Quel pomeriggio ad Atlanta '96 quando incontrai Muhammad
Altri SportUN RICORDO PERSONALE. Era il 19 luglio del '96, Centennial Olympic Games, Atlanta, Georgia. Le Olimpiadi del Centenario nel regno della Coca Cola, ma le bollicine le agitò all'improvviso la comparsa di un monumento travestito da uomo tremolante. I VIDEO
Guida tv: su Espn Classic lo Speciale Ali
di PAOLO PAGANI
Era il 19 luglio del '96, Centennial Olympic Games, Atlanta, Georgia. Le Olimpiadi del Centenario nel regno della Coca Cola, ma le bollicine in sala stampa le agitò all'improvviso la comparsa di un monumento travestito da uomo tremolante. Arrivò Lui, il Più Grande, Cassius Clay-Muhammad Ali, la temibile mano destra stampata per decenni sui musi di tanti rivali ora erosa da un Parkinson disonesto.
Ali si materializzò così in un pomeriggio estivo nella capitale delle pesche, l'Atlanta di Via col Vento e Rossella O'Hara. A lui, simbolo nero di un'America sognata senza distinzione di colori tra i diritti, era stato affidato da Acog (l'Organizzazione dei Giochi) l'onore di far scoccare la scintilla nel braciere che avrebbe acceso le Olimpiadi nella città di Martin Luther King. Ammutolimmo, come quando appare qualcosa di troppo grande e non spiegabile. Come quando la vita ti regala l'inaspettabile, come quando realizzi che esiste quel che credevi abitasse dimensioni differenti dalla cronaca. Ricordo la t-Shirt bianca con il logo di Atlanta, indossata su pantaloni altrettanto candidi, sneakers in tinta, e quel braccio sinistro sinistramente incollato al "bersaglio grosso", al busto che un tempo era stato quello di un sex symbol arrogante. Non lo staccava perchè in quel modo il fremito, il tremolìo, si notava molto meno.
Strinse tantissime mani, sibilò qualche parola ai giornalisti americani e non, tutti noi in adorazione muta. Stava lì e il motto della nazionale Usa di boxe ai Giochi di Atlanta trovò, d'improvviso, incarnazione fisica in un organismo vivente: "It's not the triumph, but the struggle", non conta trionfare, quel che importa è la battaglia. Ali icona del combattente: per i diritti dei neri, per la vittoria sportiva, per un futuro diverso negli anni del Sogno Americano.
Il 24 luglio, pochi giorni dopo, incontrai a West End, ghetto di Atlanta, Evander Holyfield, ex Mondiale dei Massimi pure lui. Allenava la squadra olimpica Usa. Gli chiedemmo perché avesse scelto quello slum, una periferia fetida e degradata, per preparare campioni da podio. Nella sua crudele risposta c'era tutta la Sidewalk University, ovvero la libera Università del Marciapiede: "Si allenano qua nella sporcizia così sanno cosa succede dopo, se non vincono". Ali l'aveva capito 30 anni prima. Bello e giusto ricordarlo oggi. Tanti auguri, campione.
di PAOLO PAGANI
Era il 19 luglio del '96, Centennial Olympic Games, Atlanta, Georgia. Le Olimpiadi del Centenario nel regno della Coca Cola, ma le bollicine in sala stampa le agitò all'improvviso la comparsa di un monumento travestito da uomo tremolante. Arrivò Lui, il Più Grande, Cassius Clay-Muhammad Ali, la temibile mano destra stampata per decenni sui musi di tanti rivali ora erosa da un Parkinson disonesto.
Ali si materializzò così in un pomeriggio estivo nella capitale delle pesche, l'Atlanta di Via col Vento e Rossella O'Hara. A lui, simbolo nero di un'America sognata senza distinzione di colori tra i diritti, era stato affidato da Acog (l'Organizzazione dei Giochi) l'onore di far scoccare la scintilla nel braciere che avrebbe acceso le Olimpiadi nella città di Martin Luther King. Ammutolimmo, come quando appare qualcosa di troppo grande e non spiegabile. Come quando la vita ti regala l'inaspettabile, come quando realizzi che esiste quel che credevi abitasse dimensioni differenti dalla cronaca. Ricordo la t-Shirt bianca con il logo di Atlanta, indossata su pantaloni altrettanto candidi, sneakers in tinta, e quel braccio sinistro sinistramente incollato al "bersaglio grosso", al busto che un tempo era stato quello di un sex symbol arrogante. Non lo staccava perchè in quel modo il fremito, il tremolìo, si notava molto meno.
Strinse tantissime mani, sibilò qualche parola ai giornalisti americani e non, tutti noi in adorazione muta. Stava lì e il motto della nazionale Usa di boxe ai Giochi di Atlanta trovò, d'improvviso, incarnazione fisica in un organismo vivente: "It's not the triumph, but the struggle", non conta trionfare, quel che importa è la battaglia. Ali icona del combattente: per i diritti dei neri, per la vittoria sportiva, per un futuro diverso negli anni del Sogno Americano.
Il 24 luglio, pochi giorni dopo, incontrai a West End, ghetto di Atlanta, Evander Holyfield, ex Mondiale dei Massimi pure lui. Allenava la squadra olimpica Usa. Gli chiedemmo perché avesse scelto quello slum, una periferia fetida e degradata, per preparare campioni da podio. Nella sua crudele risposta c'era tutta la Sidewalk University, ovvero la libera Università del Marciapiede: "Si allenano qua nella sporcizia così sanno cosa succede dopo, se non vincono". Ali l'aveva capito 30 anni prima. Bello e giusto ricordarlo oggi. Tanti auguri, campione.