Tutto il Canada con i Toronto Blue Jays contro i Dodgers nella World Series. O quasi

Tutto il Canada con i Toronto Blue Jays contro i Los Angeles Dodgers, nella World Series di baseball che inizia questa notte all’1.30 ? Mica tanto. Perché un conto sono la retorica e la necessità dei titoli a effetto, un conto la realtà. Per esempio, quello che di Toronto pensano molti canadesi è stato perfettamente illustrato dai pareri che il quotidiano locale, il Globe and Mail, ha raccolto a Seattle la scorsa settimana. I Mariners ospitano i Blue Jays, prima delle tre partite che i Mariners hanno giocato in casa nella serie poi persa contro i Blue Jays: alle partite hanno assistito parecchi tifosi scesi da nord, da Vancouver, e quasi tutti hanno ammesso di tifare per Seattle, un po’ per affinità geografica un po’ per disdegno verso Toronto, che del Canada non è la capitale ma si considera il centro culturale, commerciale, sociale e intellettuale, coerentemente peraltro con il suo status di settima area metropolitana più grande di tutto il Nordamerica. Chiaro che non è stato un sondaggio a tappeto o condotto con metodi scientifici, ma le risposte sono state simili, a partire dalla soddisfazione per nulla celata di molti, in una zona del Canada dove l’hockey - se possibile - è ancora più ossessione che nel resto, per i costanti insuccessi dei Toronto Maple Leafs, che hanno appena iniziato la stagione numero 58 dall’ultimo titolo vinto. Soddisfazione misera, volendo: a Vancouver dal 1970, anno di ingresso nella NHL dei Canucks, non è mai arrivata nemmeno una finale, figuriamoci la Stanley Cup. Se uniamo una certa solidarietà tra zone della parte alta della West Coast e l’empatia tra tifosi dei Canucks e quelli dei Mariners, rimasti tuttora alla ricerca della loro prima finale, dalla mini-inchiesta del quotidiano è emerso dunque un atteggiamento tutt’altro che patriottico da parte di molti, e c’è da chiedersi magari cosa ne pensino anche a Montréal: città dei Canadiens, che restano i primatisti di titoli vinti nell’hockey con 24, anche se l’ultimo risale al 1993, e città degli Expos di baseball, vivi dal 1969 al 2004 ma affossati anche, in un drammatico voto del 2001 in cui con una maggioranza di 28 a 2 i club della Major League votarono per lo scioglimento di Expos e Minnesota Twins, alle prese con problemi gestionali e - ovviamente - uniche a votare contro. Poco dopo la Major League approvò un movimento che a moltissimi parve sospetto: John Henry vendette i Florida Marlins a Jeffrey Loria, che contestualmente cedette gli Expos alla… MLB, la quale approvò poi l’acquisto dei Boston Red Sox da parte di Henry, che pure non era il maggior offerente. Tre anni dopo gli Expos furono trasferiti a Washington diventando i Nationals, mentre i Twins restarono in vita perché vincolati all’utilizzo dello stadio, e resistono tuttora, ma quello che inviperì i tifosi di Montréal fu che tra le 28 squadre che votarono a favore della sparizione degli Expos ci furono i Blue Jays, alla faccia della solidarietà nazionale e di una tradizione che voleva le due squadre, appartenenti a leghe diverse, incontrarsi in precampionato per un trofeo simbolico. John McHale, presidente degli Expos, era tra l’altro stato tra i principali fautori dell’aggiunta di una seconda squadra canadese, avvenuta poi con i Blue Jays nel 1977, ma presto la situazione si era complicata: indispettiti dal fatto che Montréal potesse trasmettere le proprie partite in tutta la zona dell’Ontario, Toronto compresa, i Blue Jays, che stavano diventando poco alla volta la canadese più affermata, nel 1985 avevano chiesto e ottenuto dalla Major League l’esclusiva regionale, ad eccezione di 15 partite, e la sparizione da un mercato ricco e vario aveva danneggiato gravemente gli Expos, contribuendo al declino che li aveva poi portati ad avere problemi di stadio e a finire nella gestione di Loria, fin dall’inizio ritenuto - nonostante la sua reale passione per il baseball - un affarista con secondi fini e ricordato tuttora, in varie parti del Nordamerica, come uno dei peggiori proprietari della storia. Il primo, Charles Bronfman, nel 1992 era stato chiamato a lanciare la prima palla della prima partita di World Series giocata in Canada e poi vinta dai Blue Jays , come riconoscenza per il lavoro della dirigenza di Montréal verso la nascita del club, ma quando si era trattato di quel voto aveva prevalso l’interesse