Quello che non avete visto degli Australian Open di Sinner

Per raccontare l’Australia Open di Sinner bisogna partire dalla fine, da Zverev che prende il suo posto in aereo per rientrare da Melbourne e si ritrova davanti a quello di Jannik. Scatta la risata. Jannik ha appena posato la scatola che contiene la sua seconda Norman Brooks challenge cup, è il suo bagaglio a mano, anche se in realtà se la passano Alex Vittur e il fratello Mark. Andrà messa a casa dei suoi genitori perché l’appartamento di Montecarlo ha già esaurito il suo spazio per i trofei. Zverev distoglie lo sguardo, ma dopo essere stato consolato da Sinner sulla Rod Laver Arena sceglie l’ironia “almeno questa volta sono davanti a lui”. E’ la fine del viaggio australiano, un viaggio in cui è tutto un po’ sottosopra, ma alla fine da qualsiasi prospettiva si veda il tennis mondiale davanti c’è ancora lui. “Sono solo un ragazzo che gioca a tennis non cambio il mondo”. Dice così Jannik, ma in realtà il mondo un po’ lo cambia. Il suo e anche il nostro. Rende felici guardarlo in campo, rende orgogliosi vederlo esultare dopo averlo seguito ogni giorno in ogni allenamento, vedendo, ancora una volta, quanto lavoro ci sia dietro. Gli allenamenti a Melbourne Park ci raccontano, ancora una volta tutto questo e anche di più. 14 gennaio, è una giornata di preparazione al match come tante altre, ma in fondo speciale. Jannik si presenta sul campo all’aperto numero 17 alle 12.30. Il sole a picco non ferma i tifosi che lo seguono per un’ora e mezza. Lui in campo cura ogni dettaglio con il suo team che a un certo punto si allarga. Darren Cahill esce dal campo e va a prendere un signore sulle tribunette, si mettono a fondo campo e parlano. E’ suo papà John, 84 anni. E’ stato allenatore di football australiano. Sa cosa significhi gestire gli sportivi, riuscire a dargli indicazioni per crescere come atleti e come persone. Cahill senior saluta Jannik, ascolta la spiegazione di suo figlio quando gli mostra su cosa stiano lavorando: il movimento del servizio. Più fluido il braccio, un mulinello per renderlo più efficace. Il tennis è uno sport di squadra. Il confronto costante, il mettersi in discussione, la continua ricerca di allargare la propria comfort zone per farci rientrare perfettamente l’obiettivo. A fine allenamento il classico gioco stile bocce: tutto il team schierato, chi lancia la palla oltre la linea di fondo dovrà subire la penitenza. E’ Cahill. Tocca a lui mettersi di schiena e rischiare di essere centrato da un dritto di Jannik prima e di Vagnozzi poi. Sorrisi. Si esce così, regalandosi ai tifosi. C’è un ragazzo coi capelli rossi che gli fa notare la somiglianza tricologica, Sinner gli regala il suo asciugamano autografato. “Sono ossessionato , ma anche sensibile” dice Jannik quando si racconta. E’ il centro di quel team che è famiglia. Il posto sicuro. Dove può concedersi anche di essere fragile. Un team in cui il giorno della finale, nel warm up non manca il sorriso. Cahill si avvicina al microfono del giudice di sedia e dice “buongiorno Mark” , sembra una cosa banale, ma fa capire l’atmosfera che si respira. C’è leggerezza. Non come contrario di serietà, ma di pesantezza. Non e’ solo un ragazzo che gioca a Tennis. E’ Jannik Sinner.

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