Arthur Gatti, il campione di boxe che non è mai sceso dal ring

È ricca di colori la barriera corallina che al tramonto appare quando c’è la bassa marea e forma le meravigliose piscine naturali che rendono uniche le incontaminate acque di fronte alle spiagge bianche di Porto de Galinhas, in Brasile. È uno spettacolo naturale incantevole. La cornice ideale, per impreziosire il suo buen retiro, scelta da Arturo ‘Thunder’ Gatti, ex campione di pugilato ora un po' appesantito, con lo sguardo malinconico di chi è entrato nell’anticamera dell’Olimpo ma è stato costretto dal destino a fermarsi sulla soglia della gloria. Sorriso magnetico, volto segnato da tante battaglie, animo lacerato da un presente precario, da una vita sperperata. Proprio come i soldi guadagnati in carriera e poi spesi per mantenere la famiglia e mantenere un modo di vivere esagerato, il giusto risarcimento per chi era partito dal nulla e aveva scoperto il successo, tornato nella polvere della miseria dopo essersi inebriato di quella delle stelle. Perché Arthur Gatti la fame l’aveva conosciuta da vicino, nato com’era da genitori modesti di San Pietro Infine, un piccolissimo comune del casertano di nemmeno mille abitanti, emigrati a Cassino poco prima di attraversare l’oceano e tentare la fortuna in Canada, dove Arturo arriva bambino e cerca di adattarsi come può. Il papà muore quando ha appena quindici anni, il Canada è a quel tempo un’America che non ce l’ha fatta, freddissimo e poco ospitale. Ricco di tanti paisà partiti per fare fortuna, ma così difficile da scalare. Soprattutto per un ragazzo rimasto senza guida, senza istruzione e che vive in una famiglia che si esprime praticamente in dialetto. Protagonista di una esistenza difficile, che tuttavia ne forgia il carattere, ma lo costringe a una vita in salita, ad arrangiarsi come può, a inventarsi un presente sempre maledettamente troppo complicato e un futuro del quale non si intravede neppure uno straccio di contorno. Il padre di Arturo era un elettricista ed era anche un appassionato di pugilato. Una passione trasmessa al suo ragazzo più dell’interesse per pinze, cavi e cacciaviti. Arturo, ormai per tutti diventato Arthur, decide perciò di indossare i guantoni e salire su un ring: la più classica delle armi del riscatto sociale per chi si sente emarginato e condannato a restare un nessuno per tutta la sua esistenza. Gravato dal peso della sua origine di immigrato, Arthur si sente solo, senza speranza, senza via d’uscita, profondamente vittima del contesto nel quale è stato precipitato. E la boxe gli pare una corda tesa nel buio di quel buco nero nel quale si sente sprofondato. Gli inizi non sono facili, ma il ragazzo è determinato. La sua carriera amatoriale è molto più che incoraggiante e in poco tempo si schiude per lui la grande opportunità di andare alle Olimpiadi di Barcellona a rappresentare il Canada, ma rifiuta e decide di passare al professionismo. Forse un errore, chissà. C’è chi ha giurato di aver sentito dire che col tempo Arthur si fosse pentito di quella scelta che rese immortali Cassius Clay, Leon Spinks, Joe Frazier, George Foreman. Tutti passati dal podio olimpico prima di diventare eterni. Ma in realtà, a conti fatti, in quel momento della sua vita quella è la scelta migliore per Gatti. L’italo canadese, oramai naturalizzato nordamericano, non è un combattente da canotta e caschetto, non è fatto per tre riprese striminzite. Gatti è un lottatore sulle lunghe distanze, è un incassatore, è veemente, ha forza, resistenza, ha cuore, coraggio. Non scambia colpi di fioretto, ama il corpo a corpo. Ha capito che sa fare a cazzotti, che la cosa lo eccita e lo fa sentire invincibile e che possono pagarlo pure bene. Anche per questo a diciannove anni lascia Montreal per gli Stati Uniti e raggiunge il New Jersey. La speranza che lo sospinge è quella di potersi affrancare da quella vita di stenti che gli è toccata in sorte. Ma negli States deve ricominciare tutto da capo. È nella periferia delle periferie di New York, sulla punta del picciolo di una Grande Mela che non sa neppure chi lui sia. Dalla sua ha però la comunità vastissima di italoamericani che può aiutarlo a inserirsi. E difatti non impiega molto a tornare a combattere e farsi un nome. Sei incontri, sei vittorie. Cinque per ko. Poi la prima sconfitta per split decision, contro lo sconosciuto King Solomon. Niente male per incominciare. E sempre con quel suo modo rutilante di combattere