A Rovigo il rugby non si gioca, si vive

Come vive la città di Rovigo il rugby? Cos'è il rugby per Rovigo? “Devo rispondere con una frase ad effetto, ma rappresenta davvero come si vive qui questo sport: ‘il rugby non si gioca, si vive’. Ed è proprio questa la modalità con cui questa città storicamente ha abbracciato e abbraccia questo sport. Contrariamente alla maggior parte delle città italiane, che siano piccole come la nostra o più grandi, qui il ‘gradino d'onore’ dal punto di vista sportivo è dedicato al rugby e non al calcio. Questo sport è proprio intessuto all'interno della nostra città. Dal bambino all’anziano, qui tutti parlano di rugby. Qui anche le signore anziane riconoscono i giocatori e sanno i loro ruoli. Se vedono uno alto e grosso, gli dicono ‘ti te si seconda linea’. Nelle altre città non potrebbe mai accadere una cosa del genere”. Ma come è diventato così identitario? C'è stato un momento decisivo che ha reso il rugby così importante? “Quest’anno con la Rovigo Rugby abbiamo festeggiato i 90 anni di storia. La squadra è nata nel 1935 e da quando ho memoria in città il rugby è il protagonista. Fin da piccolo mio padre mi ha trasmesso la passione per questo sport e io ho letto e ascoltato le persone anziane per cercare di capire il perché di questo legame così speciale con il rugby. Non c’è stato un evento scatenante, credo derivi dalla nostra cultura e dalla nostra storia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Rovigo ha dovuto affrontare anche un pesante alluvione del Po nel ’51 e questo è stato un territorio molto colpito dalla povertà. Al tempo c’erano poche industrie, si viveva di agricoltura e la squadra di rugby è diventata un esempio da seguire dal punto di vista dei valori. E poi è un motivo di vanto, forse uno dei pochi in certi momenti storici. La modalità con cui la città vive le proprie difficoltà, ricorda l’approccio della squadra. Non ci si siede davanti alle difficoltà, si reagisce. La città si identifica negli stessi valori del rugby. C’è una sorta di abbinamento sociale per mezzo del quale la città si identifica nella squadra e la squadra nella città. È un dare e avere”. A Rovigo il rugby è davvero una cosa importante, tanto che ci sono dei luoghi ‘sacri’, giusto? “Sì. Al primo posto c’è lo stadio, il Battaglini, che per ovvie ragioni è il cuore pulsante della nostra passione. Uno stadio che ha la sua storia e che ha avuto diversi rinnovamenti, ne arriverà uno anche questa estate. Vista la sua importanza per i tifosi, c'è una continua attenzione verso lo stadio. Poi un altro luogo ‘sacro’ è il quartiere San Bortolo. È uno dei più importanti della città e negli anni ha ospitato tanti giocatori della squadra, in primis lo stesso Battaglini, che è stato un giocatore molto importante per noi. Con il tempo San Bortolo è diventato un po’ la culla di questa passione, di questo legame cittadino. E poi negli ultimi tempi c’è un vero e proprio luogo sacro che è stato ‘prestato’ alla Rovigo Rugby: nella chiesa di San Bortolo è stato istituito un altare dedicato alla squadra! Ne hanno parlato anche diversi giornali perché è stata una cosa molto particolare. Inoltre, la chiesa di San Bortolo in questi i giorni e durante le partite importanti della squadra è stata illuminata da dei LED rossoblù ed è stata anche istituita una preghiera in sostegno della squadra prima della finale. Una vera e propria unione del sacro e del profano. Fa un po’ sorridere, ma dà la misura dell’amore che questa città prova per la squadra”. Lei ha lavorato anche in Nazionale, con cui ha girato il mondo, le era mai capitato di vedere una cosa del genere? “Onestamente no. Ho avuto il grande privilegio di essere per tanti anni il fisioterapista della Nazionale e di vivere il rugby a livello internazionale, ho visto come si vive il rugby un po’ ovunque nel mondo ma un amore così non si trova da nessuna parte. Ho rivisto qualcosa di simile nei festeggiamenti a Napoli per lo scudetto”. A proposito, voi come avete festeggiato la vittoria del campionato? C'è stato un momento speciale? “Prima di raccontare i festeggiamenti, devo fare un passo indietro. In semifinale ci siamo trovati contro i nostri odiati, sportivamente parlando, cugini del Petrarca Padova. Negli ultimi anni è sempre stata una battaglia testa a testa tra noi, c'è grandissima rivalità tra le due squadre e tra le due società ma sempre basata sul rispetto. E dopo aver eliminato il Padova in semifinale c’è stata una prima festa, perché la rivalità è davvero sentitissima. In finale abbiamo affrontato il Viadana, che durante questa stagione è stata la squadra migliore. Ha avuto un rullino di marcia veramente ottimo e noi siamo arrivati alla finale da sfavoriti. L'ultima partita che avevamo giocato contro di loro nella regular season è stata pesantissima: abbiamo perso 60-30, o giù di lì. È stata una delle sconfitte più pesanti della storia della Rugby Rovigo. E quindi c'era preoccupazione in città in vista della finale. Nello spogliatoio invece c'era molta fiducia, perché sapevamo di essere un gruppo forte. La vittoria è poi arrivata ‘alla Rovigo’, vale a dire soffrendo e senza mai mollare. Questa è la nostra storia. Il primo tempo è stato marcatamente a loro vantaggio, ma nel secondo tempo abbiamo ribaltato la gara e li abbiamo battuti con