La vita al fronte di Sergiy Stakhovsky, tennista sul campo di battaglia per l'Ucraina

“Il soldato prega più di tutti gli altri per la pace, perché è lui che deve patire e portare le ferite e le cicatrici più profonde della guerra”, così diceva il Comandante Supremo delle forze alleate del Pacifico Sud-Occidentale Douglas MacArthur. Ma a volte pregare non basta, perché la pace non arriva e tutto intorno continuano a fischiare le pallottole e a risuonare i tuoni delle bombe. E’ così anche lungo il fronte russo-ucraino, dove oramai il conflitto si protrae da più di tre anni e, solo ora che è già entrato nel quarto, si intravede una piccola luce di speranza. Non che all’orizzonte ci sarà una ‘pace giusta’, perché in guerra di paci giuste non ce ne sono, ma che quanto meno possa esserci presto una tregua e poi una pace. Che riporti un po’ di serenità e di fiducia in luoghi offesi e dilaniati dalle avidità di uomini che giocano a gonfiare il petto, sulla pelle di chi non può fare altro che seguirli nel loro delirio. Nella contesa fra Russia e Ucraina è difficile stabilire chi, cosa, come, dove e quanto. Almeno se si vuole stabilire un minimo di oggettività sincera. E’ tuttavia oramai chiaro che, dopo più di quattrocento giorni di guerra e centinaia di migliaia di morti, l’Ucraina ne sta uscendo lacerata, perdendo cinque regioni, costretta a svendere pezzi preziosi del proprio territorio e senza le garanzie di poter entrare a far parte né della Nato né dell’Unione Europea come le avevano fatto credere. E che non sono stati risolti né i contrasti risalenti al passato storico, né i dissapori nati nel 2014 e dopo la strage di Odessa, tantomeno i problemi sorti dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. A conferma che dietro i massacri in prima linea e gli eccidi di civili, da un lato e dall’altro, la guerra rimane “un cavalletto, i politici ne sono il quadro e i soldati ne sono il colore”, come diceva qualcuno. E quel colore è troppo spesso il rosso del sangue. In Ucraina, dopo lo scoppio del conflitto, sono stati richiamati in trincea anche i riservisti, oltre ai militari di carriera, quelli di leva e - tristemente - anche gli arruolati forzati, sequestrati per strada e poi costretti dai cosiddetti ‘reclutatori’ a indossare una divisa e spediti al fronte dalla sera alla mattina. Il governo di Kiev lo ha definito ‘gesto di forza maggiore’ per necessità di uomini. A mente fredda è un atto crudele e coatto. E infatti in alcune zone del Paese c’è chi ha preso a ribellarsi a questo 'arruolamento' coartato. C’è poi chi ha manifestato il proprio desiderio di difendere la Patria e - qui non giudichiamo nessuno, se non il gran gesto altruistico e profondo di credere in qualcosa - volontariamente ha imbracciato il fucile, abbandonando la propria vita da civile. Che poteva essere più comoda, poteva offrire qualche scappatoia, poteva risultare meno pericolosa e persino una scelta giustificabile. Il rispetto - da ambo le parti - è dovuto. Uno dei privilegiati che avrebbe forse potuto trovare una via d’uscita alla partecipazione diretta alla guerra è Serhij Eduardovyč Stachovs'kyj, ex tennista professionista, nato a Kiev, protagonista del circuito ATP fino al 2022 e accreditato nel 2010 di una 31a posizione nel ranking internazionale nel singolare maschile e 33a nel doppio. Vincitore di ben quattro titoli nel circuito sia in singolare che in doppio e con alle spalle anche una partecipazione olimpica alle Olimpiadi di Londra. A uno come lui non sarebbe stato certo difficile rendersi irreperibile, ottenere una seconda nazionalità, non rientrare in