che nel sottobosco della boxe newyorkese gli fa guadagnare il soprannome di ‘thunder’. La sua vita è fatta di poche cose: allenamento e sacrificio, incontri e incasso della borsa. E per ora gli basta. Vince ventitré combattimenti consecutivi, ma già dopo i primi dieci conquista il titolo americano dei superpiuma . La sua prima vittima eccellente è Pete Taliaferro. Lo sconfigge al ‘Meadowlands Convention Center’ di Secaucus, nella contea di Hudson, per decisione unanime. Taliaferro dura solo un round. Gatti parte al gong come un kamikaze, subito all’attacco. Ha il pugno pesante come un macigno. Non è bello da vedere, ma diamine se è efficace. Non arretra, cerca lo scontro fisico, stende l’avversario tre volte. E prima di incominciare il match è già finito. Poi, dopo quel primo grande vero successo, la marcia incontrastata come un carro armato su chiunque gli si pari davanti. Tre difese del titolo, tre vittorie. Poi dopo altre due vittorie e finalmente il primo titolo del mondo Ibf contro Tracy Harris Patterson, vinto ai punti al Madison Square Garden di New York. Il tempio. La sua maschera è impressionante. La mascella serrata, l’addome duro come il cemento. Gatti incassa i colpi di Patterson. Il pugile dell’Alabama picchia come un fabbro ma Gatti non retrocede di un passo. Anzi, sembra quasi che ogni montante, ogni gancio, ogni diretto preso in realtà lo carichi, gli dia più forza. È come se immagazzinasse i colpi dell’avversario per poi restituire tutto quel dolore e quella violenza con ancora più rabbia. È una battaglia al massacro, nessuno dei due pugili si tira indietro, ma Gatti dà la sensazione di non voler essere il primo a cedere. È il suo stile assurdo, al rialzo, masochistico. Una sfida continua a Patterson che ad ogni colpo portato è come se leggesse negli occhi dell’italocanadese ‘È tutto qui? Vediamo se sai fare di meglio…’. Arthur è deciso ad andare avanti fino all’esaurimento di ogni stilla di energia, gladiatorio, dominatore della scena, mentre intorno il pubblico è in delirio. Gli occhi gonfi, il volto tumefatto, il furore di un guerriero che non vuole lasciare nulla al caso e vuole ‘distruggere il nemico’ a costo di distruggere sé stesso. Arthur è ormai il padrone incontrastato della sua categoria. Pertanto, dopo aver portato a cinque le difese vincenti, decide di salire di peso, a caccia di stimoli nuovi. E farà un esordio difficile fra pugili pericolosi con cinque libbre di peso in più addosso , che fanno della categoria all’apparenza un’esperienza quasi proibitiva. Tre sconfitte molto spettacolari e poi il primo grande incontro da cineteca della boxe, contro il temibile welter messicano Gabriel Ruelas, il 4 ottobre 1997. ‘The Ring Magazine’ definirà quel match ‘Fight of the Year’ . Contro Ruelas il quarto e il quinto round sono straordinari, ricchi di una serie di scambi senza soluzione di continuità. Fino a che Ruelas non piomba a terra sfinito e abbattuto dal pugno di pietra di Gatti. La rivincita, contro un Gatti più maturo e scaltro che decide di puntare sull’astuzia e sulla scelta di tempo, mettendo in difficoltà il suo avversario con una serie di toccate e fughe che alla fine otterranno l’obiettivo di consentirgli di pareggiare i conti. E infine il terzo atto della sfida fra i due pugili che, intanto, sono diventati amici, sono stati ricoverati insieme e si frequentano anche al di là del ring. Questa volta Gatti torna all’antico e opta per il corpo a corpo sorprendendo Ward. Ma ‘Irish’, nato negli Usa da genitori irlandesi, è più solido e anche più potente e alla fine ha la meglio. Non senza spargimento di sangue, ematomi, lesioni e passaggio in ospedale per entrambi. A fine carriera la loro amicizia sarà così forte che Ward entrerà nello staff a bordo ring di Gatti, diventando parte dell’entourage dell’italocanadese insieme al mitico Hector Roca. Ward ha appeso prima di ‘Thunder’ i guantoni al fatidico chiodo. È molto amato nell’ambiente. È sempre stato un pugile rognoso ma molto leale, un eroe della classe operaia, uscito dalle difficoltà grazie alla propria determinazione e al duro lavoro. È anche per questo che decide di allenare Gatti e seguirlo nel suo ultimo incontro, dopo che nella fase calante anche i risultati non sono più gli stessi. È vero che Arthur ha conquistato nella seconda fase della sua carriera anche un altro titolo mondiale, nei superleggeri, contro il laziale Gianluca Branco, ex campione europeo, fratello minore di Silvio