La luce sul ring, il buio nella vita: Carlos Monzon a 30 dalla morte

Aveva la faccia di chi conosceva il suo tempo e la sua storia, gli occhi fieri di chi aveva deciso di affrontare la vita prendendola a pugni. Cresciuto nella povertà più estrema del nord dell’Argentina, Carlos Monzon fu da subito soprannominato escopeta, il fucile, per la potenza dei suoi pugni. Ma in tanti non avevano colto fino in fondo quello che aveva dentro, quei demoni dai quali non è mai riuscito completamente a liberarsi nel corso della sua esistenza. A 30 anni dalla sua scomparsa vecchi filmati ne ripropongono le gesta, ne evidenziano la forza, la spregiudicatezza anche fuori dal ring, la rabbia mista a senso di rivalsa per chi era partito da meno di niente e si era ritrovato sul tetto del mondo. Ha lasciato segni nella storia del pugilato che nessuno ha mai dimenticato come la potenza dei suoi pugni. Sesto di 12 figli aveva vissuto la sua infanzia in un sobborgo di Santa Fe. I Monzon erano discendenti dei Mocovì, indios del Chaco meridionale, superstiti di un atroce destino. Il piccolo Carlos aveva da subito visto morire cinque suoi fratelli di malattia e uno di morte violenta, aveva fatto i lavoretti più diversi per aiutare la famiglia. Da lustrascarpe a strillone di giornali, in giro per le strade polverose fin dalle prime luci del giorno a consegnare cartoni di latte. La boxe nella sua esistenza già molto complicata gli cadde addosso quasi come una benedizione. Fu il suo primo maestro, Amilcare Brusa, a coglierne le doti e la straordinaria potenza dei suoi colpi. Un sodalizio umano mai scalfito dal tempo. Uomo Amilcare, che seppe forgiare la tecnica di Carlos, quella scherma pugilistica mai eccessivamente spettacolare ma così efficace nel corpo a corpo e soprattutto quando riusciva a piazzare quel diretto destro implacabile e definitivo. Idolatrato dalle masse, idolo delle donne, tra i flirt più chiacchierati quelli con Ursula Andress e Nathalie Delon, prese il volo presto con la sua carriera e i soldi che in breve tempo era riuscito a guadagnare. Sette anni dopo i suoi esordi sui ring di provincia conquista nel 1970 il titolo della categoria dei medi contro il nostro Nino Benvenuti. Da semisconosciuto alle platee pugilistiche europee in poco tempo batte tutti i più forti della categoria, Emile Griffith, Josè Napoles, Bennie Brisco, Rodrigo Valdez ripassando da Benvenuti, sconfitto nuovamente in una rivincita senza storia. Difese il titolo 10 volte fino al 1977, quando lasciò la boxe da campione in carica. Dopo Ray Sugar Robinson, per un indimenticabile storyteller del ring come Rino Tommasi, fu il più grande peso medio della storia del pugilato. Non riuscì a godersi però fino in fondo il successo, le borse milionarie, quel benessere tanto agognato, la frequentazione di politici e star mondiali, con i matrimoni che si rivelano un totale fallimento. Dal primo all’ultimo finito tragicamente. Donnaiolo incallito, ma anche alcoolista senza freni, riuscì a dilapidare il patrimonio creato a suon di pugni e sudore non trovando mai un equilibrio vero tra una vita professionale gloriosa e immacolata e una vita privata dissoluta e terribilmente drammatica. La sera di San Valentino del 1988 a Mar del Plata la sua ultima moglie Alicia Muniz precipitò dal balcone strangolata e percossa. Monzon, completamente ubriaco, parlò di un incidente, non venne creduto e le prove schiaccianti lo portarono ad una condanna di 18 anni, poi ridotti ad 11. In carcere provò a cambiare vita, si liberò dai demoni dell’alcool, iniziò a istruirsi e a leggere, scrivere lettere al suo ultimo figlio, accogliere le visita di chi voleva andarlo a trovare, come Nino Benvenuti. L’abbraccio fra i due campioni fu sincero, una conciliazione di anime profondamente diverse ma unite dal rispetto che solo un ring sa regalare. La buona condotta gli consentì, dopo 7 anni di detenzione, di uscire dal carcere di giorno ma proprio mentre rientrava in penitenziario dopo un permesso, l’8 gennaio del 1995, perse il controllo della sua Renault e finì fuori strada. Uno schianto a 140 all’ora che a 52 anni ne spezzò il legame con la vita. Un fuori pista, l’ultimo, quello fatale, metafora della sua esistenza. Un sipario, quel giorno di 30 anni fa, che drammaticamente calò sulla vita di un uomo che ha fatto tutto molto velocemente, forse troppo, non rallentando mai nel passaggio da una infanzia mai vissuta a una maturità mai pienamente raggiunta. Solo i suoi saltelli sul ring per 15 anni e quei pugni poderosi furono veramente illuminati dai riflettori dell’ammirazione. 20 mila persone gli resero omaggio ai funerali perché nessuno, in fondo, nonostante le tenebre che ne hanno attraversato l’esistenza, aveva mai realmente spento la luce su Carlos Monzon, che rimarrà in eterno uno dei più straordinari pugili della sua generazione e in senso assoluto dello sport argentino.

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Andrea Paventi