Addio ad Alvaro Mangino: il sopravvissuto delle Ande costretto alla decisione più atroce

Montevideo, 1965. Un gruppo di ex allievi del ‘Colegio Stella Maris’, una scuola cattolica superiore fra le migliori della capitale uruguaiana, si dà appuntamento nel quartiere di Carrasco, dove è situato l’istituto e decide di fondare una società sportiva. Nasce così l’Old Christians Club, con una sezione femminile che si dedica all’hockey su prato e una maschile interamente consacrata al rugby. In pochi anni, il club diventa uno dei più forti sulla scena dell’intero Paese e a soli sei anni dalla sua nascita vince il suo primo titolo nazionale, dimostrando di avere rapidamente azzerato il gap che lo separava dal Carrasco Polo Club e dagli Old Boys, i due team più quotati del panorama rugbistico uruguaiano. Il 13 ottobre de 1972, il Fokker Fairchild FH-227D della Uruguayan Air Force, con a bordo quarantacinque persone tra giocatori, familiari e membri della società, è pronto a decollare dal Carrasco International Airport alla volta del Pudahuel Airport di Santiago, in Cile, dove è previsto un incontro contro una formazione locale. L’atmosfera è serena, allegra. Fra i passeggeri c’è il diciannovenne Álvaro Mangino Schmid. Con lui anche Fernando ‘Nando’ Parrado, Roberto Canessa, José Pedro Algorta, Alfredo ‘Pancho’ Delgado, Daniel Fernandez, Roberto ‘Bobby François, Roy Harley, José Luis ‘Coche’ Inciarte, Javier Methol… e altri sei sconosciuti dei quali Álvaro non comprende il nome. Sa solo che intorno c’è tanta neve. E basta. Sì, perché fra il decollo e buona parte del viaggio Álvaro ha riso, si è divertito, ha dormicchiato, almeno finché l’aereo non è arrivato all’altezza della Cordigliera delle Ande e si è imbizzarrito. Da lì in poi non ha capito più nulla di quanto è successo. Ha provato soltanto molta paura, ha pregato, ha chiuso gli occhi, ha vissuto i momenti terribili di un infinito schianto e quando ha ripreso conoscenza, intorno c’era giusto quella quindicina di scampati come lui a fare una specie di contrappello. Nel silenzio spettrale del nulla più assoluto. Si scoprirà poi che il disastro fu originato da un calcolo sbagliato del pilota che per un errore di navigazione iniziò la discesa troppo presto, convinto di avere già superato la catena montuosa. In realtà l’imponente spina dorsale dell’America meridionale era ancora là, distesa come un serpente ed estesa lungo i confini di Venezuela e Colombia, Ecuador e Bolivia, Perù e Bolivia, Argentina e Cile. Quasi paternamente sorvegliata dalla cima minacciosa dell’Aconcagua. Non ci fu tempo per recuperare con una manovra di emergenza e il Fokker andò dritto a schiantarsi contro una montagna, spezzandosi in due. Molti tra i passeggeri morirono sul colpo durante l’impatto, anche diversi giocatori, amici di Álvaro, che per cinquantatré anni ha convissuto con quel dolore, con quelle immagini, con quelle sensazioni di un inferno che gli piombava addosso improvviso. Dentro. Ma che in realtà sarebbe proseguito anche dopo. Col passare delle ore i superstiti dello schianto aumentarono. Molti di essi erano conciati davvero male. In totale il gruppo salì a poco più di una trentina. Trentatré. Ma l’ambiente circostante si rivelò subito ostile per quelli messi peggio. Tanta neve e ghiaccio, nessuna risorsa, nessuna possibilità di soccorsi immediati, temperature fredde e notti gelide. Pochissimi viveri a bordo. Per lo più barrette di cioccolato, qualche biscotto, bottiglie di vino, mignon di liquore. Álvaro, scomparso il 29 marzo 2025 all’età di settantuno anni a causa di una banale polmonite , ricordava ancora con impressionante lucidità quei giorni di gelo e a tratti di grande disperazione e di scelte drammatiche cui furono presto costretti i sopravvissuti. Per far passare il tempo, ricordava di come in quelle circostanze ci si raccontassero delle storie e si cercasse di non pensare, di non udire i lamenti di chi stava ormai quasi per trapassare. La conta dei morti veniva aggiornata spesso e in breve il gruppo degli scampati si ridimensionò a sedici unità, dimezzandosi. Álvaro da ragazzino tifava per il Seminario, era un discreto giocatore di polo, ma era soprattutto amico di molti dei ragazzi dell’Old Christians Club. Lui in realtà non avrebbe dovuto né voluto partire, ma alla fine si era lasciato convincere dal capitano della squadra Marcelo Pérez. Perché no, sarebbe stata una sorta di breve vacanza, in fondo. Chi mai avrebbe potuto immaginare alla vigilia quella sciagura. Nello schianto, considerate le condizioni di altri superstiti e le tante vittime, ad Álvaro in fondo era andata pure bene, si era fratturato solo una tibia e un perone. La cosa lo limitava nei movimenti e gli causava forti sofferenze, però in fondo era vivo e adesso si trattava di resistere per lo più al freddo e schivare le valanghe. Cosa che non era riuscita purtroppo proprio a Marcelo Pérez, travolto da una slavina sotto ai suoi occhi. I sopravvissuti si divisero i compiti per cercare di resistere il più a lungo possibile, sperando che prima o poi qualcuno fosse riuscito a rintracciarli. A lui toccò quello di sciogliere la neve