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Breonna Taylor, la NBA chiede (ancora) giustizia: “Non distogliamo l’attenzione”

NBA
©Getty

La ragazza di 26 anni morta a Louisville durante un’irruzione nel suo appartamento da parte della polizia è diventata uno dei simboli delle battaglie contro discriminazione e razzismo combattute negli USA, e anche all’interno della bolla NBA di Orlando da parte dei giocatori

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Breonna Taylor merita giustizia. Un messaggio condiviso ormai da settimane dal mondo NBA, ripetuto in alcuni casi fino allo sfinimento da giocatori e allenatori, a dimostrazione di come non si voglia distogliere l’attenzione dalle importanti tematiche e battaglie che in questi mesi stanno caratterizzando il dibattito pubblico negli Stati Uniti. La discussione si è riaccesa dopo che, durante la conferenza stampa con i giornalisti, Kyle Kuzma si è ritrovato a rispondere a dieci domande diverse, di cui una soltanto inerente alle problematiche di giustizia sociale che affliggono gli Stati Uniti. Al termine dell’incontro con i media, il giocatore dei Lakers ha sottolineato via social: “Giocatori e giornalisti lavorano sempre fianco a fianco: so bene che il vostro scopo è quello di parlare di pallacanestro, ma se credete nelle battaglie per cambiare la società di questo Paese, fate anche qualche domanda su quello”. Una richiesta giunta con forza già nei giorni scorsi, quando Tobias Harris non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti che non riguardassero casi di discriminazione e razzismo negli Stati Uniti. Lo stesso atteggiamento tenuto anche da Alex Caruso: “Oltre alla domanda sulla scelta di non partecipare al matrimonio di mia sorella, non risponderò più. A ogni domanda replicherò: “Abbiamo bisogno che sia fatta giustizia per Breonna Taylor”, solo quello”. Il caso della ragazza di 26 anni uccisa a Louisville lo scorso marzo è diventato il simbolo delle battaglie portate avanti dai giocatori NBA in queste prime settimane nella bolla di Orlando. Lei e George Floyd sono stati gli unici argomenti trattati da Paul George ad esempio nell’intervista post-partita dopo l’amichevole con i Magic, in cui la sua spalla in ripresa è passata in secondo piano: “Ne stanno morendo tanti come loro fuori di qui, il mio pensiero sarà costantemente rivolto a quello. Solo a problematiche del genere”. L’elenco dei giocatori è sterminato e tutti chiedono soltanto una cosa: giustizia.

Cosa è successo a Breonna Taylor?

Il caso di Breonna Taylor è diverso nella forma (ma non nella sostanza e soprattutto nelle cause scatenanti) a quello di George Floyd. La violenza della polizia statunitense e i pregiudizi nei confronti degli afroamericani diventano un mix spesso letale anche per gli innocenti. Per chi non ha altra colpa di avere il colore della pelle diverso da quello degli agenti che le sono entrati in casa, come successo a Louisville lo scorso 13 marzo. Breonna è morta a seguito di una sparatoria compiuta da tre agenti durante un’irruzione fatta dopo mezzanotte nel suo appartamento. I poliziotti infatti avevano ottenuto un mandato di perquisizione dopo aver visto un sospettato consegnare un pacco a casa della ragazza di 26 anni. Nulla più, basta questo per presentarsi di notte senza avvisare, né bussare e provare a cogliere dei presunti delinquenti in flagrante. Dopo aver sfondato la porta con un’ariete, i poliziotti si sono ritrovati Kenneth Walker - il fidanzato di Breonna - puntare una pistola contro di loro, convinto di avere di fronte dei ladri a cui ha iniziato a sparare con l’arma detenuta legalmente in casa sua. I poliziotti hanno sparato alla cieca, colpendo per ben otto volte l’incolpevole Breonna. Omicidio? No, legittima difesa dopo che Walker aveva sparato loro addosso, ma la ricostruzione fatta dagli agenti era troppo fragile per reggere. È bastato fortunatamente rendere noto il fatto, esploso e diventato di dominio pubblico dopo l’uccisione di George Floyd. Una morte silenziosa, ma che ben racconta quanto sia difficile la vita per gli afroamericani. Uno dei tre poliziotti - quello che ha sparato 10 colpi senza mirare - è stato licenziato, ma tutt’ora è libero di andare in giro e non è stato arrestato. Le manette ai suoi polsi sono la richiesta più impellente, fatta letteralmente da tutto il mondo NBA, da LeBron James in giù. Una storia emblematica, su cui la lega non vuole far calare il silenzio.