Wimbledon, 14 anni fa il più bel Nadal-Federer di sempre

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Giorgia Mecca

Esattamente quattordici anni fa, il 6 luglio 2008, Roger Federer e Rafa Nadal, scendevano in campo per giocare la loro diciottesima partita in carriera, la quattordicesima finale. Federer era la testa di serie numero uno, campione in carica da cinque anni. Nadal, testa di serie numero due, lo aveva appena battuto al Roland Garros. In quel momento c’erano tutti i presupposti ma non ancora la certezza che i due sarebbero stati protagonisti di una delle rivalità più belle della storia dello sport

Mai tornare nei posti in cui siamo stati bene. Questo suggeriscono i saggi. La felicità è fatta di memoria corta, indifferenza alla nostalgia e agli anniversari. A Wimbledon però, è un piacere mettere il dito nella piaga, all’interno del Centre Court è impossibile non costruire ricordi e dunque malinconie preventive. Durante la cerimonia per i cento anni del Centrale più famoso del mondo, ogni immagine sbiadita è stata un nodo alla gola. Esattamente quattordici anni fa, il 6 luglio 2008, Roger Federer e Rafa Nadal, scendevano in campo per giocare la loro diciottesima partita in carriera, la quattordicesima finale. Federer era la testa di serie numero uno, campione in carica da cinque anni. Nadal, testa di serie numero due, lo aveva appena battuto al Roland Garros facendo vacillare il trono. In quel momento c’erano tutti i presupposti ma non ancora la certezza che i due sarebbero stati protagonisti di una delle rivalità più belle della storia dello sport 

Bastava guardare il loro ingresso in campo. Federer, alla ricerca del sesto sigillo, vestito di bianco con decorazioni in oro, con un gilet all’antica, lo stemma RF tatuato sul petto, sembrava uscito da un’altra epoca, un re a cui mancava soltanto la corona. Di fronte a lui un ragazzo di ventidue anni, capelli lunghi, sudato ancora prima di cominciare, una canotta senza maniche e pantaloni alle ginocchia, cerotti in tutte le dita della mano, muscoli asimmetrici in evidenza, ogni colpo un urlo, una deroga alla regola del tempio: “silence please”. Da una parte della rete i tic, dall’altra il tennis vissuto come esperienza religiosa. Se il tennis fosse una gara in cui vince il giocatore più elegante, probabilmente quella partita non si sarebbe nemmeno giocata. Ma il tennis, per fortuna, è fatto di rovesci lungolinea a una mano che sembrano usciti da un manuale, dritti colpiti con i piedi sollevati dal terreno, senza fatica, come se fosse il movimento più naturale del mondo, ma è fatto anche di sudore e di nervi contratti, chilometri di corsa e di resistenza lontani dalla linea di fondocampo a logorare l’avversario, ad aspettarne il crollo facendosi trovare pronti. C’è una frase che accoglie i giocatori prima di accedere sul Centrale, l’ha scritta Rudyard Kipling e fa parte della poesia If. “Che tu possa incontrare il trionfo e il disastro e fronteggiare quei due impostori nello stesso modo”. Sembra facile, ma come si fa a mettere sullo stesso piano vittoria e sconfitta, gloria e abisso, una stretta di mano da campione e una da vinto?

Cinque set, tre tie break, 4 ore e 48 minuti di gioco, una lunga pausa per pioggia. È cominciata con il sole, ha rischiato di essere interrotta per oscurità (se Nadal non avesse vinto l’ultimo game l’organizzazione era pronta per far continuare la partita il giorno dopo). Federer era pronto per superare il record di vittorie consecutive stabilito da Bjorn Borg, Nadal era il padrone della terra rossa, ma il suo gioco, per i puristi non si addiceva all’erba. Due campioni per due superfici, un equilibrio perfetto che stava per crollare a beneficio dello spettacolo e della contaminazione tra stili. Nervi tesi contro vincenti tirati a occhi chiusi. Tutto di quel giorno è leggendario, la telecronaca degli immensi Rino Tommasi e Gianni Clerici, lo Scriba che sul finale è stato sostituito dal grande Roberto Lombardi, gli scambi di venti colpi, le rincorse di Nadal, il rifiuto di accettare la sconfitta di Federer, il suo urlo dopo aver recuperato due set di svantaggio, il match point salvato con un capolavoro, il tuffo a terra di Nadal quando capisce che è finita, che ha vinto, è lui il nuovo campione di Wimbledon.  

È leggendaria la carezza del campione  - con un ex davanti - sul viso del nuovo re, le lacrime dello spagnolo che prova ad asciugarsele con un asciugamano ormai logoro senza riuscirci. 

Quattordici anni dopo, Federer è un ex campione che spera di ritornare a giocare a Londra ancora una volta, è stato numero uno al mondo e adesso sta per perdere il ranking, il suo posto nel tennis. Quest’anno è entrato sul Campo Centrale per il centenario vestito in borghese, da non giocatore, alimentando la nostalgia, l’imminenza del momento in cui parleremo del suo gioco al passato. Nadal al contrario nel giorno dell’anniversario della sua incoronazione scenderà in campo, quello stesso campo, da giocatore, per i quarti di finale contro Taylor Fritz. E chissà quindi se in fondo ha ragione chi pensa che sia meglio non tornare nei posti in cui siamo stati felici o se ancora una volta hanno ragione loro, Federer e Nadal che  quel campo Centrale non hanno ancora voglia di lasciarlo scivolare via.