Le report cards: l'ultima novità dalla NFL con cui i giocatori possono valutare le squadre

C’era una volta la NFL che andava in letargo dal giorno dopo il Super Bowl ad aprile, quando c’era il draft ovvero la cerimonia delle scelte dei giocatori freschi di carriera universitaria, per poi riassopirsi fino a luglio, con l’inizio dei ritiri precampionato. C’era, ma ora, e da un bel po’, non c’è più: la massima lega di football domina la scena mediatica anche quando il campionato non è in corso, e si tratta di una notevole impresa, considerando che la stagione è la più corta tra tutte quelle degli sport professionistici americani. In questi giorni ad esempio va in scena la NFL Draft Combine, fenomeno pluridecennale piuttosto curioso: a Indianapolis, nello stadio dove di solito giocano i Colts, 329 giocatori che hanno terminato il college si sottopongono a prove fisiche, tecniche e atletiche e a esami medici e psicologici in vista del draft di aprile, un procedimento che è stato paragonato, in negativo, a una sorta di mercato del bestiame e in effetti contiene alcuni elementi di cinismo puro e voyeurismo malato. Perché è vero che in partita un uomo di linea di 140 chili deve correre almeno 10 yard ad ogni azione, ma fargli fare il tradizionale test sulla distanza di 40, valido per tutti i ruoli, equivale a metterlo alla berlina, anche quando il risultato è eccellente. In più, in passato alcuni esaminatori, che fossero allenatori o direttori sportivi, hanno violato le norme non scritte del buongusto, interrogando i giocatori, ad esempio chiedendo a uno di loro se davvero la madre fosse una prostituta. Uno dei rischi della Combine è tra l’altro che una serie di strepitosi esiti fisici porti a sopravvalutare questi dati rispetto all’esame video e statistico delle partite giocate, così come il procedimento inverso, e in passato è accaduto che giocatori visto crescere o salire la posizione di scelta nel draft come conseguenza di questi giorni di febbraio. Tanto che i migliori, negli ultimi anni, hanno spesso disertato la Combine o sono andati solo per i test psicologici e medici, ritenendo di aver già fatto a sufficienza; e a ogni modo in marzo ci saranno i cosiddetti Pro Days, ovvero giornate in cui alcuni giocatori si sottopongono a test tecnici e tattici presso le università di cui hanno vestito la maglia negli anni precedenti, e in cui in genere continuano a vivere - obiettivo laurea, se ci riescono - in attesa della carriera professionistica. Ma - e mica era finita qui - la NFL a febbraio si rianima anche per un altro motivo, dal 2023: la pubblicazione dei risultati del sondaggio che il sindacato giocatori, la NFL Players Association, svolge presso i suoi associati. Nel periodo tra il 26 agosto il 20 novembre tutti i membri delle rose, compresi quelli della cosiddetta practice squad, che cioè sono sotto contratto ma vengono promossi in prima squadra solo per infortuni altrui, hanno la possibilità di valutare, in forma anonima, tutti gli aspetti del club di cui fanno parte: proprietà, staff tecnico, strutture di allenamento, mediche e per la riabilitazione, logistica, mensa aziendale, trattamento dei famigliari. Ad ogni voce viene dato un peso diverso, in percentuale: il voto al proprietario incide per il 15%, quello al trattamento delle famiglie, meno influente sulla carriera e sul lavoro, per il 6%, e in mezzo ci sono tutte le altre categorie. Al sondaggio ha risposto il 77% degli interpellati, numero che un qualsiasi referendum politico si sogna, dunque 1695 giocatori, in media 52 per squadra, e dunque i risultati sono attendibili: i voti vanno dallo 0 al 100, e nella ‘traduzione’ nella consuetudine americana, cioè con lettere e non numeri, 0-49 vale ‘F-’, voto più basso, mentre 97-100 vale ‘A+’, il voto più alto. Al primo posto e secondo posto, come nel 2024, Miami Dolphins e Minnesota Vikings, per motivi che leggerete tra poco, ma la notizia più interessante riguarda i Washington Commanders, passati dal 32° posto del 2023 e 2024 all’undicesimo. Che è successo nel frattempo? Semplice: nel maggio 2023 il club è stato venduto da Dan Snyder a Josh Harris, che è anche proprietario dei Philadelphia 76ers della NBA e dei New Jersey Devils della NHL, oltre che socio di minoranza del Crystal Palace. Harris, 60 anni, che ha come soci alcuni imprenditori tra cui l’ex superstar NBA Magic Johnson, sapeva benissimo di aver acquistato - a 6 miliardi di dollari, record per lo sport pro - una patata bollente: la squadra della Capitale era decaduta sul campo e come reputazione nei quasi 24 anni di gestione di Snyder, considerato quasi all’unanimità uno dei peggiori proprietari dello sport americano per una lunghissima serie di episodi imbarazzanti o negativi che lo avevano portato addirittura a una sospensione da parte della NFL, anche se va sottolineato come Snyder, per motivi anche politici, godesse di cattiva stampa a prescindere. Lo stile di Harris poco alla volta ha funzionato, evidentemente: proprietario che delega a persone competenti in ciascun settore, quando al momento dell’acquisto gli era stato chiesto dell’ultimo posto nel sondaggio, riferito ovviamente alla gestione precedente, aveva prima di tutto espresso sorpresa per la valutazione poi affermato di voler cambiare le cose. La rivoluzione non è stata rapida e dunque ancora lo scorso anno Washington era stata votata all’ultimo posto, ma tra gennaio e luglio 2024 c’è stata la svolta: nuovo allenatore, Dan Quinn, che da responsabile della difesa dei Dallas Cowboys si era messo alle spalle la tremenda delusione del Super Bowl del 2017 perso in rimonta dai suoi Atlanta Falcons contro New England, dentro nuovi coach di reparto e, grazie anche alla scelta del quarterback Jayden Daniels nel draft, la situazione è nettamente migliorata, con Washington cresciuta fuori dal campo ma anche come squadra, dato che solo Philadelphia nella finale della NFC ha fermato la potenziale corsa della squadra verso, addirittura, il Super Bowl. Significativo il miglioramento sul piano dell’offerta gastronomica per i giocatori, su quello della logistica per i viaggi e nella messa a disposizione di un servizio di baby-sitter in locali adeguati per le famiglie degli atleti nei giorni delle partite. Il caso dei Commanders è però significativo di quanto la classifica che emerge dal sondaggio possa variare se i club reagiscono, e anzi secondo JC Tretter, ottimo giocatore tra il 2013 e il 2021 e ora presidente del sindacato, lo scopo di un’iniziativa del genere non è tanto bocciare quanto spronare al cambiamento. O mantenere l’eccellenza, come nel caso dei Dolphins, il cui proprietario Stephen Ross è stato confermato al primo posto, seguito da Arthur Blank dei Falcons. All’ultimo posto a Woody Johnson dei New York Jets, che ha ricevuto un voto ‘F’, nettamente peggiore del ‘B’ di dodici mesi fa: Tretter, che alla pubblicazione degli esiti è stato sommerso di domande dai media che seguono le 32 squadre, ha spiegato che dalle risposte è emersa “una cultura della paura” all’interno del club e che l’impressione avuta dai giocatori sia stata quella di un proprietario che invece di reagire in modo positivo al voto dello scorso anno ha peggiorato la situazione, licenziando ad esempio la nutrizionista della squadra, che nel 2024 aveva ricevuto la valutazione più alta, e lasciando in condizioni non ottimali una zona pranzo che, occupata teoricamente da una sessantina di giocatori nei giorni di allenamento, rappresenta comunque un elemento critico nella gestione della