Il tumore, le Olimpiadi, l'amore e la paura: il racconto di Nathalie Moellhausen

E’ sabato 27 luglio 2024, al Grand Palais di Parigi va in scena il torneo di spada femminile dei Giochi Olimpici e gli occhi sono tutti puntati sulle atlete di spicco che potrebbero giocarsi una medaglia. Tra queste c’è Nathalie Moellhausen, numero 4 del ranking mondiale, spadista italo-brasiliana, che dopo aver iniziato la carriera con la nazionale azzurra, con la quale è stata anche campionessa mondiale a squadre, dal 2014 ha deciso di vestire i colori del Brasile. L’attenzione è sul suo primo match, contro la canadese Ruien Xiao. Nathalie inizia l’assalto, ma si accascia sulla pedana tenendo con il fiato sospeso tutto il Grand Palais. Concluderà il match sconfitta 11-15, ma quello che nessuno poteva sapere era che l’atleta si era presentata alla sfida, giocandone, fuori dalla pedana, una ancora più importante. “Ho scoperto di avere un tumore a gennaio 2024, esattamente un anno fa – racconta Nathalie - Dopo la prima diagnosi, che peraltro non era neanche quella giusta perché quella è arrivata solo dopo 4 mesi, non mi hanno detto che avrei dovuto smettere. Mi hanno detto che avrei potuto tenerlo sotto controllo e, monitorando i dolori, avrei potuto continuare l’attività sportiva. E così ho fatto, per me non c’erano altre opzioni. Anche perché eravamo in piena qualificazione olimpica, e nella mia testa non c’era la possibilità di considerare uno stop. Ho scoperto del tumore a gennaio, a febbraio sono andata a fare la gara di Coppa del Mondo nonostante avessi un dolore importante che mi aveva tenuta 5 giorni a letto. Dovevo completare la qualificazione, non esisteva per me altra cosa”. La vita le è cambiata in un secondo. Le era stato diagnosticato un tumore al coccige, sì benigno ma che le stava causando non pochi dolori e problemi alla sensibilità della gamba. Nessun piano B o possibilità di tirarsi indietro. Quello non l’ha nemmeno considerato. L’obiettivo era il titolo che mancava in bacheca e che tanto sognava. “Mi rendo conto solo ora di essermi esposta a qualcosa di molto rischioso – prosegue seria - Noi atleti viviamo un po’ in una dimensione parallela, e quando ci mettiamo la 'maschera' del campione che sta preparando le Olimpiadi tendiamo a prendere tutto ciò che ci gira intorno come tappe di un percorso che ci porta alla meta. In quel momento ero la numero quattro del ranking mondiale, si stava avvicinando l’Olimpiade e nella mia testa pensavo che qualunque cosa stesse succedendo in realtà era soltando una prova per potermi rafforzare mentalmente. Non mi ero data altre possibilità. Ovviamente monitorandolo. Ho dovuto fare delle PET scan per controllare che non fosse altrove, che non fosse un tumore maligno. Il problema è che la preoccupazione è cresciuta dopo. Nella prima fase, da gennaio a maggio, siccome il dolore era intermittente a intervalli di 10/15 giorni, la situazione era sotto controllo. Poi i medici hanno cominciato a vedere che stava crescendo in maniera spropositata, dopo quattro mesi si sono resi conto che era sì un tumore benigno, ma rarissimo e difficilissimo da diagnosticare. In quel momento le mie condizioni continuavano a peggiorare, la mia gamba si addormentava, perdevo la sensibilità nella parte destra. Abbiamo iniziato a preoccuparci. Il medico mi ha detto che rischiavo di avere una disfunzione urinaria, i nervi avrebbero potuto saltare e avrei potuto correre il rischio, anche operandomi, di rimanere con un sacchetto esteriore. Ero stata messa in allerta, ed è quello che a una settimana dall’Olimpiade mi ha spinto a fare la biopsia. Anche se devo dire la verità: dentro di me, non so perché, nonostante fosse tutto molto duro, molto faticoso e soprattutto molto doloroso, sentivo che il mio sistema non sarebbe mai esploso così a ridosso del mio appuntamento più importante”. La sensazione che tutto sarebbe andato per il verso giusto l’ha accompagnata fino alla fine. La sua era una vera e propria missione, le Olimpiadi a Parigi il suo unico obiettivo. Nonostante tutto, l’amore per il suo sport ha vinto sulla paura, e lei è andata avanti. Più forte della malattia, più forte del dolore. Il coraggio di una campionessa che lotta per realizzare il suo sogno, andando oltre i suoi stessi limiti. “Forse mi ha guidata la mancanza di paura, e soprattutto il mio impegno, il desiderio che ho sempre avuto di andare in fondo ai miei obiettivi e di poter dare tutto fino all’ultimo respiro. Il che è sicuramente rischioso ma per me c’era solo quel momento lì. Lo facevo per me stessa, ma non solo. Lo dovevo anche al mio team, quello che ha lavorato e lavora anche oggi con me. Era importante, avevamo fatto un lavoro pazzesco per tre anni!”