Il tennis ha trovato i suoi nuovi dei: l'epoca dell'epica rivalità tra Sinner ed Alcaraz

Un duello antico e nuovo insieme, dove il tennis si fa epica, non più soltanto sport. Carlos Alcaraz e Jannik Sinner, due ragazzi nati a cavallo del terzo millennio, hanno combattuto una finale che non è soltanto la fine di un torneo: è l’inizio di un’epoca. A Parigi l’8 giugno 2025 era domenica, ma sulla terra del Roland Garros non c’è stata quiete né serenità. Ardore, fame, anelito. Carlos ha vinto, parrebbe proprio di sì. Se fosse un libro, sarebbe uno di quelli che ti fanno alzare gli occhi ogni tanto, come a dire: “Ma questo è davvero umano?” Corre come un levriero, colpisce come un fabbro e inventa come un poeta francese. Ha le rotazioni di Nadal, l’istinto artistico di Federer e la cattiveria sanguinaria di Djokovic. Ma guai a incasellarlo: lui è Alcaraz, l’erede senza eredità, l’uomo nuovo. E Jannikkino nostro? Sinner ne è l’antitesi perfetta: elegante e contenuto, pare scolpito nel marmo delle Dolomiti che lo hanno cresciuto. Si muove più silenzioso, ma anche la sua racchetta è un violino stradivariano: fa musica pura, specie quando il diritto si apre come un sipario e il rovescio dipinge traiettorie che sembrano partiture. Ha perso, Jannik. Ma il tempo gioca dalla sua. Anzi: gioca con lui. Perché se è vero che lo spagnolo è più imprevedibile e plastico, Jannik è più verticale, più coerente, più disciplinato. La classifica è lì scolpita a dimostrarlo. La crescita mentale, che fino a due anni fa pareva il suo tallone d’Achille, è ormai consolidata, un’arma affilata. I dati sono chiari: contro Carlitos perde, contro gli altri mai. Dopo i tre mesi di assenza finale a Roma e Parigi. Sulla terra. La sua superficie peggiore. Non proprio malaccio, a ben riflettere. Il gap c’è ancora, ma ormai si misura in millimetri. Chi può inserirsi tra questi due? Verrebbe da dire: nessuno. Come durante l’epoca dei tre Re, anche oggi la sensazione è che il tennis sia un regno diviso in due. Rune continua a brillare a intermittenza, Musetti a deliziare e illudere, Shelton a servire forte e pensare poco. E poi? Un ragazzo british, Jack Draper, mostra svisate promettenti, a Wimbledon andrà evitato. Il francese Fils ha forza e cervello. Zverev, Medvedev e Tsitsipas sono consunti e depressi; Mensik boh. Fritz chi? Berrettini, se stesse bene magari! Sembrano comparse, almeno per ora, in un film scritto per due protagonisti. Eccoci qui, a 2025 inoltrato, con la sensazione elettrica di assistere non a una rivalità qualunque, ma a quella giusta. Come Borg e McEnroe, come Agassi e Sampras, come Nadal e Federer. Una rivalità che ha già una propria estetica: fuoco e ghiaccio, frusta e scalpello. Carlos è istinto, Jannik è progetto. L’uno ci lascia a bocca aperta, l’altro ci costringe a riflettere. Alla fine, sotto lo sguardo non troppo discreto né silenzioso del Philippe Chatrier, tra le note della Marsigliese che nessuno canta più davvero, abbiamo visto la cosa più bella: il tennis che salva se stesso, trovando i suoi nuovi dei senza doverli cercare con affanno. Nadal è ormai una eco lontana, Federer un ricordo dolce, Djokovic una leggenda a margine. Ma la storia non si è chiusa: ha solo voltato pagina. E noi, seduti sulle tribune del tempo, possiamo dire di averli visti nascere, Sinner e Alcaraz, come chi era a Parigi nel 1984 quando Lendl rovesciò McEnroe, o a Roma nel 1976 quando Panatta fermò Borg. Chi vincerà di più? Chi sarà il numero uno dei numeri uno? Forse il tempo non lo dirà. O forse lo dirà nel modo più strano: facendoli crescere insieme, eterni rivali e fratelli nel gioco, destinati a spartirsi tutto come due sovrani in uno scacchiere di polvere rossa, poi di erba spelacchiata, poi di cemento pitturato, e poi a giro si ricomincia. Perché in fondo il tennis è questo, una poesia di battaglie silenziose, un duello tra gentiluomini, un futuro che corre veloce a intersecare le righe bianche del campo. E mai come oggi, la sensazione è che il meglio debba ancora venire.

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