"Mennea 1980, Pietrograd". La Storia di Matteo Marani su Sky
su skyMartedì 21 marzo, su Sky Sport Uno e disponibile on demand- in occasione dell'anniversario dei 10 anni dalla morte- la puntata della serie “Storie di Matteo Marani” dedicata alla vittoria di Pietro Mennea nei 200 metri alle Olimpiadi di Mosca 1980
Alle 20.15 del 28 luglio 1980, orario di Mosca, le 19.15 in Italia, alla terza curva dello stadio Lenin c’erano 23 gradi, un’umidità del 53% e un vento inferiore al metro al secondo. Ma c’era soprattutto un uomo che nei successivi dieci secondi avrebbe raggiunto la vittoria più celebre nell’intera storia dell’atletica leggera italiana, suggellando con l’oro olimpico una rincorsa partita da Barletta più di dieci anni prima.
Pietro Mennea uscì da settimo alla curva della finale dei 200 metri piani delle Olimpiadi di Mosca. La classe del campione lo spinse a insistere e a continuare laddove qualunque altro avrebbe smesso. Dall’ottava corsia, cui era stato costretto in partenza, cominciò una rimonta che entrò nella leggenda dello sport, e non solo azzurra. Mennea accelerava per risalire e rubare metri allo scozzese Wells, in netto vantaggio, mentre i 90mila dello stadio assistevano in silenzio. Quell’impianto austero, eretto dai sovietici nel ‘56 per celebrare la gloria del socialismo, era un simbolo da opporre all’Occidente. L’Olimpiade ’80, ricordata per il boicottaggio americano, stava in realtà segnando la fase terminale della Guerra Fredda, ultima prova di un regime agonizzante. Pietro Paolo Mennea, così chiamato dalla madre per celebrare l’omonima festa dei due Santi, corse i primi 100 metri nel vecchio decennio, quello della Cortina di ferro, e i secondi 100 negli Anni 80, simboleggiati dalla successiva e coloratissima Olimpiade di Los Angeles. Tutto andava cambiando. Pietro non mollò, anzi aumentò frequenza e passo, con il dondolare del tronco come sorta di firma. Il suo non era il fisico dell’atleta baciato dalla grazia, bensì quello del lottatore risalito dalla povertà del Sud fino all’apice dello sport mondiale. C’erano tante verità in quegli ultimi metri: il sudore, l’impegno, la disciplina, il sacrificio, una certa asprezza di carattere. Mennea non vinse per un dono divino, ma grazie alla tenacia umana, tutta e solo sua.
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Alla curva di Mosca, quando mancano 10 secondi alla vittoria più importante della sua vita, Pietro Mennea vi arriva all’età di 28 anni, compiuti esattamente da un mese. È infatti nato il 28 giugno 1952 a Barletta, nella Puglia più povera. È uno dei cinque figli di Salvatore, sarto, e di Vincenzina, casalinga, da cui ha preso il carattere determinato. Mentre è a scuola in un istituto tecnico, Pietro viene notato da Alberto Autorino, insegnante che lo avvia all’atletica leggera. Parte con la marcia, ma passa subito alla velocità. In Paese lo sfidano con le automobili. Sui 50 metri, vince sempre lui.
La scalata è inarrestabile: nel 1970 è in finale ai campionati europei Juniores, l’anno dopo a quelli maggiori. Nel 1972 – a Monaco – vince la medaglia di bronzo alle Olimpiadi e sempre sui 200 si ripete con la vittoria agli Europei di Roma del 1974. Fallisce le Olimpiadi del 1976 a Montreal, dove arriva quarto. Ma iniziano lì i 4 anni più belli della carriera, a cominciare dal successo su 100 e 200 agli Europei di Praga nel ‘78. Una curiosità che pochi sanno: dopo la delusione in Canada, l’uomo che lo ha convinto a ripartire è più noto nel calcio che nell’atletica. Si chiama Giampiero Boniperti, suo presidente alla Sisport.