merito. Giocavamo a Parma e lo stadio è esploso di gioia. Ho visto anziani piangere e abbracciare bambini, mi è venuta la pelle d’oca. E poi la festa si è spostata a Rovigo, dove chi non era a Parma ha seguito la partita dai maxischermi. A mezzanotte il pullman della squadra è arrivato in città e ci hanno accolto tantissimi tifosi. I video dei festeggiamenti hanno fatto il giro del mondo. La festa è andata avanti per giorni. Il lunedì successivo abbiamo festeggiato in piazza con tutta la città e nei giorni successivi abbiamo fatto una cena di squadra. Per tutti noi del gruppo squadra in questi giorni è impossibile girare per la città senza che qualcuno ci offra qualcosa. Per me è diventato impossibile pagarmi un aperitivo ”. Significa che anche lei è tra i protagonisti di questa vittoria. Ha già spiegato quanto il gruppo sia importante per la squadra, ma lei da fisioterapista, con i suoi colleghi, con lo staff tecnico, che rapporto ha? E con i giocatori? Quanto siete uniti? Come vivete la quotidianità? “Qui da noi il rugby si vive insieme a 360°. Non è neanche pensabile che ci siano delle divisioni nello staff o dei malumori. Qui noi creiamo il gruppo, che è sempre al primo posto. La forza del gruppo vince sempre sui singoli, sia fra i giocatori sia fra noi dello staff. E il gruppo comprende i giocatori, lo staff tecnico, lo staff medico, lo staff dei preparatori atletici e anche i magazzinieri. Ma dentro ci sono anche i volontari e le persone che lavorano per la squadra: tutti quelli che sono intorno alla squadra con qualunque ruolo fanno parte del gruppo. Questo è un modo incredibile di lavorare, perché ti senti sempre parte di qualcosa. La nostra è una quotidianità fatta di cose semplici. Non ci piace fare i fenomeni su niente, preferiamo il fare al dire. Il nostro legame interno è lo stesso che lega la città alla squadra. Io dico sempre che per noi è un privilegio essere al servizio di questa squadra in questa città”. Una città che non lascia mai sola la squadra, come nel 1988 con quel treno che ha portato quasi mezza Rovigo a Roma per seguire da vicino la finale: “Il treno rossoblù, una storia bellissima e che ho vissuto da vicino. Era il 1988, parliamo di un rugby diverso e anche la ‘geografia politica e sportiva’ del rugby nel mondo era molto diversa. In quel periodo, per una serie di motivi, molti dei più grandi rugbisti internazionali venivano a giocare in Italia. A Rovigo ce ne erano diversi, il più famoso è Naas Botha. Era il mediano d’apertura più forte del tempo. Per capirci, il suo arrivo a Rovigo è paragonabile a quello di Maradona a Napoli. Oltre a lui, quell’anno avevamo una super squadra e arrivammo in finale, che si giocava a Roma, al Flaminio. E per l’occasione la società ha pensato di organizzare un treno speciale per portare i tifosi nella Capitale. Non c’era Internet, né altro ma in appena due giorni tutto il treno è stato riempito. Era un treno pieno di tifosi rossoblù. Al ritorno era pieno anche di gioia, visto che vincemmo. Due anni dopo si replicò per andare al Rigamonti di Brescia, dove arrivarono circa 9mila tifosi con due treni. Tantissimi, considerando che Rovigo ha circa 50mila abitanti. Questi treni sono rimasti nella memoria di tutti come una cosa incredibile. Nessun’altra squadra italiana di rugby poteva permettersi solo di pensare di fare una cosa simile. Ma non sono gli unici esempi dell’amore di Rovigo per la squadra. Nel 2016 giocavamo la finale dopo averne perse quattro di fila e da 26 anni non vincevamo il campionato. Sono stati anni molto difficili, come potete immaginare. E quell’anno la finale si giocava a casa nostra, perché eravamo la squadra posizionata meglio in classifica. L’attesa era altissima. La fila per comprare i biglietti era lunga oltre 400 metri e per accogliere più tifosi sono state montate due tribune supplementari al Battaglini. E per fortuna siamo riusciti a vincere lo scudetto. È stata una liberazione. A memoria, una gioia collettiva così grande non la ricordo”. Tra il 1990 e il 2016, i 26 anni senza vittorie, avete vissuto anche dei momenti difficili, ce ne è uno in particolare? “La stagione 2001-2002 è stata la più dura. Era il mio primo anno da fisioterapista nella squadra e il 9 ottobre del 2001 morì in un incidente Carlo Bego, il presidente e finanziatore della squadra. Dall'oggi al domani noi ci ritrovammo senza presidente e senza soldi, la squadra ha rischiato il fallimento. Erano i primi anni del rugby professionistico, in squadra avevamo due stranieri e tutti gli altri avevano un rimborso. Per trovare una soluzione ci siamo chiusi tutti nello spogliatoio. E quando dico tutti, intendo tutti davvero. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti ‘ok, quest'anno lo finiamo gratis’. I pochi soldi che c’erano li abbiamo dati ai due stranieri, perché essendo lontani da casa avevano bisogno di qualcosa per vivere, e noi altri non abbiamo preso nulla. Ci siamo ripromessi di dare tutto fino alla fine della stagione in memoria di Carlo Bego. Grazie a questo sacrificio di tutti, la Rugby Rovigo sopravvisse anche a quel momento storico molto delicato. E anche grazie a questo sforzo, siamo qui oggi a festeggiare questo scudetto”.

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A Rovigo il rugby non si gioca, si vive

Emiliano Tomasini