per ricavarne acqua da bere in modo da potersi tutti dissetare frequentemente. Poteva assolverlo da seduto. Con il passare dei giorni, i sopravvissuti cominciarono a definire meglio la propria situazione. Diciotto i superstiti, alcuni di essi feriti. Nessun disperso. Ventisette i morti, dei quali dodici durante l’impatto . Gli altri - che erano parte del primo conteggio di scampati al disastro - non ce l’avevano fatta a causa delle ferite e delle temperature proibitive. Una valanga aveva da poco travolto la carcassa della fusoliera dell’aereo e anche i tredici passeggeri che erano rimasti feriti più gravemente ed erano stati ‘accomodati’ in quell’area. Il termometro sotto lo zero e gli abiti sconsigliavano di avventurarsi altrove a chi stava meglio. Decisioni estreme L’aereo era caduto nei pressi del Dipartimento di Malargüe, ancora in Argentina ma nei pressi del confine cileno, un’area piuttosto remota delle Ande, al punto che, otto giorni dopo l’incidente, le ricerche vennero interrotte. La fame era in aumento e difendersi dal gelo si rendeva sempre più necessario. Per coprirsi si ricorse a qualunque cosa tornasse utile. La neve garantì un discreto approvvigionamento idrico, ma incominciarono a scarseggiare altre risorse: non c’era più nulla da mettere sotto i denti. Seguirono ore di discussioni aspre e lancinanti riflessioni, finché il gruppo, unito, maturò una decisione estrema e si decise di ricorrere al cannibalismo. Il gruppo non aveva coscienza di dove si trovasse, ma sapeva di doversela cavare da solo. E così fu. Per mezzo secolo Álvaro ricordò minuto per minuto quelle settimane passate a scrutare il cielo nella speranza di cogliere un segnale, scorgere un mezzo di soccorso. Per mezzo secolo non poté dimenticare di aver dovuto cibarsi dei corpi dei compagni di viaggio morti per potersi nutrire e sopravvivere oltre. Per mezzo secolo non riuscì a dimenticare più il sapore dolciastro della prima volta, il rifiuto morale, lo strazio interiore e poi la crudele necessità di doversi piegare al bisogno di cedere. Fino a primavera, perdendo intanto per strada altri due coraggiosi sopravvissuti, troppo deboli per arrivare fino alla fine della strada. Dopo qualche settimana, i due più in forze del gruppo, ‘Nando’ Parrado e tale Antonio ‘Tintìn’ Vizintìn, decisero di tentare una prima spedizione per scalare una cima e provare a capire come andare via da lì. Ma il territorio ancora ostile, gelido e poi enormemente vasto li respinse dopo pochi chilometri di cammino. Pur se l’iniziativa produsse comunque qualche effetto positivo. I due infatti tornarono indietro con batterie cariche e un po’ di materiale utile recuperato dai resti della coda dell’aereo ritrovati più in là. Passati i due mesi ‘Nando’ Parrado decise di riprovare. Stavolta con lui si propose di andare Roberto Canessa. La coppia si avventurò lungo i sentieri di montagna e puntò verso la direzione opposta al primo tentativo. Ci vollero almeno dieci giorni di marcia perché Parrado e Canessa incontrassero finalmente qualcuno. Un mandriano cileno, Sergio Catalàn, poco oltre il confine della Malargue. Messogli in mano un biglietto come si fa con i messaggi in bottiglia, gli affidarono così la loro salvezza. E Catalàn non li deluse. Il 22 dicembre 1972, i primi elicotteri di una missione di recupero cileno sorvolarono la zona scorgendo finalmente i resti del Fokker Fairchild FH-227D caduto. Nell’arco di due spedizioni tutti e sedici i superstiti vennero riportati a casa. Accolti come se fossero tornati degli eroi, criticati per la loro scelta da alcuni integralisti della morale. Un dibattito fra bene e male che dentro di sé Álvaro confessò di non aver mai superato. La sua storia a oltre 3600 metri di altitudine, la sua esperienza umana, la sua drammatica scelta aiutarono il cinema e la letteratura a indagare e produrre film e testi sull’accaduto. Morto Álvaro Mangino Schmid, oggi rimangono ancora in vita Fernando ‘Nando’ Seler Parrado Dolgay e Roberto Jorge Canessa Urta, ex giocatori di quel club e protagonisti della seconda fortunata escursione in cerca di soccorso, attraverso la quale poi i superstiti di quel disastro tornarono sani e salvi a casa. Canessa, in seguito diventato medico cardiologo pediatra, fu il primo del gruppo ad alimentarsi con la carne dei compagni di viaggio deceduti, rompendo il tabu che rischiava di costare la vita a tutti. Canessa diventò in seguito anche un nazionale di rugby uruguaiano, vestendo otto volte la maglia del suo Paese. Parrado mise a frutto l’esperienza nelle Ande per assistere persone afflitte da traumi psicologici e aiutarle a superarli. Álvaro Mangino, invece, ha preferito convivere con i suoi orribili ricordi, offrire quando richiesta la sua consulenza rara e preziosa, ma poi sottrarsi il più possibile a far diventare la sua terribile esperienza un business. Ne parlò solo in un libro, nel quale descrisse la decisione di mangiare i suoi compagni di viaggio come “La scelta più difficile mai presa nella mia vita”. E dopo averlo detto promise, e mantenne, di non parlarne mai più.

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Lucio Rizzica