Patria per i motivi più disparati. E invece no, Serhij Eduardovyč Stachovs'kyj ha preso la decisione più difficile ma più coraggiosa e non si è tirato indietro. E quando è scoppiato il conflitto si è arruolato fra i riservisti dell’esercito presso un centro militare della sua città, Kiev, raggiungendo subito le postazioni di difesa cittadine. Una decisione coraggiosa, di altri tempi, per l’allòra 36enne ex tennista che in carriera si era goduto anche il sottile piacere di sconfiggere in campo il migliore di sempre, Roger Federer e sull’erba di Wimbledon, dove lo svizzero si sentiva come nel salotto di casa propria. Dal momento del trasferimento in prima linea, però, Stachovs'kyj ha tenuto un filo diretto e continuo con il suo vecchio mondo e con la stampa internazionale, inviando pensieri e sensazioni. Emozioni che a volte sono sembrate perfino gli ultimi desideri di un soldato in guerra, altre la delusione di chi si accorge che dopo i primi momenti di coinvolgimento generale, ciò che accade lungo gli scannafossi sembra aver perso di interesse per il resto del mondo. Che ora pare di nuovo aver posto attenzione sulla tragedia al confine orientale dell’Europa, dopo l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca e gli sforzi di conciliazione, spesso malvisti dalla parti in causa. Il pensiero ricorrente di Stachovs'kyj va alla moglie, dalla quale si era separato in passato, e ai suoi tre figli che ora vivono all’estero. Il desiderio di poterli riabbracciare tutti è forte, quanto il timore di non riuscire a sopravvivere all’ultimo atto - se sarà mai l’ultimo, poi - del conflitto. Ma sa anche che questa è la sua guerra, la guerra di resistenza e di esistenza del suo Paese. E che non chiede che la propria scelta venga valutata, che qualcuno si dia pena per comprendere se sia stata giusta o sbagliata. Se non si fosse arruolato, Serhij si sarebbe sentito in colpa verso i suoi connazionali, verso il padre e il fratello che vivono a Kiev. Anche se aver fatto questo passo è stato quasi un azzardo, non avendo mai preso in mano nient’altro che una racchetta. E un fucile è una cosa ben diversa. E poi i campi da tennis insegnano il rispetto di chi è dall’altra parte della rete. In guerra, non c’è tempo per il rispetto, si è costretti a perderlo il rispetto. Nelle frasi di Serhij Stachovs'kyj sembra quasi di rileggere le parole di Fabrizio De André, quando nella sua 'La guerra di Piero' ammonisce che non c’è tempo per il riguardo di chi si ha di fronte quando si è su un campo di battaglia… “E mentre marciavi con l'anima in spalle / vedesti un uomo in fondo alla valle / che aveva il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore / Sparagli Piero, sparagli ora /e dopo un colpo sparagli ancora / fino a che tu non lo vedrai esangue / cadere in terra a coprire il suo sangue / E se gli sparo in fronte o nel cuore / soltanto il tempo avrà per morire / ma il tempo a me resterà per vedere / vedere gli occhi di un uomo che muore / E mentre gli usi questa premura / quello si volta, ti vede e ha paura / ed imbracciata l'artiglieria / non ti ricambia la cortesia“. No, non c’è tempo per le cortesìe in guerra e questo Serhij lo ha capito subito. Sin dal primo giorno. Il canale Telegram Ukraine Now è stato il primo a diffondere la notizia di Stachovs'kyj in guerra. Certo non è il primo e non sarà l’ultimo atleta famoso a vestire la divisa ucraina nel conflitto contro la Russia. Di atleti, dall’inizio della guerra, ne sono morti almeno cinquecento. Dalla medaglia d’argento olimpica jr. della boxe Maksym Halinichev - caduto il 10 marzo del 2023 vicino