Quando Pietro sbuca alla fine della curva dei 200 metri di Mosca, penultimo, ma pronto al rettilineo che lo trasformerà in mito, molti fatti sono accaduti alle sue spalle. Il più importante è che questa Olimpiade sia andata in scena. Ai sovietici, che se la sono vista assegnare nel ‘74 in un patto mai chiarito tra Nixon e Breznev, è costata 6 miliardi di dollari, di cui gran parte per il nuovo aeroporto. La cifra reale, ben più alta, la conoscono soltanto i vertici del Cremlino. Per restaurare i monumenti sono occorsi 400 milioni di dollari, 100 per le facciate delle case, 50 per i negozi, riempiti di merce come mai in precedenza. Chilometri e chilometri di plastica sono stati distesi per coprire i punti più tristi e grigi della capitale, che sono numerosi. Pure un’altra parte di città è nascosta: le migliaia di giovani, oltre ad alcolizzati e prostitute, allontanati nell’estate ‘80 per evitare contatti con gli 8mila giornalisti giunti dall’estero e confinati nel centro stampa, l’unico spazio in città con teleselezione. Il dissidente Sakharov, arrestato il 22 gennaio dello stesso anno, uno dei 10mila prigionieri politici conteggiati da Amnesty International, ha lanciato un suo appello: "Non venite a celebrare i Giochi di Olimpia nel Gulag".
La grande festa di Mosca ha preso forma il pomeriggio del 19 luglio. Per 4 ore - una durata lunga e insolita per una cerimonia olimpica - 103mila persone hanno preso parte alla messinscena disegnata dal Politburo. I seimila soldati sugli spalti hanno girato i cartelli per la scenografia. È il trionfo di un potere stanco, logoro, che tenta di salvare se stesso dall’estinzione. Il volto di Breznev, presidente del Soviet supremo e segretario generale del Partito comunista dal ‘64, è espressione di una vecchia nomenklatura fiera di avere superato la sofferta vigilia. Il boicottaggio degli Stati Uniti e degli altri Paesi è rimasto nascosto dietro ai carri allegorici e alle migliaia di comparse del ballo “Amicizia dei popoli”, nome curioso per una parata immersa nella Guerra Fredda. Il solo indizio del mondo diviso a metà è l’assenza di tante bandiere nella sfilata, compreso il tricolore. L’Italia si è ridotta al cartello con la scritta “Coni”, che in russo significa cavallo. Sulle tribune hanno riso tutti.
L’impegno estremo, che sbalordisce gli allenatori di tutto il mondo, l’ha spinto il 12 settembre 1979 a conquistare il record del mondo sui 200 metri, dopo avere migliorato pochi giorni prima l’europeo dei 100 metri, in Italia battuto da Tortu soltanto nel 2018. A Città del Messico, dove si svolgono le Universiadi, Pietro percorre la distanza preferita, i 200 metri, in 19 secondi e 72 centesimi, tempo folle e impensabile per un europeo, battendo il record del suo idolo Tommy Smith alle Olimpiadi messicane di 11 anni prima. Di giornalisti al seguito ci sono Gianni Minà e pochi altri, come poche sono le immagini di quella giornata. Mennea è l’uomo più veloce al mondo. Lo rimarrà fino al ‘96, quando Michael Johnson – dopo 16 anni e 324 giorni – gli toglierà il primato.
Per Mennea, l’Olimpiade 80 è la più importante della vita. Dopo il terzo posto sorprendente del ‘72 a Monaco, nell’Olimpiade funestata dal terrorismo, e dopo la delusione del ‘76, entrata nella storia per il boicottaggio africano, l’Olimpiade di Mosca è quella che Pietro non deve e non può sbagliare. Come al solito, si è preparato in maniera minuziosa, maniacale. Allenamenti e ripetute, allunghi e palestra. L’atleta Mennea è una miscela di rivalsa e di riscatto più che di semplici muscoli e fibre. L’infinita forza di volontà è testimoniata dalle agende, su cui appunta diligentemente, giorno dopo giorno, tabelle di lavoro e sensazioni, orari e percorsi. Persino le feste natalizie, come mostra questo eccezionale repertorio, sono sacrificate alla preparazione.
