Allen Iverson, VICE magazine e il fascino perverso della nostalgia

Sarà che i Philadelphia 76ers hanno lanciato proprio in questi giorni le loro divise Hardwood Classic per la nuova stagione, resuscitando colori e logo sfoggiati con orgoglio nella stagione 2000-01, quella del viaggio alle Finals e di Iverson MVP; e sarà che proprio in questi giorni mi è capitato di vedere il documentario che racconta ascesa e crollo del magazine che meglio di tutti quegli anni li ha raccontati - o meglio ancora, contribuito a definirli . Sta di fatto che un sentimento da cui di solito tendo a stare alla larga – la nostalgia- si è prepotentemente fatto avanti. Non tanto perché, wow, si aveva 25 anni in meno e – Eskimo o non eskimo, come cantava qualcuno – si aveva “tutto per possibilità”, ma perché se paragonati al clima attuale quegli anni sembrano avere una marcia in più. What cooler than being cool? – The Outkast, “Hey ya” Dice Shane Smith, uno dei tre fondatori di “VICE”: “Per quasi un decennio una ventina di isolati a Brooklyn sono stati il posto più cool del mondo”. E ancora: secondo Eddie Huang, autore e voce narrante del documentario: “VICE ha avuto successo per diverse ragioni, ma quel che vendeva, se chiedete a Shane Smith, è un certo essere cool”. Ora prendiamo questo periodo storico – fine anni ’90, primi Duemila – trasportiamolo sui parquet NBA e la prima immagine che viene in mente se si parla di coolness è proprio quella di Allen Iverson e di quei suoi Philadelphia 76ers. È del marzo ’99 la sua più celebre copertina di SLAM , per l’afro sfoggiato dal n°3 dei Sixers e per il titolo scelto . È un titolo che gioca sulle parole, soul, anima – quella di un giocatore che dentro sembra avere qualcosa che gli altri non hanno – e ice, che nel gergo afroamericano è il termine per indicare i diamanti , rigorosamente al collo del prodotto di Georgetown anche in quella iconica cover. Che oggi quelle tre lettere, oltreoceano, abbiano come prima associazione non più quella con la libertà reclamata da un mondo - quello black/hip-hop – in super ascesa in quegli anni quanto con un acronimo – Immigration and Customs Enforcement – che spesso è sinonimo di un’immagine opposta, di libertà violate e calpestate, è forse un triste segno dei tempi. Ne volete un altro? All’alba di quel millennio i Sixers di Allen Iverson marciano trionfali verso la finale NBA ; oggi il termine Sixers in America fa più notizia con davanti una “J” per indicare gli insurrezionisti che il 6 gennaio 2021 si sono resi protagonisti di un’altra marcia, di tutt’altro tipo – quella conclusa con il vergognoso assalto al Campidoglio. E chi c’era a fomentare i “J6ers”? Un gruppo ormai conosciuto ovunque con il nome di “Proud Boys”. A fondarli, nel 2016, è stato Gavin McGinnis. Che con Shane Smith è stato uno dei creatori di VICE magazine. Un linguaggio diverso Ma c’è un’altra copertina di un magazine, sempre con Allen Iverson protagonista, che è passata alla storia. Stavolta si tratta di quello che al tempo era il magazine ufficiale della NBA, “Hoop”. È il 2001, e per il numero natalizio – storicamente uno dei più venduti – si sceglie di mettere in prima pagina “The Answer”. Solo che i suoi tatuaggi – oggi solo scriverlo fa sorridere – spaventano. E quindi vengono tolti . “Airbrushed”, il termine inglese per definirlo; una magia di Photoshop, diremmo noi. “Hey, non potete farlo”, si lamenterà Iverson. “Non è giusto. Io sono quello che sono. Non potete cambiarmi. Chi vi ha dato l’autorità di farlo?”. Non passerà molto prima che la NBA, dietro iniziativa di David Stern, inserirà anche un dress code obbligatorio per i giocatori che assistono alla partita dalla panchina in borghese – vietate collane vistose, qualsiasi forma di abbigliamento XXL, figurarsi i “do rag” . Torno a quanto viene detto in “VICE is broke”: “Per definizione, quando si assiste a un cambio della guardia, nasce un nuovo linguaggio”. Il linguaggio a cui si riferisce Shane Smith è quello del mondo della comunicazione, agli albori di una rivoluzione – quella digitale – che “VICE” cavalcherà prima e meglio di tutti, evolvendosi da rivista cartacea a digital media company; nel caso di Iverson il linguaggio è quello della moda o dei tatuaggi, entrambi strumenti di espressione individuale. “Ogni generazione assiste a un cambio della guardia. Woodward e Bernstein [i celebri autori dell’inchiesta del Watergate, che portò alla fine della presidenza di Nixon, erano i primi anni ’70, ndr] erano i punk della loro generazione. E ora sono diventati la vecchia guardia”, riflette ancora Smith. Vale lo stesso per Iverson, allo spettro opposto del playmaker che ha dominato gli anni ’90, John Stockton, e sfrontato abbastanza da voler mettere nel suo mirino niente meno che Michael Jordan . Il nuovo crea, il vecchio ripete Ecco, quello che oggi sembra mancare è un po’ di quella sfrontatezza, di quella voglia di rischiare, di buttarsi senza rete, atto che fa paura ma che alla fine è forse necessario perché possa nascere qualcosa capace di segnare i tempi - come l’avventura di Iverson coi Sixers e le irriverenti pagine di VICE. E allora forse non è un caso che oggi le “nuove” maglie di Philadelphia siano identiche a quelle vecchie – lo stesso si può dire per gli abeti verdi su sfondo nero indossati oggi da Anthony Edwards e ieri da Kevin Garnett o da Latrell Sprewell . Quando si guarda troppo indietro e non avanti non è mai un buon segno, pur avendo ben chiaro ragioni di marketing e di business. Perché la parola nostalgia nasconde, nella sua etimologia, tanto il termine “nóstos” che il termine “àlgos” e sì, forse ci si fa del male a guardare troppo al passato e non al futuro. Ancora Huang, raccontando il crollo di VICE, passato da una valutazione vicina ai 6 miliardi di dollari alla dichiarazione di bancarotta: “La gente si chiedeva: ‘Come facciamo a ricreare quella magia? Quali formule, quali algoritmi possono aiutarci a rifare tutto da capo?’. Invece l’unico modo di restare cool è dire: ‘No, quel che è fatto è fatto. Ora facciamo qualcosa di nuovo’”. Vale anche per una maglia NBA.

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Mauro Bevacqua