a Kreminna, nella regione del Lugansk - a Mykhailo Yuriiovych Matiushenko - ex campione e allenatore di nuoto, fino a Maksym Symaniuk - astro nascente del karate, ucciso a Kiev insieme alla madre e alla sorella, che era una giovane ginnasta. Non tutti al fronte, ma tutti per colpa dei proiettili e delle bombe, che sono molto diversi dalle palle scagliate da fondo campo da un avversario, per quanto motivato e forte. Serhij ha raccontato che a volte gli viene difficile dormire con tutte queste cose in testa. E poi c’è la paura, che non va mai via. Esatto, la paura. La paura che è ancora maggiore in chi non è mai stato un soldato e non ha mai impugnato un’arma. Ogni tanto uno scambio di messaggi aiuta a non pensare. Una volta con Novak Djokovic e con Andrey Rublev si sono parlati a lungo. E la cosa gli ha dato coraggio. Anche se è convinto che non basterà la guerra, né la pace a mettere fine a tutto. Perché Serhij Stachovs'kyj è sicuro che Vladimir Putin non voglia fermarsi all’Ucraina. E per quanto possa non sembrare questo il desiderio profondo dello ‘zar’, bisogna mettersi nei panni di chi vive la guerra dall’altra parte della barricata. E Andrey ha potuto dirgli poco, lui è russo e ai russi è vietato schierarsi contro la guerra. Anche il collega Alexandr Dolgopolov sta combattendo. E’ di Kiev come Serhij. Aveva smesso col tennis nel 2021, poi era fuggito in Turchia, infine è tornato in Ucraina e si è arruolato. Sono in reparti diversi e lontani. Dolgopolov è con l’aviazione. L’esperienza mi suggerisce di comprendere Serhij Stachovs'kyj, ma di pesare ogni sua parola. Se ascoltassi un soldato del fronte opposto direbbe le stesse cose a parti invertite. In guerra si mescolano amor di Patria e orgoglio, paura e rabbia, bandiera e parzialità e il resto lo fa la propaganda che spesso non racconta tutta la verità a tutti. La realtà è che, se non ci fossero di mezzo la politica e le armi, questi ragazzi penserebbero a fare di tutto meno che a spararsi addosso l’un l’altro. Il volto di Stachovs'kyj vestito da soldato è scuro, triste, amaro. Le sue dichiarazioni sono dure, sofferte, spaventate. “La guerra è surreale, poi in fondo ci si abitua pure a quella. Già è molto essere ancora vivi. E’ un inferno di dolore, sofferenza, di cuori che si spezzano, di padri che seppelliscono i figli, di madri che affidano le figlie a estranei perché le salvino. Si inizia a vivere per vendetta e quel dolore che ti entra dentro poi non ti lascia più”. A dirla tutta, Serhij con le armi aveva familiarizzato un po’ nel 2014, quando la Russia aveva invaso la Crimea. Un istruttore privato gli aveva insegnato i primi rudimenti sull’utilizzo di una pistola e di un fucile, ma poi non ci aveva più pensato. Era stato un corso per difesa, poi messo da parte. Ma la guerra, quella vera, è un’altra cosa. Come quella volta nei pressi di Donetsk, a Kalmius dove era crollato il ponte e una raffica ha centrato in pieno la macchina sulla quale viaggiava, che per fortuna era blindata. O durante quell’attacco aereo alla stazione centrale di Kiev, che ancora gli fischiano le orecchie per quanto forte era il sibilo dei missili. Di sicuro la guerra cambia le persone e anche Serhij è cambiato. E lo sa. Quando ha deciso di indossare la divisa ha seguito l’istinto, ora la sete di vendetta insegue lui. Mentre è costante quel pensiero della morte sempre compagna di viaggio, ogni giorno. “Sono pronto a morire per il mio Paese, altrimenti non sarei qui”, risponde Serhij a chi gli domanda quale sia il sentimento che lo lega all’Ucraina. “Ci siamo abituati alle bombe che tutti i giorni esplodono, ai