L’impegno estremo, che sbalordisce gli allenatori di tutto il mondo, l’ha spinto il 12 settembre 1979 a conquistare il record del mondo sui 200 metri, dopo avere migliorato pochi giorni prima l’europeo dei 100 metri, in Italia battuto da Tortu soltanto nel 2018. A Città del Messico, dove si svolgono le Universiadi, Pietro percorre la distanza preferita, i 200 metri, in 19 secondi e 72 centesimi, tempo folle e impensabile per un europeo, battendo il record del suo idolo Tommy Smith alle Olimpiadi messicane di 11 anni prima. Di giornalisti al seguito ci sono Gianni Minà e pochi altri, come poche sono le immagini di quella giornata. Mennea è l’uomo più veloce al mondo. Lo rimarrà fino al ‘96, quando Michael Johnson – dopo 16 anni e 324 giorni – gli toglierà il primato.
Per celebrare quel record sensazionale, Pietro Mennea viene ricevuto al Quirinale da Sandro Pertini. Il legame tra la Freccia del Sud, com’è ormai chiamato l’azzurro, e il presidente della Repubblica è poco noto, ma è dimostrato dalle istantanee scattate nel corso della visita al Colle. Pertini è tifoso di Mennea perché ha visto nel timido ragazzo di Barletta l’amore che suscita tra la gente.
Grazie alla cortesia degli archivi del Quirinale, ecco il cartellino dello schedario di Pietro, con le onorificenze a Commendatore e Cavaliere conferite dalla massima carica dello Stato. Per confermare il legame, a pochi giorni dalla fine del settennato, Pertini riceverà in udienza Mennea, con colazione privata, il 20 giugno 1985. Pure questo è documentato. Dopo l’Italia campione del mondo dell’82, il ragazzo pugliese è stato l’azzurro più splendente della sua epoca.
Il primato di Città del Messico ha detto che non si era mai visto, né mai più si vedrà, un bianco così veloce sulla terra. "Sono nero dentro", scherza lui. Quanta sofferenza e quanti chilometri ha dovuto percorrere per passare dall’Avis Barletta, squadra di cui vediamo la prima divisa indossata, al ruolo di favorito per la vittoria di Mosca.
La data è quella del 28 luglio 1980, giorno fissato nel calendario delle Olimpiadi per la finale dei 200 metri. In realtà quella corsa ha rischiato seriamente di non svolgersi, soppressa anch’essa dal boicottaggio. Tra il record mondiale di Mennea, che lui ha segnato sull’agenda con un banalissimo 19’72’’, senza aggiungere parole, e la finale che lo attende, il fatto saliente non ha riguardato gare ed allenamenti, ma la politica internazionale. Il 24 dicembre ‘79, vigilia di Natale e a 7 mesi dall’inizio dei Giochi, i carri armati sovietici hanno invaso l’Afghanistan. È questione intricata, difficile pure da capire.