. Senza se e senza ma. “Per me le Olimpiadi di Parigi erano una vera e propria missione, forse è quella la cosa che mi ha dato forza. Oltre all’intervento per togliere il tumore, programmato il lunedì dopo la gara, ne ho subìto un altro qualche giorno prima di scendere in pedana. Era un’operazione di preparazione all’intervento che avrei dovuto fare dopo l’Olimpiade, ma era con anestesia totale. Lì mi hanno detto che non avrei potuto partecipare alle Olimpiadi. C’era l’1% di possibilità. Mi hanno proprio detto: 'Se ti risvegli bene da questa prima operazione potrai decidere tu se andare, ma le percentuali sono davvero quasi nulle. Devi credere in un miracolo'. Quella notizia mi ha messo ko: ho gareggiato sabato 27 luglio, la biopsia l’ho fatta il giovedì della settimana prima, e l’operazione con anestesia totale per controllare la vascolarizzazione del tumore, la domenica. Sei giorni prima della gara”. Quell’1% di partecipare alle Olimpiadi Nathalie ha voluto andarselo a prendere a ogni costo. “C’è stata una parte di me che ha detto 'lo deciderà il destino'. In qualche maniera mi sono rilassata, non ho opposto resistenza a quello che mi ha detto il medico, anzi, l'ho preso in considerazione molto seriamente – continua Nathalie, emozionata a rivivere quei momenti - Ma è stato come quando da bambina credi alle magie. Ho pensato che alla fine qualcosa sarebbe successo, che sarei andata in pedana, perché era un desiderio troppo grande. Il Grand Palais per me rappresentava tantissimo, era un luogo molto speciale, lì avevo vinto la mia prima medaglia individuale ai Mondiali per l’Italia. Era la mia casa. L'idea di non poter andare lì a difendere il mio tempio non lo potevo concepire, ero veramente dentro il mio film e questo episodio faceva parte della storia. Certo, non mi aspettavo un finale così drammatico, quella è stata la cosa che poi ha fatto più male”. Da anni Nathalie Moellhause vive e si allena a Parigi, la considera a tutti gli effetti casa sua. Lì avrebbe voluto concludere la sua carriera, con la medaglia olimpica che tanto mancava al suo nutrito palmares che vanta un oro e un bronzo mondiale a squadre e un bronzo individuale con l’Italia, oltre che tre medaglie agli Europei e un oro individuale ai Mondiali per il Brasile. L’operazione 6 giorni prima di salire in pedana l’ha però costretta a fare i conti con qualcosa che non aveva previsto: la possibilità di fallire. “I primi due giorni dopo l'operazione mi allenavo nel corridoio dell'albergo per riprendere le sensazioni. Anche la squadra italiana mi ha vista mentre mi allenavo lì ma nessuno sapeva niente. Già i giorni prima, a casa, quando mi stavo allenando, sentivo che c’era qualcosa che non andava: avevo il battito cardiaco strano, mi stancavo subito, in più ero sotto cortisone e morfina, a dosi importanti, per alleviare il dolore. Però non avevo ancora fatto gli assalti, non mi ero ancora confrontata con un avversario. Quando il giorno prima della gara sono andata all'allenamento ufficiale del Villaggio Olimpico è stato un momento terrificante, perché mi sono messa in pedana ad allenarmi con dei ragazzi che erano lì e ho cominciato a sentirmi male. Sentivo proprio il cuore che andava mille”. Ma non poteva arrendersi, neanche in quel caso. “Quando mi hanno preso la pressione era bassissima, ho detto che non avevo ancora mangiato, che mi sarei ripresa. Poi sono andata nella mia stanza e sono rimasta tutto il giorno lì senza dare troppe notizie, perché non volevo trapelasse nulla, sapevo che mi avrebbero impedito di andare in pedana. Mi sono convinta che con una notte di riposo per il mattino sarei stata pronta. Durante l'anno avevo passato dei momenti in cui avevo male alla gamba, poi ero andata in pedana e avevo fatto medaglia in Coppa del Mondo. Avevo questa idea che la mia testa, il mio spirito, la mia anima, mi avrebbero comunque salvato dalle mie condizioni fisiche. Poi appena sono arrivata in pedana e ho dato la prima botta, mi sono