generale: "niente di personale", spiegazione che però non era andata giù ai tifosi degli Expos, perché è vero che un voto non avrebbe cambiato nulla, ma sarebbe stato un bel messaggio, come quello che qualche anno prima i Pittsburgh Steelers, della NFL, avevano mandato votando contro il trasferimento dei rivali Cleveland Browns. E proprio nel periodo in cui si votava i Blue Jays diventavano proprietà della Rogers Communication, il più potente conglomerato media canadese, che cominciava così a poterne diffondere le partite in tutto il Canada: casualmente, il 2001 era pure l’anno in cui a Seattle arrivava la superstar giapponese Ichiro Suzuki, grande attrazione anche per la numerosa e benestante quota nipponica della regione, e ai finitimi di Vancouver i Mariners cominciavano a piacere molto, per cui quel costante martellamento sui Blue Jays sembrò quasi una sfida alla popolarità che presso i locali la squadra oltreconfine pareva avere. E non era finita: vero che in città i Grizzlies della NBA avevano attecchito poco, ma quel 2001 fu anche l’anno in cui si trasferirono a Memphis, dove sono tuttora. Nel giro di pochi mesi, insomma, il Canada aveva iniziato a perdere gli Expos, perdeva i Grizzlies e si vedeva ‘invadere’ dalle telecronache dei Blue Jays, che assieme ai Raptors restavano le uniche rappresentanti solide dell’intera nazione nella MLB e nella NBA. Canada’s Team. O forse no Facile allora capire come non ci possa essere unanimità. Senza nemmeno tornare sul tema hockey, nettamente il più sentito, la potenza e la presenza di Toronto nello sport hanno creato un’ambivalenza di percezioni, ammirarne le qualità imprenditoriali e gestionali o vederla come ennesimo esempio di predominio e prepotenza, anche se i numeri dicono che la diretta di gara7 della finale della American League, Toronto-Seattle, è stata vista in Canada da una media di sei milioni di spettatori, record assoluto per il canale Sportsnet e corrispondente al 15% della popolazione, una percentuale che negli Stati Uniti si raggiunge solo per il Super Bowl. Quindi, odi et amo, ma i Blue Jays li seguono tutti, e figuriamoci ora, che in città arrivano i Dodgers, la squadra nel mirino generale per via delle sue clamorose risorse economiche e della presenza di quello che al momento è forse il più grande atleta del mondo come prestazioni, Shohei Ohtani, due aspetti che, ovviamente, sono collegati e che in un mondo parallelo avrebbero potuto dare esiti diversi, perché nel dicembre 2023 Ohtani era stato molto vicino a firmare per Toronto, così come lo scorso anno Roki Sasaki, il grande lanciatore giapponese. Una sfida che ha leggermente smorzato uno dei temi principali dei playoff, ovvero le enormi disparità tra il monte-stipendi delle partecipanti: finché erano i 350 milioni dei Dodgers contro i 121 dei Milwaukee Brewers la contrapposizione poteva avere un senso, ma Toronto, grazie alla sua potenza economica, è a quota 255 milioni, non pochi, anche per via del contrattone da 14 anni per circa 500 milioni fatto al prima base Vladimir Guerrero Junior, che in queste settimane sta dimostrando di valerli tutti. Guerrero Junior, sì, perché è il secondo giocatore con quel nome e cognome a giocare ad alti livelli in Major League. Il primo era stato il padre, protagonista tra il 1996 e il 2003 con… Montréal: spesso Loria, che aveva fatto fortuna con il commercio di opere d’arte e di arte era appassionato non meno che di baseball, nella sua galleria a New York mostrava ad amici e visitatori i vari Modigliani, Moore, Canaletto poi indicava loro quella che definiva "l’opera più preziosa che ho…": un cartonato di Guerrero che valeva pochi dollari ma rappresentava, per lui, l’apice della sua attività come proprietario. L’attuale Guerrero avrà un compito duro, contro i caldissimi lanciatori dei Dodgers, ma i Blue Jays sono una gran bella squadra e avranno anche l’appoggio di un’intera città e regione, questo sì, al netto di invidie e rosicamenti di una minoranza. Appoggio morale, perché i playoff e soprattutto la World Series storicamente dimostrano che il fattore campo non influenza i risultati ma consente solo bei primi piani di tifosi, il riposo nel proprio letto, il rispetto delle abitudini e pure del fuso, considerando le tre ore di differenza con Los Angeles che costituiscono un elemento spesso sottovalutato: per abituarsi ai tempi di Toronto, i Dodgers nei due giorni pre-gara1 si sono allenati