Quello che ancora non sapete sul Super Bowl

Via il dente, via il dolore. Il dente è quello dell’origine del Super Bowl e della parola Super Bowl, la finale del campionato NFL. Una specie di tormentone sul quale però, per rispetto dei lettori, è giusto tornare, perché ci può sempre essere chi si avvicina al football americano da neofita e non è detto che un termine ormai universalmente noto sia però chiaro a tutti. Ma bisogna partire da lontano, nel tempo e nello spazio. C’era una volta il football universitario. Sì, c’era una volta e c’è tuttora, ma una volta dominava lo scenario sportivo americano, assieme al baseball, con una forza che oggi è difficile immaginare. Basti però ricordare che tuttora i 14 stadi americani più grandi sono di università, a partire dai 107.601 posti del Michigan Stadium della University of Michigan. Il football di college ebbe un grande impulso tramite alcuni atenei del nordest, e tra questi Yale: che nel 1914 inaugurò uno stadio chiamato Yale Bowl, il primo stadio americano a pianta ovale e non rettangolare e dunque il primo chiamato ‘Bowl’, termine mai usato prima nello sport che indica la scodella o un recipiente da insalata, ritenuto il più appropriato per descrivere la forma dello stadio. Cambiamo costa, e andiamo a Los Angeles, o meglio poco più a nord, a Pasadena: qui, dal 1890, si svolgeva una parata annuale, a Capodanno, chiamata Rose Parade, voluta dai tanti nuovi residenti provenienti da est o nord che in California avevano trovato un clima che permetteva, appunto, la coltivazione delle rose in un periodo in cui le loro città di origine erano coperte di neve. Una sorta di celebrazione o omaggio alla loro nuova residenza, con carri adornati di fiori e rose e gare di tiro alla fune, polo e atletica: una festa che dopo pochi anni era diventato così costosa da richiedere la ricerca di nuovi fondi, e tra i metodi approvati c’era stata dal 1902 l’organizzazione di una partita di football tra squadre universitarie, ad invito, chiamata ‘Tournament East-West football game’. Quando la partita divenne così popolare da rendere insufficiente il Tournament Stadium, che poteva accogliere solo 40.000 spettatori molti dei quali in tribune di legno, si pensò ad un nuovo impianto molto più grande, e l’architetto incaricato, Myron Hunt si ispirò proprio allo Yale Bowl creando così un grande stadio a forma ovale, costruito in pochi mesi, tra febbraio e ottobre 1922. Quando fu il momento di trovare un nome, la scelta cadde tra ‘Tournament of Roses Stadium’ o ‘Tournament of Roses Bowl’, fino al ‘Rose Bowl’, che il 1° gennaio 1923 ospitò una sfida tra Southern California e Penn State. Gli spettatori erano 43.000, non molti più di prima, ma seduti in spalti adeguati e comodi, prima di successivi ampliamenti fino all’attuale capienza, quasi 90.000, con record però di 106.689 per il Rose Bowl del 1973. Allora, ricapitolando, la partita si chiamò Rose Bowl, e da quel momento, per imitazione, tutte le partite universitarie di fine stagione, a invito, presero il nome di bowl: Orange Bowl, Cotton Bowl, Sugar Bowl eccetera, a prescindere dalla forma dello stadio in cui si giocavano. Pro Bowl fu, dal 1950, anche l’All-Star Game annuale, di fine stagione, della NFL. Nel mondo del football, dunque, la parola ‘bowl’ era passata a evocare una sfida importante, perdendo il suo significato iniziale. E quando, nel 1966 fu deciso di procedere ad una fusione tra la NFL e la sua rivale, la AFL, nata sei anni prima, e di organizzare dunque una sfida di fine stagione, il termine bowl saltò fuori proprio per il motivo di cui sopra: anche se ‘Super Bowl’ fu inizialmente un qualcosa buttato lì, quasi per scherzo, da Lamar Hunt, il fondatore e proprietario dei Kansas City Chiefs della AFL. Hunt aveva in testa i bowl universitari e anche, per assonanza, una pallina di gomma dai rimbalzi prodigiosi, la Super Ball, con cui aveva visto ripetutamente giocare in casa i figli