resa conto che non ne avevo più. Quel momento è stato terribile, sentivo che non sarei riuscita ad andare in fondo, nonostante la prima stoccata l'avessi messa io. Sono andata avanti, ho resistito perché volevo capire se sarei riuscita a proseguire. A un certo punto non vedevo più, avevo perso lucidità, sentivo il cuore alterato e non stavo bene. Mi sono fermata. In quel momento mi è passata una vita intera davanti. Ho pensato subito a mia nipote, che fa scherma e a cui avevo fatto una promessa, perché mi sono convinta che stesse assistendo a qualcosa di traumatico: vedere sua zia che crolla in pedana. E’ stato un momento molto difficile per tutte le persone che erano lì con me, ma soprattutto per me. Era il mio sogno e mi è crollato il mondo addosso”. Cosa hai pensato in quel momento? “E’ stato dantesco. E’ stato l’unico giorno delle Olimpiadi in cui pioveva, sembrava una giornata di novembre, un freddo allucinante. Sono stata caricata su una carrozzina e portata fuori sotto la pioggia, dall’ambulanza verso l’ospedale. Mi ricordo che ho guardato il cielo e ho pensato: 'Ma cosa sta succedendo? Io dovevo essere al Grand Palais, sul podio, e invece sto andando in ospedale'. E’ stato davvero tosto”. Anche in quel caso il primo pensiero non va al dolore o alla preoccupazione. Quello che passa per la testa di un campione è, prima di tutto, l’aspetto sportivo e il sogno infranto. “Ho capito che noi atleti ci prepariamo una vita per vincere, per stare bene, per essere pronti a quel momento. Ma in realtà non dobbiamo prepararci per essere perfetti, dobbiamo prepararci per essere pronti a tutto ciò che succede. Il grande lavoro non è prepararsi per l’Olimpiade, ma lavorare sull’aspetto psicologico nel caso in cui questo non succeda. Perché è realmente traumatico. La cosa più complicata per me è stata proprio lavorare interiormente per elaborare quello che era successo. E accettare di chiudere così la mia carriera, con quell’immagine e quel ricordo che per i mesi a seguire è stato un vero lutto. Non come avevo sognato, con una medaglia. Avevo gli incubi e non dormivo la notte”. Due giorni dopo il malore in pedana, il 29 luglio, ha subìto l’intervento per asportare definitivamente il tumore. Ora che sono passati dei mesi e che si è ripresa completamente, la tristezza e la delusione per non aver concluso come sperava iniziano a farsi da parte, lasciando spazio alla consapevolezza di essere stata più forte della malattia. “Dopo tutto quello che ho passato, oggi penso di aver fatto tutto ciò che potevo. Considerando come sono stata prima e dopo l’operazione, sono contenta perché ho capito di cosa c’è bisogno per poter superare determinati momenti così difficili nella vita. Sono felice di esserne uscita, ovviemente con l’aiuto di chi mi vuole bene, ma soprattutto grazie alla forza che ho trovato dentro di me. Per una sportiva la medicina sarebbe stata tornare dopo l’operazione e vincere una gara di Coppa del Mondo, per riparare a quella sconfitta. Ma non sarebbe stato giusto. Sono fiera di essere riuscita a chiudere quella porta e a ricominciare chiudendo la carriera, senza bisogno di un palliativo, ma lavorando su me stessa”. Una parentesi che ha messo a dura prova Nathalie Moellhausen e che l’ha cambiata, nel modo di vivere la vita e nel modo di godere di ciò che le sta intorno. L’operazione e il recupero sono state complicate, ma reinventarsi dopo aver dedicato l’intera vita alla scherma è stato l'aspetto più difficile. “Ora sto alla grande, fisicamente sto bene. Sono del tutto fuori pericolo, sono riusciti a rimuovere tutto quanto ma sono ancora in una fase di controllo. Ci vorranno 6/8 mesi. Mi hanno salvato gli allenamenti post operazione. Nessuno sportivo dopo un’Olimpiade ha voglia di allenarsi ancora , io invece l’ho fatto ogni giorno. Mi ha aiutata a riprendermi fisicamente e mentalmente, non per un obiettivo sportivo ma semplicemente per me stessa e per il mio benessere. Perché la ripresa è stata estremamente faticosa e dolorosa, ma è stata una delle esperienze più importanti della mia vita, da cui oggi sono in grado di ripartire per tutto quello che il futuro riserverà”. Un futuro che la vedrà completamente assorbita nei suoi progetti. Nathalie è stata una grande campionessa, ma non solo, ha da sempre dedicato gran parte del suo tempo fuori dalla pedana anche ad