Due anni prima, nel ‘78, un colpo di stato ha deposto il governo Daud ed è salito al potere il Partito democratico del popolo, legato a Mosca. Ma la faida è continuata, con altri colpi di Stato e omicidi al vertice, fino alla decisione di Breznev di dispiegare 100mila uomini al di là dei confini sovietici. La preoccupazione riguarda il fondamentalismo islamico, che minaccia, oltre Kabul, le repubbliche sovietiche del Sud. Fino al ritiro imposto da Gorbaciov nell’89, il conflitto in Afghanistan diventerà un pesante, infinito stallo per l’esercito russo. Nel clima di Guerra Fredda, l’occupazione dell’Afghanistan vale l’immediata condanna americana. Sin dai primi di gennaio, il presidente Jimmy Carter annuncia tre sanzioni: stop all’esportazione di grano in Russia, no alla vendita di prodotti tecnologici oltre il Muro e boicottaggio delle Olimpiadi. Quest’ultima è certamente la leva più potente. La politica di Carter ha un doppio binario: da un lato deve muoversi nello scacchiere internazionale, dall’altro deve pensare all’elettorato interno, che nel 1981 gli preferirà Ronald Reagan. Il 4 gennaio, parlando in tv, Carter usa per la prima volta la parola boicottaggio. Non tutti sono d’accordo, come ricorda la Gazzetta dello Sport: "Lo sport americano critica le minacce del presidente Carter ai giochi di Mosca" (6 gennaio). Ma dopo l’ultimatum scaduto a febbraio, il 21 marzo gli atleti sono convocati alla Casa Bianca. La decisione è presa: il Comitato olimpico nazionale può unicamente ratificare il 12 aprile. In Colorado, 1.604 delegati votano per restare a casa. L’indomani i giornali titolano: "Gli Usa non vanno a Mosca". Da qui inizia l’opera per convincere altre nazioni a boicottare. Carter invia in Africa Mohammed Alì, ma l’effetto è scarso. Più solidali con Washington sono gli Stati asiatici. Il caso più singolare è la Liberia: partecipa alla cerimonia di apertura a Mosca e il giorno dopo rimpatria.
All’Onu la risoluzione contro l’Unione Sovietica per l’aggressione dell’Afghanistan non è potuta passare per il veto della prima, membro permanente del Consiglio. Sullo sport si contano però le vere lacerazioni. Come ricordano anche le copertine dei giornali internazionali. La prima a rinunciare è stata l’Arabia Saudita il 6 gennaio 1980. I Paesi arabi, solidali con l’Afghanistan musulmano, si schierano contro la partecipazione. Con loro, curiosamente, c’è Israele, storico partner degli Stati Uniti. Alla fine andranno 80 Paesi, mentre 66 resteranno a casa. In totale, 5179 atleti. Inghilterra, Francia e Italia, oltre a un’altra decina di Stati, scelgono una soluzione a metà: andare, ma senza inno e bandiera. Fra Urss e Usa è una guerra a colpi bassi. I russi si assicurano le Filippine acquistando le noci di cocco invendute e la Giordania con una tournèe del balletto del Bolshoi. Gli americani obbligano la NBC a rinunciare agli 80 milioni di dollari spesi nei diritti, di cui 50 verranno ripagati dai Lloyds, e costringono la Coca-Cola a ritirare dal mercato le lattine dedicate all’evento.
In questo contesto di forte tensione, la “più grave crisi dello sport moderno” come la definisce il 29 gennaio la stampa italiana, Mennea pensa sempre e soltanto ad allenarsi. È la sua risorsa in più ed è quasi una necessità fisiologica per affrontare le gare, la vita, gli altri. Da anni la sua casa non è più Barletta, ma Formia. Vi si è trasferito nel 1971 e non l’ha più lasciata. Dal 1955 sorge qui il centro nazionale di Atletica leggera, che diverrà centro nazionale di preparazione olimpica, intitolato oggi all’ex dirigente Bruno Zauli. È il luogo di eccellenza dello sport azzurro. In quegli stessi anni vi si incontrano Sara Simeoni e gli schermitori azzurri, i tennisti Panatta e Bertolucci o il pugile Oliva, destinato come Mennea a conquistare l’oro a Mosca.