a un orario in cui a casa loro sarebbero stati ancora sotto le lenzuola. Fare la storia I temi della sfida escono dallo sport, riproponendo la rivalità musicale e personale tra i rapper Kendrick Lamar - losangelino di Compton, città culto per una certa scena musicale - e Drake, nato a Toronto. ‘Not like us’, grande successo di Lamar scritto come pesante presa in giro del rivale, la cui causa per diffamazione è stata rigettata pochi giorni fa da un tribunale, lo scorso anno fu una sorta di inno non ufficiale dei Dodgers durante i playoff e fu eseguita anche dopo la vittoria della selezione americana su quella canadese in una amichevole a Las Vegas. C’è poi anche, volendo proprio raschiare il fondo di un barile peraltro piccolo, il ricordo degli 81 punti che Kobe Bryant segnò ai Raptors nel 2006 e il passaggio di Kawhi Leonard proprio dai Raptors ai Los Angeles Clippers, nel 2019, dopo una sola stagione a Toronto. Quella stagione però fu quella del titolo NBA, il primo e unico vinto dalla squadra, e si può facilmente dire che perlomeno Leonard aveva fatto in pieno il suo dovere, conquistando anche il premio come miglior giocatore della finale, vinta sui Golden State Warriors. Ecco, il basket: tra pochi giorni saranno 30 anni dal debutto dei Raptors, così chiamati in ossequio al fenomenale successo dei film Jurassic Park, uscito nel 1993. La loro prima partita fu il 3 novembre 1995 allo SkyDome, quello che oggi si chiama Rogers Centre e che dal 1989 è la casa dei Blue Jays: oltre 33.000 spettatori assistettero alla vittoria 94-79 sui New Jersey Nets. Il presidente era Isiah Thomas, l’ex superstar dei Detroit Pistons, l’allenatore era Brendan Malone, padre di Michael che due anni fa ha portato i Denver Nuggets al titolo. Dietro la panchina, in borghese, Vincenzo Esposito, lasciato fuori all’ultimo momento per un infortunio. Sulla cui natura vi lasciamo la libertà di giudicare una volta che avrete letto questo scambio tra Enzino e l’autore di questo articolo, presente alla partita come inviato della rivista American Superbasket: "Enzo, allora stasera giochi?" "No, mi hanno detto che sono infortunato". Era una Toronto cestisticamente ancora ingenua, entusiasta, contenta di esserci, ancor più contenta quando, nel 1999, circa 500 metri a est del Rogers Centre, al posto dell’ex edificio centrale delle poste canadesi, venne inaugurata l’attuale Scotiabank Arena, impianto sia dei Raptors sia dei Maple Leafs: inizialmente dovevano giocarci solo i primi, ma nel 1998 la Maple Leafs Sports&Entertainment, proprietaria della squadra di hockey , acquisì anche i Raptors e il progetto venne modificato in corsa per fare sì che la nuova arena potesse ospitare anche la NHL. Siamo lungo il Lakeshore Boulevard, a poche decine di metri dalla baia, e due vie più verso nord c’è la bellissima Hall of Fame dell’hockey, altro esempio della centralità sportiva che Toronto ha, merita e pensa di meritarsi. Una città sportivamente vivace e più facilmente descrivibile rispetto alla sua popolazione, troppo variegata per essere racchiusa in termini narrativi facili, una città che ha l’ossessione per i Blue Jays da aprile a ottobre e per i Maple Leafs e un po’ meno i Raptors nel resto del tempo, anche se non si gioca alla pari: girando per negozi la tonalità di blu che colpisce, avvolge, quasi ammalia, è infatti indiscutibilmente e prevalentemente quella dei Maple Leafs corredata dal celebre logo della foglia d’acero, in fondo la squadra più longeva e capace di penetrare nelle fondamenta emotive e sociali. Ora però tocca ai Blue Jays, che dopo il doppio titolo 1992 e 1993 non sono nemmeno arrivati ai playoff tra il 1995 e 2014, perdendo poi ad un passo dalla World Series nel 2015 e 2016: per fare loro spazio, e favorire i tanti tifosi divisi tra tre passioni, Raptors e Maple Leafs hanno anticipato gli orari delle loro partite casalinghe dei prossimi giorni, promettendo di mostrare le partite di finale sul tabellone della Scotiabank Arena, alla fine. Aspettando un titolo dei Maple Leafs, ma di questo passo è più facile che arrivi prima Godot. Che con quel nome francofono potrebbe anche passare per tifoso degli Expos, parlare di ‘coup de circuit’ e non di ‘home run’, di ‘coup sûr’ e non di hit/battuta valida e magari riuscire persino a farsi capire in una città dove l’inglese è de rigueur, anzi di rigore.

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Roberto Gotta