droni che ci volteggiano sulle teste, ai morti intorno. Comprendo che il mondo al di là dei nostri confini non possa vivere con il peso del nostro conflitto. Ognuno ha la propria vita e non biasimo nessuno. Non credo che ci si sia dimenticati di noi, ma certo noi non possiamo mollare proprio ora”. Ma sbaglia chi pensa che Serhij non abbia in cuor suo un pensiero per la pace. E per i suoi figli, troppo piccoli per capire, troppo piccoli per non vederlo ritornare sano e salvo a casa. Quando a marzo del 2022 lo aveva raggiunto sotto le armi anche Andrij Medvedev, oggi 50enne, avversario di Agassi al Roland Garros del 1999. Poi anche le loro strade si sono divise. “In guerra ci si perde facilmente di vista”. Importante è non morire. Sopravvivere a oltre tre anni di guerra non è stato facile, vedere i figli ogni sei mesi è stato terribile, sempre col timore che possa essere l’ultima volta. Sempre con il desiderio di chiedere perdono alla ex moglie per una separazione inevitabile. Ma ognuno reagisce in modo diverso di fronte a una guerra che gli scoppia in casa. Nessuno sa prima come si comporterà in quel momento. C’è chi scappa, c’è chi rimane. Nessuno ha il diritto di giudicare, nessuno merita di essere giudicato. E poi c’è chi ritorna e si carica di una responsabilità forse più grande di lui. “Provo una forte inquietudine” - dice Serhij - “sento che morirò, a volte ne sono certo, do che morirò. Ma vorrei poter avere prima il tempo di chiedere perdono a chi amo”. Ogni volta che lascia il Paese ha bisogno di un permesso speciale, è così per tutti coloro i quali hanno deciso di schierarsi a difesa dell’Ucraina. “Come spiegarlo a tre bambini di 11, 10 e 6 anni?” “Quando tutto è iniziato, ci davano tre giorni per cadere, poi due settimane. Sono più di tre anni che stiamo combattendo La nostra economia va avanti, i servizi pubblici funzionano, la gente lavora, le banche producono. Con l’aiuto di Usa ed Europa ci siamo difesi in modo più efficace, adesso cambieranno molte cose e ci costerà più vite, dovremo imparare a fare da soli. Ci stiamo perfino abituando alla vulnerabilità e all’idea della morte. Ci diciamo solo. Il prossimo non sarò io. Però non c’è molto da scegliere: o si fa ciò che è giusto e si protegge ciò in cui si crede, oppure non lo si fa affatto”. La vita di Serhij è cambiata, le sue prospettive sono cambiate, i suoi progetti sono per ora svaniti. Da riservista combatte all’interno delle città insieme all’esercito e alla Guardia Nazionale e aspetta. Aspetta che tutto finisca. Perché prima o poi tutto finirà. E’ nella natura delle cose. “Ho fatto quel che credevo giusto e continuo a combattere per ciò che è giusto. E’ dura ma è così. Non tornerei mai - ora come ora - dalla mia famiglia. Se tutti coloro che hanno scelto di difendere l’Ucraina dicessero ‘ecco, ho fatto la mia parte e ora me ne vado’, chi resterebbe a difenderla?”. Sarà un idealista Serhij Eduardovyč Stachovs'kyj, ma ha avuto un gran coraggio e continua ad averlo. Intanto scrive, scrive agli ex avversari e amici del circuito ATP, pensa ai figli, ripensa ai mille volti anonimi incontrati per strada, ai caduti in battaglia, ai civili morti, alla guerra e se sia poi davvero giusto tutto questo. E sa bene che dall’altra parte delle linee nemiche c’è un Serhij russo con le sue stesse paure, i suoi stessi ideali, le sue stesse emozioni. E pur desiderando vincere, comprende - anzi, forse l’ha già compreso - cosa volesse dire Walter Scott con quella frase: “La guerra è l’unico gioco in cui entrambe le parti perdono”.

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