L’orco senza memoria fa ancora più paura

Con quell’aspetto un po’ ‘così’, da uomo delle caverne, nell’aspetto e nella durezza, da orco, da rugbista che non fa sconti, con un’immagine forte, adatta alla pubblicità, ai promo ovali, sembra uno che non può avere problemi fisici, che può digerire tutto. Eppure Sebastien Chabal, francese, 47 anni, dice di non ricordarsi nulla delle partite giocate, di singoli momenti, dell’inno francese suonato nelle partite internazionali. Peggio ancora, ha dimenticato quando sono nate le sue figlie. Facile trovare un colpevole, il rugby, sport di contatto, di scontri fisici impressionanti. Insomma, senza perdersi in terminologie mediche, troppe botte prese, soprattutto in testa. Le cosiddette ‘concussion’, commozioni cerebrali, sottovalutate nel passato, con giocatori pronti a ribellarsi di fronte alla richiesta di uscire dal campo, come se venisse meno una parte fondamentale dell’essere rugbista, una debolezza, si deve andare oltre, sopportare il dolore, essere più forti di tutto, quasi fosse una colpa farsi sostituire, un’onta, una diminuito… un colpo duro all’essere ‘macho’, alla virilità del gioco. Chabal ha giocato 62 volte nella nazionale francese, spesso fuori ruolo e dalla panchina, non sempre amato dagli allenatori, Laporte su tutti, dando il meglio di sé in Inghilterra, nella Premiership vinta con Sale, sobborgo di Manchester, sotto la guida di un altro grande francese, Philippe Saint-André. Ha conosciuto il rugby a 9 anni, lo ha poi subito abbandonato riprendendolo, nel sud est della Francia, solo a 16 anni, tardi, a Beauvallon, a livello amatoriale, per poi farsi conoscere a Bourgoin-Jaillieu e chiudere, dopo Sale, al Racing di Parigi prima e a Lione poi. Meno di 20 anni di carriera professionistica, 16 per essere precisi, con sintomi di demenza decisamente precoci. “Mai andato dal neurologo, tanto la memoria non tornerebbe”, dichiarazioni in stile col personaggio, lontane dalle attenzioni che oggi in campo ci sono per chi subisce un colpo alla testa, controlli immediati, con medici indipendenti, sostituzioni obbligatorie, periodi di stop post concussion, paradenti intelligenti che registrano le collisioni, con protocolli rigidi ai quali non ci si può sottrarre, addio machismo e stereotipo del rugbista invincibile. Sul campo ce lo ricordiamo sfidare faccia a faccia la haka degli All Blacks nel Mondiale 2007, quello francese, nella partita giocata al Millennium Stadium di Cardiff, quarti di finale con i neozelandesi eliminati, ma anche in campo in due Sei Nazioni vinti, soprattutto nei placcaggi e come portatore di palla, ball carrier. Non è il primo giocatore di rugby a denunciare questi sintomi, in Inghilterra il campione del mondo 2003 Steve Thompson, tallonatore, lo ha fatto nel dicembre 2020, e, dopo di lui, è stata la volta di Ryan Jones, ex capitano del Galles, 3 Grand Slam nel Sei Nazioni, protagonista coi mitici British & Irish Lions, nomi che hanno sconvolto il pubblico non solo anglosassone e non solo del rugby. Oggi sono quasi 200 gli ex rugbisti con problemi di ‘dementia’ che hanno intentato un’azione giudiziaria in Gran Bretagna, il cui vero scopo è quello di proteggere la salute di chi gioca e giocherà. Non si chiedono quindi solo risarcimenti ma ci si occupa della sicurezza del rugby. Più attenzione, educazione, porre l’accento sui rischi e sulla sicurezza, riduzione degli impatti negli allenamenti e soprattutto delle partite nell’arco della stagione, oggi troppe, allungare e non ridurre il periodo di riposo dopo aver subito un colpo alla testa accertato. Si tratta solo di una sintesi, tanto per capirci. Non parliamo del caschetto, inutile e forse pure dannoso, perché non protegge e, quasi, stimola, ad andare oltre quello che si farebbe giocando senza, non parliamo di football americano, che ha affrontato il problema, risarcimenti compresi, a suo tempo, e non parliamo di Hollywood, Zona d’ombra, col racconto dei danni provocati da ripetuti colpi alla testa, film che si basa su un articolo uscito nel 2009 su GQ, Game Brain, di Jeanne Marie Laskas. Parliamo di rugby, uno sport amatoriale fino al 1995, senza controlli, che ha avuto una crescita in termini di chili, di masse muscolari, di scontri ad ‘alta velocità’, di numero di partite, di allenamenti incredibile. E che adesso sta affrontando il problema, trovando qualche soluzione, avendo sulla coscienza molti casi, campioni compresi. L’orco senza memoria fa ancora più paura di quello che abbiamo conosciuto sul campo!

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L’orco senza memoria fa ancora più paura

Francesco Pierantozzi