quotidianità. Il mese scorso, alla presentazione del nuovo coach Aaron Glenn e del nuovo general manager Darren Mougey, Johnson ha detto “devo migliorare, come proprietario”, e questo fa pensare, o sperare, che i Jets l’anno prossimo abbiano una votazione migliore, frutto di una gestione migliore. Miami ha vinto praticamente su tutti i fronti, ricevendo ‘A’ per trattamento delle famiglie, sala e staff massaggi e riabilitazione e addirittura ‘A+’ in tutte le altre voci, dal proprietario all’head coach Mike McDaniel, mentre Minnesota è rimasta dietro solo per un ‘B+’ dato al nutrizionista. Oltre a Washington, grandi salti per Los Angeles Chargers e Atlanta Falcons, su fronti cruciali quali strutture di allenamento, anche se quest’ultima non è una specifica categoria di voto ma nasce dalla valutazione della figura del proprietario, e head coach, davvero importante se si pensa ad esempio che a Chicago Matt Eberflus, licenziato addirittura prima della fine della stagione, ha ricevuto un ‘C’ perché, secondo Tretter, non ha mai avuto disponibilità ad ascoltare i giocatori e ha gestito male il programma settimanale di allenamenti e riposi, mettendo a disagio gli atleti . Ultimo posto per gli Arizona Cardinals, che hanno avuto un ‘A’ per l’allenatore Jonathan Gannon, un ‘B’ per nutrizionista e organizzazione dei viaggi e voti molto minori nelle altre categorie, il peggiore dei quali è relativo agli spogliatoi. E del resto si tratta di uno dei luoghi in cui i giocatori trascorrono la maggior parte del tempo: da ormai un paio di decenni ogni atleta ha a disposizione una sorta di mini cabina con prese elettriche e ogni tipo di comodità, ma a volte ci sono lacune negli spazi comuni, e ad esempio ad Atlanta, nonostante i progressi, si lamenta una cattiva ventilazione nei bagni degli spogliatoi, che porta al medesimo problema segnalato a Tampa Bay, ovvero cattivi odori che arrivano dalle toilette. Lo scorso anno i giocatori di Jacksonville avevano segnalato la presenza di topi nel centro tecnico, problema a quanto pare risolto, ma un’ultima, importante considerazione va fatta, e cioè che non c’è correlazione tra tutte le voci del sondaggio e risultati sul campo. Lo scorso anno i Kansas City Chiefs, campioni, erano finiti al penultimo posto del sondaggio mentre i recenti vincitori del Super Bowl, i Philadelphia Eagles, sono solo 22esimi nella graduatoria 2025, per una serie variegata di motivi: non forniscono servizio di baby-sitter nei giorni di partite , assegnano posti di prima classe ai coach e non ai giocatori sui voli charter e non gestiscono bene gli orari della mensa interna, per cui agli atleti tocca spesso fare lunghe file per il pranzo o per riuscirsi a sedere, e in generale gli spazi in tutti gli ambienti del centro tecnico risultano angusti e poco vivibili. Ogni squadra, poi, deve gestire situazioni diverse, dettate anche dalla geografia e dal clima: a Green Bay, ad esempio, la costruzione di un parcheggio sotterraneo è stata fondamentale, trattandosi di uno dei luoghi più freddi della NFL in cui dunque non era infrequente che i giocatori faticassero a rimettere in moto l’auto in giornate particolarmente gelide. Certo, non sarebbe male se l’associazione calciatori facesse la stessa cosa, in Italia. Ne leggeremmo, probabilmente, delle belle. Ma evidentemente non tutti hanno il coraggio della NFL Players Association. Nemmeno, va detto, le analoghe strutture delle altre leghe professionistiche americane. Che perdono così un’occasione per far parlare di sé nella stagione morta, cosa che la NFL fa benissimo anche quando, come nel caso del sondaggio, questo accade tramite il sindacato e dunque non tutto quello che emerge brilla come dovrebbe.

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Roberto Gotta