A Formia, Pietro si allena almeno due volte al giorno. Passa intere settimane in pista, distante meno di 500 metri dall’albergo Miramare in cui occupa la stanza che affaccia sul Tirreno: la numero 311. Questo hotel spartano, dall’intonaco bianco, è stato per vent’anni la dimora principale del velocista. Nei giorni limpidi, si scorgono all’orizzonte Capri e Ischia, unica distrazione assieme a qualche raro cinema serale. Per il resto, Pietro conduce vita ascetica: riposo obbligato, zero alcol, acqua naturale e mai frizzante. Vent’anni vissuti così. Ha scritto Giulio Signori: "Esistono molti modi per vincere, quello di Mennea è senz’altro il più masochista di tutti". Ha mutato i 200 metri in 100 con partenza lanciata. Quando i rivali calano, lui aumenta; quando le energie spariscono negli altri, lui le ritrova. Ha una dote speciale: è resistente alla velocità. La esporrà nella finale più prestigiosa, quella che lo sta aspettando allo stadio Lenin di Mosca.
La devozione alla fatica - un qualcosa di spirituale in lui - ha trovato nell’allenatore Carlo Vittori la sublimazione perfetta. Ascolano, classe 1931, sprinter in gioventù, è altrettanto intransigente nel lavoro. Ha creato la scuola italiana di velocità. Negli Anni '80 si occuperà, come preparatore, della riabilitazione di Roberto Baggio. Vittori e Mennea hanno caratteri spigolosi, litigano e fanno pace. Se il primo ritarda l’inizio di una seduta, il secondo sbuffa. Se Mennea entra in crisi, in un contrasto perenne tra volontà e malinconia, ci pensa Vittori. Coppia strana, eppure perfetta.
A pochi mesi dalle Olimpiadi, proprio a Formia un tifoso ha scritto su uno striscione: "Mennea a Mosca, Craxi e Cossiga in Serie B". I due politici italiani sono individuati come i sostenitori del no alla partecipazione italiana ai Giochi. Il primo, Francesco Cossiga, è presidente del Consiglio e si schiera con gli Stati Uniti il 17 aprile, a poco più di un mese dalla scadenza delle iscrizioni fissate dal Comitato organizzatore per il 24 maggio. "Cossiga mette in dubbio il sì dell’Italia a Mosca" (18 aprile). Il secondo, il segretario del Partito socialista Bettino Craxi, è contrario ai Giochi non per ragioni ideologiche, quanto per l’alleanza con Helmut Schmidt, cancelliere tedesco ed esponente del socialismo europeo. La Germania ovest è impossibilitata ad andare a Mosca, spezzata al suo interno dal Muro di Berlino. Schmidt chiede solidarietà e l’amico Craxi lo asseconda.
Durante le Olimpiadi invernali di Lake Placid, nel febbraio '80, alle quali hanno partecipato gli atleti sovietici per rimarcare la differenza con Washington, il sottosegretario americano Cyrus Vance ha rincarato la dose, sollecitando il Cio nel cambiare sede. Margaret Thatcher in Inghilterra ha risposto immediatamente all’appello di Vance, con un discorso alla Camera dei Comuni per il boicottaggio. Alla lady di ferro, custode dell’amicizia con gli Stati Uniti, si oppone lo sport britannico.
Ognuno gioca con le armi che ha a disposizione, anche nel nostro Paese. La sfida tra Palazzo Chigi e il Coni, tra una visione più politica e una più sportiva della vicenda, è la stessa che avviene nel resto d’Italia. Sul Guerin Sportivo, che in prima pagina si schiera per il viaggio a Mosca, il lettore Mantovani di Ferrara è contrario: "Dobbiamo essere noi sportivi a dire no alle Olimpiadi, no alla violenza distruttrice dei russi". La spaccatura investe il Parlamento. Nell’aula di Montecitorio, nel luogo in cui l’arte della democrazia dovrebbe compiersi, si accendono i dibattiti e le discussioni tra i vari partiti. Favorevoli all’invio sono quelli di sinistra, in particolare il PCI, come evidenziato pure dal cartello appeso in una strada di Torino. Sulla sponda opposta, il boicottaggio è invece sostenuto dal Movimento sociale e dal Partito repubblicano, fortemente filo-americano. Il 4 marzo, registrato in questo stenografico della Camera dei Deputati, interviene nell’emiciclo Marco Pannella: "Vi è anche la storia della partecipazione ai giochi olimpici senza la bandiera nazionale. Signor ministro, forse se mandaste gli atleti senza mutandine, questo farebbe più chiasso". Si può ancora sorridere di fronte al dramma sportivo.