Branco detto ‘Il barbaro’. E che per due volte ha difeso vittoriosamente la cintura. Ma con l’avvento sulla scena di Floyd Mayweather Jr. le cose sono cambiate. Anche il pugilato. Il pugile del Michigan è un armadio incontenibile. Tanto che diventerà campione WBC in cinque categorie differenti di peso. E per un Gatti in declino è una montagna di muscoli impossibile da scalare. Al sesto round Arthur deve mollare, l’angolo urla disperatamente “No more… too much” durante il controllo medico a fine round. Lo sguardo dell’italocanadese è perso nel vuoto, non vorrebbe arrendersi, il suo viso è praticamente irriconoscibile, Maywather ha colpito scientificamente e si è abbattuto come un maglio sugli occhi, sugli zigomi, sulle mascelle di Arthur. Ma ‘Thunder’ è ancora lì con il cuore, si arrabbia con i secondi, non vuole cedere alla realtà. Ma viene costretto ad abbandonare. Dopo Mayweather torna sul ring e vince ancora, contro l’imbattuto danese Thomas Damgaard . Vuole uscire fra gli applausi e da campione, ci riesce, ma sa che qualcosa è cambiato. Sente che i suoi riflessi non sono più come quelli di un tempo, che il ritmo è diverso, che adesso anche i suoi assalti sono un po’ meno furiosi. Ma non ce la fa proprio a smettere. Ha fatto a botte per tutta la vita e con la vita. Che cosa c’è oltre il ring? La paura e la tragedia Ecco, ‘Thunder’ scopre a questo punto della vita di avere paura. E non l’aveva mai provata prima. Non l’aveva provata quando aveva mandato in coma Joey Gamache dopo due riprese e quando la famiglia di quello cercò di spillargli soldi chiedendo un sostanzioso risarcimento danni che però non fu accordato, non l’aveva provata nella sconfitta all’esordio fra i leggeri contro Angel Manfredy quando rischiò di perdere l’occhio sinistro, non la prova neppure nelle ultime due sconfitte in carriera, maturate contro l’argentino Carlos Manuel Baldomir e il messicano Alfonso Gomez. Ma quella sensazione vissuta durante l’incontro vinto con Damgaard gli è rimasta dentro. Vincendo ha avvertito di non essere più lui. E con il cuore gonfio di dolore e il morale a terra, prende atto che contro Baldomir e Gomez ha buttato via due incontri che avrebbe dominato in altri tempi. Questo vuol dire solo una cosa. Il corpo a corpo più selvaggio, quello contro l’età, lo ha perso. In diretta a ‘The Contender’, il reality show di Espn sul mondo del pugilato, dalla ‘Board Walk Hall Arena’ di Atlantic City, Arturo ‘Thunder’ Gatti guarda in camera e confessa: “Hasta la vista baby. Non posso più subire questo genere di punizioni. Non posso combattere ad armi pari nella categoria dei welter e alla mia età non posso più scendere sotto i 147 pounds. Perciò vi saluto. Ringrazio tutti, tutta la gente che mi ha seguito e ha tifato per me con grande calore e affetto per tutti questi anni. Tornerò ancora alla ‘Board Walk Hall’, ma questa volta come spettatore”. Poi si lascia trascinare giù dallo sgabello come dal ring e dalla sua vita. È segnato, abbattuto, questa volta non ha più risorse per reagire. Ed esce di scena. Pensando che presto sarà un signore di mezza età come tanti, una vecchia gloria ancora inseguita per qualche intervista o un autografo, prima di cadere nel dimenticatoio. Ma il suo stile di vita sregolato non gli viene in aiuto. Arthur già da tempo soffre di attacchi di depressione. Non lo sa nessuno, a parte quell’amico al quale si presentò una notte di cinque anni prima chiedendogli in prestito la pistola. E a parte quei pochissimi intimi che lo aiutarono a gestire il tentato suicidio -l’anno dopo- con un’overdose di cocaina, alcool e farmaci che gli costò un ricovero ‘segretissimo’ in un ospedale del New Jersey. Una vita disordinata che non migliorò certo dopo i due matrimoni e la nascita di due figli . Fatto sta che nella vita del bambino di Cassino, emigrato in Canada e diventato campione negli States ci sono tanti segreti e tanti buchi neri, in uno dei quali Arthur precipita definitivamente dopo il ritiro dal pugilato. Dopo una carriera nella quale ha combattuto 49 incontri, vincendone 40 . È ricca di colori la barriera corallina che al tramonto appare quando c’è la bassa marea e forma le meravigliose piscine naturali che rendono uniche le incontaminate acque di fronte alle spiagge bianche di Porto de Galinhas, in Brasile. È uno spettacolo naturale incantevole. La cornice ideale, per impreziosire il suo buen retiro, scelta da Arturo ‘Thunder’ Gatti che, nel luglio del 2009, decide