Ogni giorno, durante le feste, un personale ricordo del 2016 da parte dei volti di Sky Sport. L'evento vissuto, raccontato oppure sentito più vicino
Pensavo che il vecchio leone avrebbe tenuto ancora qualche round. O forse lo speravo soltanto. Sapevo che il più grande nella sua trilogia era già arrivato due volte alla quindicesima e solo a Manila non aveva attraversato gli ultimi tre minuti. Ma unicamente perché Frazier aveva dovuto obbedire al suo angolo e restare seduto.
Quella notte del 3 giugno 2016 eravamo come nel terzo match con Smocking Joe. E a non rialzarsi, questa volta, è stato lui. Lui che annunciato al mondo che non è tanto grave andare al tappeto…lo è rimanerci…
Ho scoperto di essere un po’ più solo la mattina del 4 giugno 2016. E per me il 4 giugno il giorno della memoria. Quattro, come il 4 (aprile) quando morì Martin Luther King. Il 4/6…come 6 (luglio) fu il giorno in cui morì Bob Kennedy. Entrambi nel 1968, quando Muhammad era stato da poco spogliato del titolo che aveva tolto a Sonny Liston nel ‘64.
Alì era già una leggenda, arrivandoci da vivo e senza bisogno di transitare attraverso la storia. Lo era per tutto quello che ha fatto e che ha ispirato.
A me ha molto intrigato la sua vicenda umana prima della conversione e del cambio di nome. Credo che non avremmo mai avuto Alì se non ci fosse stato Cassius.
E “Quando ero Cassius” è il filo conduttore di una tensione emotiva che ho sviluppato negli ultimi anni per lui e che mio ha portato a immedesimarmi nelle sue gesta. Non solo sul ring, ma anche in quella caserma in Texas quando rimase silente davanti ad un ufficiale dell’esercito che gli chiedeva di fare un passo avanti e giurare fedeltà alla Patria ed andare in Vietnam.
Il 2016 ha portato Muhammad Alì in una dimensione diversa, ultraterrena. Restano le emozioni che ha saputo accendere, qualche contraddizione (soprattutto per non “essere riuscito a interrompere ciò che amava prima che ciò che amava interrompesse lui”) e tanto coraggio.
Se potessi riavvolgere il nastro della sua vita sportiva schiaccerei il tasto “stop” dopo il terzo match con Frazier. Quello fu il momento agonisticamente più alto, così come Atlanta ’96 fu quello sentimentalmente più forte.
Potessi invece esprimere un desiderio mi piacerebbe che uno come lui fosse nato trent’anni più tardi. Avremmo tanto bisogno di avere uno come lui in tempi di basso impero come questi. Ma quel che conta davvero è che Alì ci sia stato, che abbia attraversato le vite di tutti noi e che ci abbia lasciato un testamento morale e sportivo che nessuno potrai mai scalfire.