Mosca aspetta l’evento. L’attesa maggiore è al Villaggio Olimpico, capace di ospitare sino a 12mila persone, compreso Mennea e gli altri 158 azzurri in arrivo a luglio. Progettato da Jevhenij Stamo, la struttura – ancora adesso esistente – ha richiesto 300 milioni di rubli. Si tratta di 18 edifici, ciascuno alto 16 piani, i classici falansteri dell’edilizia sovietica che occupano la sterminata periferia della Capitale, popolata da oltre 8 milioni di persone. Sotto si trovano palestre, piste, negozi e i quattro ristoranti utilizzati dagli atleti. È l’unico spazio di condivisione per chi arriva da ogni angolo del mondo e almeno questo ricorda l’universalità dei Giochi. Le riprese spiegano esattamente come la fratellanza dello sport sia superiore a quella della politica.
Molto del destino è pesato sulle spalle del presidente del CIO, l’aristocratico irlandese Michal Morris Killanin, che il 16 luglio - tre giorni prima dall’accensione del braciere allo stadio - cede il posto allo spagnolo ed ex franchista Juan Samaranch, la figura che porterà i Cinque cerchi olimpici nel nuovo millennio a suon di contratti milionari con sponsor e tv del pianeta. Ex cronista di guerra ed ex militare, Lord Killanin ha incontrato Carter e Breznev in maggio, cercando una pacificazione nel clima plumbeo della Guerra Fredda. Ha poi riferito agli altri membri, tutti uomini, nel consiglio olimpico di Losanna. Breznev lo ha liquidato in fretta, obbligato quello stesso giorno a viaggiare a Belgrado per i funerali del leader slavo Tito. Tutto va dissolvendosi in fretta nel blocco sovietico. Tutto evapora mentre il mondo si appresta a vedere, nei Paesi in cui sono trasmessi, i XXII Giochi olimpici dell’era moderna.
L’ultimo angolo di supremazia dell’ingolfata macchina sovietica è lo sport, una supremazia già dimostrata a Montreal. I padroni di casa conquistano 80 medaglie d’oro, 69 argenti e 46 bronzi: 195 medaglie in totale. Al secondo posto, nel bilancio finale, c’è un altro pezzo del patto di Varsavia: la Germania Est. 126 medaglie, con 47 ori. È una fabbrica di campioni gonfiata da anabolizzanti, pillole e violenze sommerse o nascoste sugli atleti. Quando il Muro di Berlino cadrà, emergerà tutto.
Per l’Italia, Mosca non significherà solo Pietro Mennea, ma anche Sara Simeoni, che si aggiudica la medaglia d’oro nel salto in alto, dopo avere già conquistato il primato mondiale. Allo stadio Lenin, dove si sta per imporre Mennea, esce primo nella marcia 20 chilometri Maurizio Damilano. Gli ori totali sono 8, quattro volte Montreal ’76 e soprattutto primo paese occidentale nel medagliere. L’oro più rappresentativo è quello di Ezio Gamba nel judo. Si congeda dai carabinieri pochissimi giorni prima di Mosca, per non perdere la grande opportunità della sua vita. Nei pesi leggeri, 71 kg, si impone proprio lui.