di prenotarvi una vacanza con la famiglia. Non è un uomo sereno e questo è visibile a tutti. È un uomo tormentato. Lontano anche dal campione che con Micky Ward sul ring ha dato vita a una delle trilogie più struggenti della storia del pugilato: ‘The War’. Trenta round senza un titolo mondiale in palio, a dare e prendere botte soltanto per il gusto di restare testa a testa al centro del ring, alla corta distanza. Prima di passare la notte insieme in ospedale uno accanto all’altro da fratelli e amici per sempre. Una vacanza che l’11 luglio di quel 2009 prende, tuttavia, una piega inaspettata quando Arthur viene ritrovato senza vita nella sua stanza in un resort di Porto de Galinhas, con una profonda ferita alla testa, riverso in una pozza di sangue. In cima alle scale è appesa una cintura, con la quale si sarebbe impiccato prima di crollare sul pavimento. Sul tavolo una carta di credito e della cocaina. La famiglia incolpa la seconda moglie Amanda Rodriguez, che viene indagata e messa agli arresti perché il suo racconto è pieno di contraddizioni ed ha atteso per dieci ore prima di chiedere soccorso. E poi Arthur ha due grandi lividi dietro il collo, come se fosse stato colpito e poi soffocato, una volta incosciente. Ma Amanda viene rilasciata per mancanza di prove. E il Brasile archivierà il caso come suicidio nel 2013. Micky Ward ancora oggi non ci crede, come dimostrerebbe anche un rapporto privato di 300 pagine redatto su richiesta dei familiari. Quel che resta è una storia intricata, un caso giudiziario in cui si confondono colpe e responsabilità. Da una parte la famiglia e gli amici, dall’altra la moglie. In mezzo la dipendenza ormai acclarata di Gatti da alcool e cocaina. Accuse reciproche per contendersi la memoria di un uomo -e di un campione- al tempo stesso fragile e di ferro. E forse anche di quel che rimane della sua fortuna. Sebbene il secondo matrimonio non fosse per nulla riuscito a rasserenare Arthur: la coppia era sull’orlo del divorzio, i litigi erano all’ordine del giorno e anche le denunce di Amanda verso il marito, che quando si lasciava andare diventava violento. Il rapporto era tossico, il viaggio in Brasile era stato pianificato per ritrovare l’armonia perduta. Ma Amanda ci aveva messo molto del suo, a detta di chi conosceva la coppia: lo maltrattava, lo umiliava. E Arthur si rifugiava nella droga e nel bere. L’attesa che tornasse il sereno diventava la mamma premurosa di tutte le sue frustrazioni. La vita di Arthur -che stava già naufragando dopo il primo divorzio- era andata del tutto alla deriva dopo le seconde nozze e dopo il ritiro dal ring: non c’era più un sacco contro cui sfogarsi, un avversario con cui prendersela, un obiettivo da inseguire per distrarsi . Gli psicofarmaci avevano fatto il resto. L’esistenza era diventata piatta, noiosa, fatta di liti e riconciliazioni. Arthur non aveva più un posto nel mondo dopo avere faticato tanto per conquistarsene uno, neppure a casa propria. Nulla aveva più senso. Non c’era più adrenalina. Erano rimasti i segni delle battaglie sostenute, i dolori, la vista si era annebbiata e la depressione peggiorava. ‘Thunder the winner’ si stava trasformando in un ‘looser’ o forse stava solo tornando ciò che era sempre stato sin dalla nascita per scelta del caso. La dipendenza porta all’autodistruzione, la solitudine e la depressione esaltano il circolo vizioso. E l’uomo che voleva restare sempre in piedi si era riscoperto seduto. ‘Thunder’ era triste, voleva essere solo il più tenace, il più duro. Era solo uno che sapeva fare a botte. Niente di più. E adesso che non c’era più da menare le mani il mondo gli era crollato addosso. Fino a quel giorno, a quel viaggio, a quell’ultima speranza appesa a quell’orizzonte di colori al tramonto. Mentre i passi misuravano la sabbia e l’acqua sciabordava dolcemente a riva. A trentasette anni, ad Arthur Gatti la vita sembrava un treno e lui ci era finito sotto. L’ultima notte era passata insolitamente senza liti, nella stanza c’erano solo lui, Amanda e il bambino. Il commissario Josedith Ferreira non si dà pace. Per lui è omicidio. Ma i giudici la pensano diversamente. A 37 anni, nel modo peggiore, l’animo tormentato di Arthur trova pace. Il 15 aprile 2025 Arturo ‘Thunder’ Gatti avrebbe compiuto 53 anni. Meriterebbe giustizia, merita di non essere dimenticato. Nel nostro ricordo troverà il suo giusto posto.

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Lucio Rizzica