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NBA, addio a Jerry Krause, GM dei Bulls di Jordan

NBA

Mauro Bevacqua

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Si è spento a 77 anni l'architetto e general managaer dei Bulls 6 volte campioni NBA di Michael Jordan e Phil Jackson. Un personaggio controverso, amato e odiato, titolare di una carriera incredibile durata oltre 50 anni. E non solo sui parquet di basket...

Da qualche anno ormai se la doveva vedere con parecchi problemi di salute –  una cronica osteomielite (un’infezione che riguarda contemporaneamente ossa e cavità midollare) curata due volte senza successo, due operazioni al cuore e una alla prostata. A 77 anni il cuore di Jerry Krause ha smesso di battere, quel cuore che il proprietario dei Bulls e amico Jerry Reinsdorf in passato aveva definito “un grande cuore, di una persona buona”. Famoso per essere stato il general manager dei Chicago Bulls capaci di vincere sei titoli NBA negli anni Novanta sotto la guida di Michael Jordan in campo e Phil Jackson in panchina, con Jerry Krause se ne va un pezzo di storia della NBA. Non sempre amatisssimo da tutti, non sempre facile da sopportare, ma molto ammirato per le sue doti professionali (“Lavora tantissimo, non si ferma mai. Parla con tantissime persone, va a caccia di tutte le informazioni possibili – da qui uno dei suoi soprannomi, “Il segugio”, cortesia di Pat Williams – ma poi si tiene tutto per sé”, la descrizione di Reinsdorf), Krause si considerava – prima ancora che un GM – uno scout. La sua prima passione, e poi anche l’ultima, l’attività che lo ha tenuto impegnato negli ultimi anni della sua vita, a libro paga degli Arizona Diamondbacks. Sì, una squadra della Major League, perché la capacità di Krause nel valutare il talento non si fermava ai parquet, ma si estendeva anche ai diamanti del baseball, i due amori di una carriera durata oltre 50 anni (che per 12 stagioni lo ha visto impegnato contemporaneamente sui due fronti). “Se la salute me lo permettesse, sarei ancora in giro a fare lo scout”, diceva solo un paio di anni fa. “Alla mia età sarebbe stupido, lo so, ma fare scouting mi diverte. Ho sempre saputo di saperlo fare bene, giudicare talento è il mio dono”. 

Quei suoi Bulls da leggenda – Parlano per lui i giocatori che ha scelto e voluto nelle sue squadre: Earl Monroe e Wes Unseld ai Baltimore Bullets, Jerry Sloan e Scottie Pippen ai Bulls, per fare solo qualche nome. No, quello di Michael Jordan non appare, perché Krause arriva a Chicago nel 1985, un anno dopo “His Airness”, scelto al Draft 1984 dall’allora GM Rod Thorn (e grazie alla decisione di Portland di andare su Sam Bowie). Ma a Jordan, ovviamente, si legano i punti più alti – e forse anche quelli più bassi – della carriera di Krause, in un rapporto complicato fin dall’inizio, da quando MJ si rompe un piede durante la sua seconda stagione NBA e spinge per rientrare il prima possibile, trovando proprio in Krause l’avversario più duro, impegnato a predicare un approccio più cauto e conservativo che consideri rischi e opportunità sul medio-lungo periodo e non solo i vantaggi sul breve. “Che avessi torto o ragione, quando ho accettato il ruolo di GM ai Bulls mi sono ripromesso di non essere ostaggio di MJ, e di non dovere baciargli per forza il di dietro. È questo il motivo per cui tra noi spesso ci sono state scintille”. Una posizione coraggiosa, come quella di scambiare – dopo averlo personalmente scelto al Draft – Charles Oakley, il miglior amico di Jordan in squadra (oltre che la sua guardia del corpo in campo) per arrivare a Bill Cartwright, secondo Phil Jackson “il pezzo mancante per far funzionare alla meraviglia l’attacco Triangolo”. Ah, Phil Jackson. Anche coach Zen e il suo fido assistente Tex Winter (genio del Triple Post Offense) devono la loro assunzione ai Bulls a Jerry Krause, che di quello squadrone sei volte campione NBA è stato a tutti gli effetti il grande architetto. Costruisce quel gruppo dalle fondamenta (e nel 1988 vince il suo primo titolo di Executive of the year, dirigente dell’anno NBA) per poi reinventarlo dopo il primo ritiro di Jordan (“Quel 1994 è stato l’anno più divertente della mia carriera, abbiamo vinto 55 gare giocando alla perfezione il Triangolo”) con la trade che nel 1995 porta a Chicago Dennis Rodman. Quei Bulls del record, 72-10 e titolo NBA, gli regalano un altro premio di dirigente dell’anno, ma completato il secondo threepeat arrivano i momenti bui, coincisi ovviamente con il ritiro di Jordan e la dissoluzione di un gruppo unico.

 

Un’omissione fondamentale – Di quei giorni anche la frase che forse più di tutte condanna Jerry Krause. “Giocatori e allenatori da soli non vincono i titoli”, dichiara, ma quel “da soli” viene – più o meno malignamente – dimenticato, da Michael Jordan (“il giocatore”), da Phil Jackson (“l’allenatore”) e presto da tutta l’opinione pubblica. Che Krause non ha mai avuto dalla sua parte, per via di un carattere non certo facile (“Non è molto diplomatico, ha il dono di far infuriare le persone e si lega al dito i torti subiti”, ammette il suo amico Jerry Reinsdorf) e anche di un look che non lo ha mai aiutato. “Briciole” (“Crumbs”) il soprannome non certo tenero affibbiatogli da Michael Jordan “perché Jerry si presentava spesso in palestra con i resti del suo pranzo sulla camicia”, mentre anche la stampa di Chicago non ha mancato di ironizzare sui suoi chili di troppo: “Nessuno ha mai visto insieme Jerry Krause e Benny the  Bull [la mascotte della squadra, ndr], ma le voci che siano la stessa creature sono false: Benny the Bull è stato visto con due completi diversi”. “Sono un solitario”, ammetteva Krause, una caratteristica che non l’ha aiutato quando le cose hanno iniziata ad andare meno bene: la scelta (da lui fortemente caldeggiata) dell’amico Tim Floyd per raccogliere l’eredità di Phil Jackson sulla panchina di Chicago e quelle, fallimentari, di Marcus Fizer e Dalibor Bagaric al Draft. Nel 2003 – citando “motivi di salute” – le strade di Krause e dei Bulls si separano dopo 18 anni, con l’ex GM comunque a suo agio nel tornare a indossare i vecchi panni dello scout, per diverse squadre MLB tra cui gli Yankees, i Mets, i White Sox e i Diamondbacks. D’altronde l’aveva detto in tempi non sospetti, sulla sua tomba avrebbe voluto una, semplice iscrizione: “Qui giace l’anima e il cuore di uno scout”.