Davide Ghiotto: "Io, l'oro mondiale, Schopenhauer e ora le Olimpiadi"

Non è che proprio ce lo si aspetti, di essere ringraziati per un’intervista. Dimostra una bella umiltà, soprattutto se l’interlocutore ha vinto il suo ennesimo oro. Parliamo di Davide Ghiotto, senza alcun dubbio il miglior pattinatore su ghiaccio non tanto italiano, quanto del mondo: uno che ha battuto record su record . Ecco, non ha fatto in tempo a indossare la medaglia d’oro di Hamar per aver vinto un’altra gara dei 10mila di pattinaggio che già pensa al prossimo obiettivo, i Giochi Olimpici di Milano-Cortina. Il suo segreto? Dire ‘la passione’ è lapalissiano. Lo spiega a Sky Sport Insider direttamente lui, che è sì campione sui pattini. Ma anche filosofo. Ma intanto si celebra un altro podio. Che effetto le fa? “Senza dubbio, bellissimo. Volevo chiudere con un oro, speravo di riuscirci e ce l’ho fatta. Volevo vincere fortemente questa gara anche perché i 10mila rappresentano la disciplina in cui riesco meglio, almeno negli ultimi anni. Questa vittoria mi fa crescere e mi proietta con forza verso i prossimi Giochi Olimpici: devo ringraziare i miei due allenatori, Maurizio Marchetto e Matteo Anesi, perché quando finisci una stagione senza rimpianti, vuol dire che puoi preparati bene per la prossima. Rammarico? Sì, il quarto posto nella gara dei 5mila. Ma non può essere sempre Natale. Questo oro però mi aiuterà a capire i miei punti deboli.” Li ha già analizzati? “In parte, ma li approfondiremo. Non ho problemi a parlarne, nel nostro sport segreti non ce ne sono: bisogna pattinare nel modo più veloce possibile. Facciamo tutti la stessa cosa. Io posso dire questo, anche per chi si avvicina a queste competizioni: il difetto fisico lo alleni; ma il punto debole di solito è più mentale o motivazionale. Ci sono dei momenti in cui sai di avere la vittoria in tasca e allora spingi ancora di più, altri in cui fai più fatica. L’oro di Hamar è arrivato pur non essendo proprio al massimo della forma, sapevo che la vittoria sarebbe stata possibile ma mi dovevo concentrare fino alla fine. Anche perché nei 5mila non avevo fatto bene, sentivo più pressione. Ci vogliono le gambe, certo. Ma anche molta testa e molto cuore.” E come si allenano? Qual è la sua giornata tipo? “Premetto questa cosa: questo sport è al momento il mio lavoro. Sono arruolato nelle Fiamme Gialle che mi permettono un allenamento costante nell’arco di tutto l’anno. Se parliamo di allenamento, parto dalle gambe: la nostra stagione comincia ad aprile e termina a marzo, settimana più o settimana meno. Durante la primavera o l’estate, la parte più di cardio arriva con la bicicletta: sono un appassionato di ciclismo, dovrei fare allenamenti di 2/3 ore ma spesso diventano di 4/5, mi piace uscire con i miei compagni e allenarmi con loro. Farlo in gruppo dà anche più motivazione, a volte non è semplicissimo cominciare, soprattutto quando piove o fa freddo. Verso luglio poi andiamo in Germania, a Inzell, dove c’è una pista di pattinaggio sul ghiaccio coperta. A questo lavoro, alterniamo sempre la palestra. Tra una cosa e l’altra ci sono circa 30/35 ore settimanali di allenamento. L’aspetto mentale? Per me conta soprattutto il confronto. Dire come ci si sente, ascoltare e capire. Solo questo aiuta a uscire da situazioni di potenziale crisi: come sportivi, abbiamo spesso a che fare con la competizione e quindi possiamo cadere in spirali non semplici da cui riemergere. Ma la vita in generale è così: dire le cose aiuta molto.” È stato oggetto anche della sua tesi, giusto? ‘Etica e suicidio’. Un tema molto forte. “E molto complesso. La filosofia è parte della mia vita da sempre: era la mia materia preferita alle superiori, e quando mi sono trasferito a Trento per pattinare su ghiaccio , ho scelto di studiarla all’Università. Avevo bisogno di qualcosa che mi permettesse di aprire la testa e di svagarmi, che non mi desse altre fonti di stress. Avevo anche pensato all’insegnamento, nel caso in cui non fosse andata avanti la mia carriera sportiva. C’è una corrente filosofica, quella del sofismo, che faceva del pluralismo delle idee e del linguaggio la sua forza. È un concetto tanto semplice quanto non banale: io stesso mi reputo fumantino, mi incendio subito quando c’è qualcosa che non mi convince. Ma come mi accendo, mi spengo, e dico: ‘Non siamo d’accordo? Parliamone!’