La casa di Alcaraz come metafora di un campione

Un salotto semplice, si direbbe mediterraneo nella sua estetica quotidiana. Una tovaglia cerata dai motivi geometrici, molto comune nelle case reali, non nelle pagine di Architectural Digest. Un televisore acceso sul tennis, la Coppa Davis. Ripiani e mensole con coppe e trofei, accanto a foto di famiglia. Le scarpe appoggiate e i piedi sul tavolo. Niente lusso esibito, niente minimalismo da architetti scandinavi, nessuna estetica da brand personale. La casa apparsa l’altro giorno in una foto postata da Carlitos Alcaraz è una casa abitata, non una casa allestita. Eppure lo scatto da tifoso davanti al doppio di Granollers-Martinez ha scatenato l’ironia e il sarcasmo tra la rete e dintorni, forse perché siamo abituati a un modello di atleta-star altamente codificato: uno da interni bianchi e spogli, da riviste di design, con i trofei sistemati sotto teche illuminate, una vita instagrammabile mai domestica, mai imperfetta. Quando qualcuno si mostra in modo così ordinario, rompe il codice estetico dell’élite sportiva. E rompere quel codice, oggi, viene scambiato per cattivo gusto. La casa delle origini di Alcaraz è la cosa più distante dal suo infinito braccio di ferro con Jannik Sinner. Non insegue la performance. Non gareggia. Non finge. Sembra un luogo dove si può respirare, mangiare, stare in famiglia, guardare la TV coi piedi sul tavolo. Una vita tranquilla dentro un’esistenza straordinaria. Una semplicità che nel mondo attuale è una forma di bellezza. O forse di stupore, di meraviglia - che della bellezza sono accessori raffinati. Questa fotografia — la casa del miglior tennista del mondo che si mostra nudo come un ragazzo qualunque — non è soltanto un dettaglio di costume. È una scena letteraria, e appartiene con naturalezza alla tradizione americana del realismo sobrio. In alto a destra ci sono le coppe vinte agli US Open e a Wimbledon, come accade nei romanzi di Steinbeck agli oggetti importanti. Non vivono sugli altari, stanno in mezzo alle cose comuni. In Furore partecipano allo spazio domestico senza diventare reliquie. Il fazzoletto della madre, la Bibbia di famiglia, il carillon rotto. Dentro casa di Alcaraz quei due simboli universali di gloria sono appoggiati su un mobile accanto a una TV media di una casa media, senza alcuna ansia di autocelebrazione. La tovaglia è l’elemento più rivelatore della stanza. È l’oggetto che nessun arredatore metterebbe lì, ma si trova in tutte le cucine di Holt, la città di Canto della pianura e Benedizione di Kent Haruf, nelle case dove le superfici si coprono per essere usate, non per essere guardate, dove la vita quotidiana succede e deve poter succedere. Una tovaglia di plastica ha la virtù di resistere al tempo, al disordine, alle macchie. Resiste alle offese della vita. I piedi sul tavolo o sulla sedia sono quelli dei piccoli gesti non pensati dei personaggi di Elizabeth Strout, quelli che si sfilano le scarpe in cucina o siedono storte su una sedia. Ne descrivi una, uno, e sono meglio di mille monologhi. Questo fa il piede di Carlitos. Non è maleducazione, né arroganza. È la postura di chi non si sente osservato. La bellezza della casa delle radici di Alcaraz, la casa dei suoi genitori, non viene dalla forma, ma dalla trasparenza. È una cosa che la narrativa americana o le canzoni di Bruce Springsteen hanno fatto per decenni: raccontare l’eroe attraverso la sua normalità. Un eroe che rimane figlio della sua storia anche quando diventa qualcos’altro. La semplicità non è ignoranza ma radicamento. Se hai vinto 16 milioni di dollari di montepremi, l’assenza di ostentazione non è ovviamente povertà: è identità. La normalità non è negazione della grandezza: è il suo fondamento. La casa di Alcaraz è letteraria nei dettagli che non cambiano quando tutto il resto muta. La nostra derisione diffusa nasce dall’idea che un successo debba riscrivere un’estetica. Ma non c’è niente di più umano che restare fedeli alle cose che ti hanno costruito. E se Alcaraz preferisce una tovaglia cerata a un tavolo di marmo da 12.000 euro, quella cerata dice molto più del suo carattere di quanto farebbe il loft partorito da un designer.

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Angelo Carotenuto