Scottie Pippen, il ‘numero uno tra i numeri due’ compie sessant’anni

Elenco di giocatori con più anelli di campione Nba alle mani rispetto a Scottie Pippen: Bill Russell, Sam Jones, Tom Heinsohn, K.C. Jones, Satch Sanders, John Havlicek, Jim Loscutoff e Frank Ramsey, tutti protagonisti, seppur con ruolo e peso decisamente diverso, nell’epopea dei Celtics degli anni ‘60, e Robert Horry. Punto. Non che la carriera di un giocatore possa essere valutata solo sulla base dei titoli vinti, ovviamente, eppure in Nba, per molti versi vittima di quella che sull’altra sponda dell’Atlantico viene definita ‘ring culture’, spesso è così. E allora, però, ragionando sulla base di questa ‘ring culture’, il nome di Pippen dovrebbe comparire con continuità anche nelle discussioni tra i migliori giocatori di sempre, mentre nella realtà non è affatto così. Spiegare il motivo di questa esclusione sarebbe complicato e allo stesso tempo semplice. Pippen, che oggi taglia il traguardo dei sessant’anni, paga prima di tutto il fatto di non essere stato, se non per un tratto brevissimo del suo viceversa lungo percorso in Nba, l’uomo simbolo della squadra per cui ha giocato. E non lo è mai stato perché si è trovato a giocare, e soprattutto ad avere la possibilità di vincere, al fianco di Michael Jordan, e ha deciso di trarre il meglio da questa possibilità, diventando il ‘numero due’ perfetto al fianco di quello che è stato e rimane il ‘numero uno’ per eccellenza. Pippen e Jordan Raccontare di Pippen senza nominare Jordan è di fatto impossibile, perché il sodalizio cestistico tra i due è stato indissolubile. Pippen, arrivato in Nba tre anni dopo Jordan e quindi atterrato in una versione dei Bulls già in mano al numero 23, ha praticamente modellato il proprio stile di gioco attorno alle caratteristiche e alle esigenze del compagno. Così ha quasi sempre sgravato Jordan della marcatura dell’avversario più pericoloso tra gli esterni, a partire da Magic Johnson durante le prime Finals vinte nel 1991, operando da ‘connettore tattico’ tra Jordan e il resto dei compagni per colmarne infine i passaggi a vuoto, va detto piuttosto rari. Passaggi a vuoto che invece sono stati uno dei punti deboli proprio di Pippen, vittima a volte di una consistenza caratteriale più fragile rispetto a quella tecnica e fisica, con il famoso ‘migrane game’ in gara-7 delle finali della Eastern Conference perse contro i Pistons nel 1990, dove un pesante mal di testa ne segnava una delle peggiori prestazioni individuali di sempre, a pesare sul suo curriculum. Quella di Pippen e Jordan a Chicago, però, è naturalmente prima di tutto una storia di successi grandiosi, come i due ‘threepeat’ in Nba e l’oro olimpico di Barcellona con Team USA, tutti vissuti all’insegna di una simbiosi quasi totale sul campo a cui ha corrisposto un rapporto parecchio più altalenante lontano dal parquet. Una simbiosi che, mentre i due entravano nella leggenda del basket, ha forse impedito di comprendere fino in fondo la grandezza di Pippen come giocatore a sé stante, affiorata in maniera evidente solo quando Jordan, tra l’ottobre del 1993 e la primavera del 1995, ha deciso di prendersi una pausa dal basket lunga diciotto mesi. Pippen senza Jordan In pochi lo ricordano, ma nell’unica stagione a Chicago vissuta in pieno senza Jordan, quella 1993-94, Pippen ha dimostrato di poter recitare eccome la parte di stella della squadra. Certo, i Bulls, allora reduci da tre titoli consecutivi, si fermavano al secondo turno dei playoff, peraltro risultato replicato l’anno successivo anche dopo il rientro di Jordan avvenuto ad un mese dal termine della regular season, ma Pippen chiudeva al terzo posto nella corsa al premio di Mvp dietro solamente ai due totem Hakeem Olajuwon, che di lì a poco avrebbe vinto anche il suo primo titolo Nba, e David Robinson. In quei 22 punti, 8.7 rimbalzi, 5.6 assist e 2.9 palle rubate di media a partita si trova forse la prova più evidente del talento da ‘all-around’ di Pippen, che troverà conferma anche dopo l’addio a Chicago dell’estate del 1998. A 34 anni, e con nelle gambe un decennio abbondante di pallacanestro vissuta al massimo dell’intensità, Pippen trascinerà infatti i Blazers a una sola vittoria dall’accesso alle Finals, risultando primo sia per presenze che per minuti giocati a partita all’interno di un roster dall’età media ben più contenuta. A negargli la possibile gioia di un settimo titolo Nba, ironia della sorte, sarà proprio l’antico mentore Phil Jackson, nel frattempo passato dalla panchina dei Bulls a quella dei Lakers. Un rimpianto, quello maturato con Portland nel 2000, che si aggiunge ai tanti relativi a scelte scellerate dal punto di vista economico, culminate con il disastroso accordo sottoscritto con Chicago a inizio degli anni ’90 che l’ha reso uno dei giocatori più sottopagati di sempre per quasi un decennio. Scelte che, abbinate a una storia famigliare complicata e turbolenta fin dal principio, l’hanno poi costretto a un finale di carriera che oggi verrebbe definito ‘cringe’, con il ritorno posticcio ai Bulls e un tour d’esibizione in Nord Europa a rappresentare capitoli non proprio memorabili. Un giocatore troppo avanti con i tempi Il più grande rimpianto di Pippen, però, al di là delle controversie relative ai guadagni inadeguati rispetto al suo talento e a quelle che hanno caratterizzato la sua vita provata, consiste forse nel fatto di essere stato molto in anticipo sui tempi. La Nba dove giocava lui, infatti, era dominata da centri come Kareem Abdul-Jabbar prima e Shaquille O’Neal e Hakeem Olajuwon poi o da guardie come Jordan oppure Isiah Thomas, Clyde Drexler e Magic Johnson. Lui, ala di 203 centimetri in grado di fare praticamente tutto su entrambi i lati del campo, era un prototipo quasi unico all’epoca e di cui non era possibile comprendere del tutto il possibile utilizzo, mentre sarebbe stato perfetto per il basket contemporaneo, fatto di ruoli sempre meno definiti e cambi difensivi continui che ha iniziato a prendere piede proprio quando lui si è ritirato. Forse è anche questo uno dei motivi per cui Pippen, ancora oggi, viene celebrato con molta meno enfasi rispetto a molti colleghi che hanno vinto molto meno di lui, anche se il suo posto prima tra i migliori cinquanta e poi tra i migliori settantacinque giocatori nella storia della Nba non è mai stato in discussione. Forse perché Pippen era davvero troppo in anticipo rispetto all’evoluzione del gioco, forse perché era per tanti aspetti diverso da tutti i giocatori della sua epoca. Di certo c’è che è stato e rimane unico per ciò che ha fatto e per come l’ha fatto. Anche a sessant’anni, anche se ormai è quasi scomparso dai radar della Nba, poco adatto a ricoprire ruoli da allenatore o dirigente e ancora meno a fare da opinionista televisivo, con il figlio Scotty Jr., che dal padre ha ereditato solo una porzione molto limitata di talento e di esuberanza fisica, a portare avanti un nome che rimarrà per sempre nella storia del basket.

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Dario Costa