. La tesi sul suicidio parte anche da questo: ci sono problemi che non vengono affrontati e possono avere esiti tremendi. I più terribili.” Per un pattinatore, che di fatto pratica uno sport individuale, cosa vuol dire litigare con un compagno di squadra? “Durante la stagione passiamo tanto tempo insieme. Soprattutto quando andiamo in trasferta per allenarci, come quando a luglio siamo in Germania. Le discussioni sono delle più stupide, ma quando sei stanco diventano quasi insormontabili: la cucina sporca, la maglietta non lavata lasciata in sala… Alla fine, siamo come dei coinquilini, come quando si è all’università. Ma le cose si superano sempre.” Sembra quasi già di sentirla parlare da allenatore… “Non è assolutamente una cosa a cui sto pensando. Anzi! A dirla tutta, ho 32 anni ma devo ancora capire cosa voglia fare… da grande. Il mio obiettivo per ora è Milano-Cortina, sarà la mia terza volta a dei Giochi Olimpici e posso dire che la preparazione, anche mentale, è molto dura: ci sono atleti bravissimi che spesso falliscono questo appuntamento. Dopo l’edizione, tirerò una riga e vedrò: bisognerà capire come gestire la mia vita, anche economicamente. Noi atleti abbiamo la fortuna di avere uno stipendio regolare e qualche sponsor, ma una volta terminato con l’agonismo il mutuo da pagare resta lo stesso. Ho una compagna, un figlio di tre anni e un altro in arrivo. Voglio dedicarmi alla mia famiglia, stare bene con loro.” Allora le facciamo una domanda più semplice. Lo sportivo e il filosofo di riferimento? “Come filosofo non ho dubbi: Schopenhauer. E chiaramente ha influito anche per la mia tesi. Era il mio cavallo di battaglia fin dalle superiori, lo leggevo sempre. È stata la molla che mi ha fatto scegliere filosofia all’Università.” Mancherebbe lo sportivo… “È molto più difficile. Perché io penso che il campione sia soprattutto chi insegna qualcosa, non tanto quello che vince. O meglio, il campione è chi sa arrivare alla vittoria dimostrando di essersela guadagnata fino in fondo. Va ben oltre le medaglie. Da piccolo, il mio idolo era Cancellara: seguivo sempre le sue gare, era un ciclista eccezionale. Allora guardavo lo sport con gli occhi del bambino, ora tutto quello che vedo ha sempre un’analisi più tecnica. Non è semplice appassionarsi, anche se le emozioni di una gara sono sempre molto dense.” Lo sa, vero, che il suo curriculum assomiglia sempre di più a quello di Fabris? Almeno per le medaglie vinte. “Enrico è stato anche un mio allenatore. Lo rispetto molto: è una fonte di ispirazione per tantissimi atleti. Quando vinse le sue prime medaglie, ero molto piccolo e non sapevo che il pattinaggio sarebbe stato la mia vita. La sua immagine, il suo modello restano costanti ancora adesso. Ma siamo due atleti molto diversi. Lui era fortissimo soprattutto nei 1500: se io gareggiassi per quelle competizioni, sarei tremendo. Non è proprio la mia storia. Il paragone mi fa onore, perché aiuta a diffondere la bellezza di questo sport. Ma penso che sia fuorviante: non mi sento un suo pari, non penso che lo sarò. Cerco di essere contento di quello che faccio e penso per ora di essere riuscito a realizzare il mio sogno: far sì che uscire la mattina per allenarmi diventasse il mio lavoro. La bellezza è proprio questa: Fabris e io rappresentiamo la pluralità e la diversità di uno sport che ha lo stesso nome. Ed è molto stimolante. Una cosa è certa: spero di dare e voglio dare ancora il mio contributo al pattinaggio italiano. È un ambiente sano, mi piace molto. Le gioie sono già queste. E me le tengo strette.”

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Valentino Della Casa