Il gesto di Mauro Berruto per la Palestina: lo sport come respiro di libertà

Da responsabile per lo sport del Partito Democratico aveva lanciato la petizione per l’esclusione di Israele dalle competizioni sportive internazionali, in risposta a quanto sta accadendo nella striscia di Gaza. Ora Mauro Berruto ha deciso di fare ancora di più e torna idealmente su una panchina di pallavolo, lì dove da allenatore aveva conquistato il bronzo olimpico a Londra con la nazionale italiana e ottenuto grandi risultati con la Finlandia, paese che non aveva particolari tradizioni nel volley. Adesso i due sentieri nella vita di Berruto, quello sportivo e quello politico, si uniscono: nell’ultima settimana di novembre quello che oggi è un deputato della Repubblica italiana tornerà ad allenare. Lo farà con una squadra alle prese con la più terribile difficoltà, non rappresentata da un avversario ma da una guerra priva di ogni regola d’ingaggio, la rappresentativa palestinese. Berruto ha annunciato il suo impegno attraverso un post sui social, corredato da una foto che non potrebbe spiegare meglio la situazione. Ci sono i giocatori nei pressi della rete, e con loro gli allenatori, ma nell’immagine alcuni appaiono a colori, altri, tre atleti e un tecnico, in bianco e nero. Non è un errore di stampa: le persone in bianconero non sono più tra noi. Poco da aggiungere, se non le parole stesse di Berruto: “Ho fiducia nello sport come respiro di libertà”, e non si potrebbe dire meglio. Un campo da gioco, una pista, un’arena, un ring sono il veicolo migliore per denunciare l’ingiustizia e poter affermare la propria esistenza. Lo utilizza ora il popolo palestinese attraverso i loro pallavolisti, l’ha fatto in passato il Sudafrica schiacciato dal vergognoso apartheid dei duri boeri contro la maggioranza nera. Nelson Mandela affidò proprio allo sport il messaggio più forte contro il razzismo, “perché ha la forza di cambiare il mondo, unire le persone e più potere nei governi per irridere a ogni tipo di discriminazione”. Eletto presidente del Sudafrica, scelse paradossalmente la squadra più divisiva che si potesse immaginare, la nazionale di rugby degli Springboks, simbolo del razzismo bianco, per unire il paese, Allo stupore generale, l’uomo che aveva saputo vedere oltre i muri della prigione di Robben Island in cui fu rinchiuso per 27 anni, indicò l’ala Chester Williams. Era l’unico nero in una squadra interamente bianca, ma a Mandela bastò per indicare che quella nazionale rappresentava tutto il Sudafrica e non solo una parte. Quell’anno, 1995, in quel paese era prevista la coppa del Mondo di rugby e, a mano a mano che il torneo si svolgeva, gli Springboks trovavano sempre maggiore appoggio: quello dei bianchi, scontato, ma anche quello dei neri. Nella finale di Ellis Park, a Johannesburg, c’era davvero tutto un paese a tifare per i ‘Bokkies’ contro gli All Blacks del leggendario Jonah Lomu. Vinse il Sudafrica, come in un film, e infatti Clint Eastwood non perse l’occasione per una pellicola in cui la sceneggiatura era stata scritta dalla realtà. Compreso il finale, Mandela che premia il capitano Francois Pienaar e lo ringrazia per quello che la squadra aveva fatto per il paese e il numero 6 che lo corregge: “Presidente, siamo noi a dover ringraziare lei per quanto ha fatto per il nostro paese”. Nemmeno il cinema sa vedere lontano come lo sport.

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Nicola Roggero