rendeva molto più complesso il passaggio d’entrata dell’attacco di casa. Bastava quello per rallentare almeno un po’ il rodato attacco guidato da John Stockton - una macchina da 112.7 di rating offensivo ai playoff, di gran lunga i migliori in quel 1998. Il risultato fu una partita da 16 punti con 16 tiri di Karl Malone, tenuto a un solo punto segnato nell’ultimo e decisivo quarto. Jordan invece si caricò letteralmente l’attacco dei Bulls sulla spalle, sfruttando al meglio i 18 rimbalzi offensivi raccolti da Chicago - il doppio rispetto a gara-1 - e lucrando sulle 20 palle perse dei Jazz. L'ennesima prova di forza di MJ, tutta da gustare domenica 10 maggio alle 11.00 su Sky Sport NBA con il commento di Flavio Tranquillo e Federico Buffa.