Clark, Lamar junior e Sharron. In una lettera a Pete Rozelle, il commissioner della NFL, Hunt scrisse “dobbiamo capire come chiamare la finale, a quella che io per scherzo ho chiamato Super Bowl, nome che sicuramente è migliorabile”. Rozelle era d’accordo: fanatico della grammatica e della correttezza lessicale, detestava il termine ‘Super’, a suo avviso cialtronesco e superficiale, ma scartati ‘World Series of Football’, che richiamava il baseball, e ‘Pro Bowl’, che già identificava l’All-Star Game, non riuscì a trovare meglio di ‘AFL-NFL World Championship Game’, descrittivo e ampio ma non particolarmente creativo. Alcuni quotidiani, però, avevano trovato intrigante ‘Super Bowl’, le reti televisive incaricate di trasmettere la prima finale parlarono di ‘Super Sunday’ e addirittura la NFL Films, il ramo di produzione televisiva della lega, scrisse ‘Super Bowl’ sulle custodie delle bobine delle cineprese utilizzate per la partita e il nome dunque prevalse per abitudine. La finale restò AFL-NFL World Championship Game per due anni, poi dalla terza edizione tutti parlarono di Super Bowl: nome che compariva sul programma ufficiale della partita ma che non era ancora ufficiale a tutti i livelli. Rozelle, peraltro, non si rassegnò e, pochi mesi dopo, indisse un concorso tra giornalisti per la scelta di una nuova denominazione: le proposte furono però così povere che persino lui dovette convincersi che, sì, ‘super’ era una parola colloquiale, quasi grezza, ma rappresentava benissimo quello che la NFL voleva far crescere. La prima edizione si giocò non al Rose Bowl, come avrebbe voluto Rozelle, ma al Los Angeles Memorial Coliseum, e non fu un successo: 61.946 spettatori, non pochi, ma 31.000 in meno della capienza massima. Il prezzo dei biglietti andava da 6 a 12 dollari, nella media per un grande evento, ma molti potenziali spettatori furono dissuasi dal prevedibile divario tra le due finaliste, la celeberrima Green Bay, che aveva dominato la NFL negli ultimi anni, e proprio i Chiefs, considerati, come tutta la AFL, decisamente inferiori. Lo furono alla fine, sconfitti 35-10, ma all’intervallo il punteggio era solo 14-10 per il terrore di molti esponenti della NFL, giornalisti compresi, alcuni dei quali da anni denigravano la lega rivale. Il coach di Green Bay, Vince Lombardi, a cui ora è intitolato il trofeo, era parso addirittura tremare di tensione nell’intervista prepartita con Frank Gifford, cronista della CBS che era stato suo giocatore a New York qualche anno prima. Lombardi, coach di ferro, era stato insolitamente destabilizzato dalla responsabilità di tenere alto il nome della NFL, che già sentiva di suo ed era stata ulteriormente aggravata dal grande numero di telefonate e telegrammi che gli era arrivato da coach, giocatori e dirigenti della NFL, compreso l’antico rivale George Halas, dei Chicago Bears. Alla fine, più sollevato che felice, Lombardi dopo aver ricevuto il trofeo da Rozelle disse, rivolto ai giornalisti che pretendevano da lui un giudizio sull’effettivo valore dei Chiefs rispetto alle squadre NFL, “volete che dica che siamo meglio noi? Ok, siamo meglio noi”, aggiungendo poi che a suo avviso parecchie squadre NFL erano superiori a Kansas City. Uno degli episodi più curiosi della storia avvenne pochi minuti dopo la fine del Super Bowl LI, quello giocato a Houston vinto ai supplementari dai New England Patriots, 34-28, sugli Atlanta Falcons, che verso la fine del terzo quarto erano stati in vantaggio 28-3. Nel dopopartita, dagli spogliatoi sparì la maglia numero 12 di Tom Brady, che aveva appena vinto il sesto dei suoi sette titoli. L’autore di questo articolo si trovò tra i giocatori festanti, in un’atmosfera caotica nella quale atleti e staff abbracciavano chiunque e il proprietario dei Patriots, Robert Kraft, girava offrendo sigari, ma non fu in quei momenti che si verificò il furto: dopo alcuni mesi, esaminate le immagini delle varie telecamere della