altri lavori, ugualmente stimolanti e importanti. Donna intelligente e poliedrica. Atleta, sì, ma anche imprenditrice e artista. Il suo lavoro artistico da anni si esprime attraverso la creazione di maschere particolari, uno strumento essenziale della scherma, ma soprattutto metafora e mezzo che utilizza per veicolare messaggi universali da condividere. “Da 12 anni ho costruito un lavoro parallelo a quello della scherma, anche se ugualmente legata al mio sport – spiega – La cosa difficile dopo le Olimpiadi è stato dare continuità a questo progetto e a tutti i lavori artistici e sociali. Ora ho il tempo per dedicarmi completamente al mio progetto artistico, una cosa che mi sta davvero a cuore. Dopo quell’episodio, ho dovuto trovare nuove declinazioni alle mie maschere, che sono il mio modo di esprimere me stessa oltre a uno degli strumenti importanti della scherma. Sono la metafora attraverso la quale mi racconto. Finchè ero atleta lavoravo parallelamente ai miei progetti artistici un po’ nell’ombra, ora invece posso dedicarmici a tempo pieno. I miei lavori richiedono sempre un momento in cui devo rimettermi 'dentro la maschera' per poter sentire e costruire, perché sono le mie esperienze che mi permettono di connettermi e creare messaggi che sono personali, ma che attraverso la maschera diventano universali. L’ultima performance che è uscita racconta la lotta tra l'amore e la paura: da una parte la maschera dell’amore, dall’altra quella della paura, in mezzo ci sono io senza maschera. Sono di fatto io che lotto contro me stessa. Rappresenta proprio quel dualismo nel quale ci ritroviamo tutti, perché l'amore e la paura sono due energie che non riguardano solo chi sale in pedana. Attraverso questa performance volevo rappresentare il conflitto quotidiano quando desideriamo qualcosa, quando ci ritroviamo di fronte al desiderio di credere che l'amore ci permetterà di raggiungere ogni obiettivo, ma anche alla paura di non riuscirci. Diciamo che in questa lotta continua nell'ultimo anno sono riuscita a far prevalere l’amore di fronte a tutto, come atto di fede e di fiducia totale in ciò che sento e in ciò che sono. In tutti i miei momenti migliori, sono riuscita ad essere campionessa del mondo portando la maschera dell’amore, non quella della paura”. E poi ci sono i progetti legati al sociale. Uno su tutti, quello di rendere più democratico uno sport come la scherma, renderla più popolare e più vicina alle persone, ma soprattutto aiutare i giovani ragazzi che iniziano questo sport. “Per me la cosa più importante è creare un sistema che possa essere funzionale per le generazioni future – conclude orgogliosa - E’ un lavoro che richiede anni di ricerca, investigazioni di mercato, comprensione di cosa è possibile fare e cosa no. Quello che mi interessa è creare una struttura che possa peremettere alle generazioni che verranno di non ritrovarsi in situazioni in cui, quando sei nel periodo a ridosso dell'appuntamento olimpico, non ci si riesca a esprimere nel migliore dei modi perché non ci sono gli strumenti adeguati per farlo. L’atleta di scherma è un professionista a tutti gli effetti, non si può continuare a trattare questo sport come se fosse amatoriale. E’ un discorso che certamente cambia da Paese a Paese, ma c’è anche un discorso globale alla base, c’è un sistema che funziona poco. La mia missione è fare tutto il possibile per far migliorare le cose. E’ una cosa che ho sempre avuto a cuore, e ora che non ho più 40 ore di allenamento a settimana da fare potrò dedicarmici come si deve!”. Sul futuro, ci sono delle anticipazioni? “La mia casa di produzione si sviluppa lungo vari progetti, sociali, artistici e imprenditoriali. Il nostro lavoro non si ferma mai. Il mio progetto futuro è quello del presente, voglio continuare a comunicare a modo mio, attraverso le maschere, e poter andare avanti a condividere i miei messaggi. C’è un nuovo lavoro, che uscirà a breve, che rappresenta proprio il mio futuro, la mia nuova veste”. Dalle sue parole si capisce che qualcosa di nuovo bolle in pentola, ma bisognerà aspettare. Intanto Nathalie Moellhausen si gode la sua 'nuova vita' lontano dalla pedana, ma indossando sempre nuove maschere.

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Il tumore, le Olimpiadi, l'amore e la paura: il racconto di Nathalie Moellhausen

Andrea Colnago