Fox e controllata l’identità di circa 20.000 persone in possesso di accrediti di vario tipo, l’FBI, ovvero l’ente federale di polizia, identificò il ladro nel giornalista messicano Martin Mauricio Ortega, uno dei responsabili del quotidiano ‘La Prensa’: a casa di Ortega, che subito dopo si dimise, furono trovate la maglia in questione, la maglia di Brady del Super Bowl XLIX di due anni prima, di cui pubblicamente non era mai stata segnalata la scomparsa, e un casco dei Denver Broncos indossato dal difensore Von Miller nel Super Bowl 5O . Il giornalista messicano, terminata la partita e approfittando del fatto che ai giornalisti viene permesso di seguire le ultime fasi della partita da bordocampo, aveva seguito parte dello staff dei Patriots negli spogliatoi prima della loro apertura ai media e, una volta entrato, si era messo di spalle alla telecamera interna e infilato la maglia di Brady in una borsina, uscendo poi prima che qualcuno si accorgesse del fatto. Dall’anno successivo, 2018 dunque Super Bowl LII, la NFL ha ristretto l’accesso ai media nel dopogara, anche perché gli spogliatoi, pur se sempre più vasti, erano diventati davvero infrequentabili per il caos. A proposito di maglie, la scelta delle divise spetta, ogni anno, alla squadra ‘di casa’: designata in anticipo, in ossequio al principio di alternanza tra AFC ed NFC. Quest’anno in casa sono i Philadelphia Eagles, che hanno scelto di giocare con la maglia verde, come in tutti e quattro i Super Bowl precedenti. Scelta estetica e non scaramantica, visto che il bilancio delle finali del passato è di una sola vittoria, quella del 2018. Super Bowl vuol dire feste, esagerate nel numero e nello sfarzo, in alcuni casi più ambite della partita stessa, da chi vuole accedervi. La festa più grande dei primi 30 Super Bowl, a occhio e croce, fu quella di celebrazione dei Baltimore Colts il 18 gennaio, sabato successivo al Super Bowl III, quello giocato a Miami contro i New York Jets. Il proprietario Carroll Rosenbloom, che aveva una villa a Golden Beach, poco a nord della città, aveva invitato il governatore del Maryland Spiro Agnew, alcuni esponenti della famiglia Kennedy, imprenditori, industriali e attori, chiamati a onorare una squadra che rappresentava la tradizione della NFL anche nel coach, Don Shula . Anzi, Shula, il suo staff e i giocatori erano stati ospiti di Rosenbloom, come riconoscenza per la grande stagione, già otto giorni prima del Super Bowl, grazie anche al fatto che la proprietà aveva deciso di portare la squadra in Florida molto prima del dovuto. C’è però un problema: il festone del 18 gennaio non ebbe mai luogo. In una delle sorprese più grandi nella storia del football, infatti, i Colts vennero battuti 16-7. Fu il primo successo di una squadra della AFL, bissato dodici mesi dopo dal trionfo dei Chiefs, 23-7, sui Minnesota Vikings, nell’anno solare 1970 nel quale NFL e AFL si fusero completamente, anche se il processo di formazione delle division fu laboriosissimo e si concluse solo quando tre squadre accettarono di passare dalla NFL alla AFC. Quello del 2025, il Super Bowl LIX, è l’undicesimo che si gioca a New Orleans. La città della Louisiana era stata scelta per la prima volta per il SB IV dell’11 gennaio 1970, ma in quell’occasione si giocò al Tulane Stadium dell’omonima università, uno scodellone decrepito che era stato costruito con cemento armato e mattoni ma ampliato con tribune metalliche costituite da parti di navi da guerra dismesse, e in cui in alcuni casi erano stati lasciati dettagli originali. I dirigenti NFL rimasero malissimo quando lo visitarono dopo il primo sopralluogo, e gli aneddoti legati a quel Super Bowl, giocato sotto la pioggia, sono innumerevoli: ad un certo punto, per coprire i cavi delle comunicazioni e delle tv stesi lungo un corridoio, fu installata una protezione in legno che però accorciò l’altezza del locale e portò numerosi addetti ai lavori a sbattere la testa contro le lampadine che pendevano dal soffitto. Fu anche l’ultimo Super Bowl in cui lo speaker dello stadio operò da una postazione non controllata dai dirigenti della NFL: la decisione fu presa quando lo speaker annunciò al pubblico un’allerta tornado, rischiando di scatenare un panico ingiustificato, visto che l’allerta a basso livello di pericolosità. In seguito, al Tulane Stadium si tornò per i Super Bowl VI e IX , in questo caso però perché non era stata ultimata in tempo la costruzione del Superdome, sede poi del SB XII e di tutti quelli successivi, compreso quello di questo fine settimana. Il trofeo, il Vince Lombardi Trophy, nacque a fine 1966 in circostanze curiose. Il Commissioner Pete Rozelle, convinto che solo producendo e mostrando la massima qualità in tutti i dettagli la NFL avrebbe portato al successo la novità chiamata Super Bowl, affidò direttamente alla celeberrima gioielleria Tiffany’s il compito di creare il trofeo. L’amministratore delegato dell’azienda, appena terminato il colloquio con Rozelle, convocò nel suo ufficio il responsabile del design, Oscar Riedener, e gli spiegò la situazione: Riedener, che era nato in Svizzera e non sapeva nemmeno cosa fosse il football, fu messo in difficoltà dalla richiesta, ma vide la difficoltà come una sfida a livello personale e, uscito dal lavoro, si fermò al noto negozio di giocattoli FAO Schwartz e comprò un pallone di gomma. Il mattino dopo, mentre faceva colazione, fissando il pallone ebbe un’ispirazione: prese forbici, nastro adesivo e colla e ritagliò la scatola di cereali che aveva appena terminato, formando una sorta di sostegno al pallone. Arrivato in ufficio, lo mostrò ad alcuni colleghi, chiedendo loro un parere, e due giorni dopo, a pranzo, disegnò il modello su un tovagliolino di carta, trovando subito l’approvazione dei vertici aziendali e di Rozelle. Ogni anno, tra i dilemmi non sportivi del Super Bowl c’è la durata esatta dell’inno nazionale, soggetta persino a scommesse. È solo per la professionalità degli addetti NFL che minuti e secondi non trapelano in anticipo, perché in realtà dell’inno viene preventivamente registrata una versione di emergenza, casomai la persona o il gruppo di persone incaricate di eseguirlo dovessero avere problemi a farlo dal vivo. Un’abitudine nata nel 1993, quando per problemi logistici, dovuti ad una promessa non mantenuta dall’emittente televisiva che trasmetteva la partita, quella cioè di mandare in onda una parte del suo ultimo video, il cantante country Garth Brooks decise di non cantare l’inno ma tornare in albergo. I responsabili della NFL decisero, con procedura di emergenza, di spostare di 3’ il calcio d’inizio, chiedendo alla NBC di accontentare l’artista, che fu acciuffato da un addetto mentre si stava allacciando la cintura di sicurezza dell’auto che doveva riportarlo in hotel. Da quel momento la NFL decise appunto di far registrare una versione dell’inno da diffondere in caso di emergenza, ovvero di improvvisa indisponibilità della persona scelta per eseguirlo. Il Super Bowl è regolarmente il programma televisivo più seguito dell’anno, in America. Anzi, ad eccezione dell’allunaggio di Apollo 11, il 20 luglio 1969, visto da un numero di persone compreso tra i 125 e i 150 milioni, sommando però tutte le emittenti che lo mandarono in onda, tutti i dieci programmi più seguiti sono stati Super Bowl: la partita in sé più vista è quella dello scorso anno, Kansas City-San Francisco, con 123,7 milioni sintonizzati sulla CBS o sul canale secondario Nickelodeon, che però figura solo al terzo posto. Al secondo c’è infatti sì, un SB, quello XXVII del 1993, ma per lo spettacolo dell’intervallo, l’Halftime Show, che vide protagonista Michael Jackson, al tempo ai vertici assoluti della sua fama. Si parla di 133,4 milioni di spettatori, sulla rete NBC.

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Quello che ancora non sapete sul Super Bowl

Roberto Gotta