Mennea continua intanto con le ferree tabelle di allenamento. In gara, si impone a Formia il 17 e 18 maggio, su 100 e 200, la settimana dopo a Madrid in Coppa Europa per club e dal 24 e 26 giugno a Torino, nei campionati nazionali assoluti. Il problema maggiore è però un dolore alla schiena che lo perseguita sino al 25 maggio. In quei giorni ha sostenuto una visita specialistica all’Acqua Acetosa. Ricorderà lui stesso: "Il periodo che ha preceduto Mosca non è stato uno dei più esaltanti dal punto di vista agonistico". Tanto da metterne in discussione persino la presenza all’Olimpiade che dovrà invece incoronarlo. La riserva viene sciolta all’ultimo, il 10 luglio, con una dichiarazione che riletta oggi strappa un sorriso: "Vado a fare queste maledette Olimpiadi" (11 luglio).
La cosa più incredibile non è però l’atleta Mennea, bensì l’uomo. Nei giorni in cui deve preparare la gara più importante della vita, Pietro ha tempo di laurearsi a Bari, facoltà di Scienze Politiche. Sarà la prima delle quattro lauree conseguite dallo studente Mennea, a cui – come mostra un altro foglio scolastico – era stato suggerito, ai tempi delle Medie a Barletta, di non continuare negli studi. Ha invece dato retta al consiglio ricevuto da Aldo Moro, suo sfortunato conterraneo, e lo ha trasformato in un 110 e lode.
Del resto, questo è il dottor Mennea. Esiste l’ostinazione, poi c’è un piano superiore al quale arriva soltanto Pietro. È anche un impasto di contraddizioni, dentro a cui pochi amici sanno destreggiarsi. Passa per uno scontroso, invece è un timido. Dicono che sia antipatico, ma bastano pochi attimi per scoprire un uomo ironico e divertente. "Lo sa che non la immaginavo così simpatico?" sente spesso ripetersi. In pista non avrebbe niente per correre più veloce degli altri: né muscoli, né altezza, nulla. Ma ha il cuore e la determinazione che nessuno possiede. Mennea non vince, ferma la sofferenza.
Eppure l’ostacolo tra Pietro e l’oro è sempre rimasto lì, invisibile guardandolo dai tetti di Roma. È sotto, nel segreto dei Palazzi del potere, che si è svolta la corsa più importante. Data decisiva, il 19 maggio, 5 giorni prima della presentazione delle liste ufficiali, scadenza poi prolungata sotto la pressione del presidente Killanin sul Comitato organizzatore russo. Quel giorno è fissata la riunione della Presidenza del Consiglio dei ministri sulle Olimpiadi. Leggiamo l’esito dal comunicato: "Il Governo italiano, non ritenendo che i Giochi Olimpici possano essere visti isolati dal contesto degli avvenimenti mondiali, non sarà presente con rappresentanti alle relative cerimonie e giudica non compatibile l’uso in quella sede della bandiera nazionale e dell’inno nazionale".
Detto in sintesi, no tricolore, no Mameli. È la linea di “denazionalizzazione” delle Olimpiadi, cioè senza simboli, che rappresenta la sola speranza di partecipazione ai Giochi per i Paesi della Nato. L’hanno elaborata, negli incontri dei mesi precedenti a Bruxelles, Parigi e Roma, i presidenti dei singoli Comitati olimpici nazionali, cercando una via alternativa alla linea dei loro governi. Quello italiano ha lasciato aperto un piccolo spiraglio in quella stessa riunione del 19 maggio, laddove ha specificato che toccherà al Coni l’ultima parola, come previsto dall’articolo 25 della Carta olimpica. Ma Cossiga e i ministri definiscono “auspicabile” la nostra assenza ai Giochi.
Si avverte insomma tutta la pressione. Negli uffici e corridoi del Coni, cuore dello Sport italiano, il match più difficile attende ora Franco Carraro, ex presidente del Milan campione intercontinentale e della Federcalcio, dal ‘78 a capo del Comitato olimpico. La decisione appena presa dal governo gli viene consegnata a mano il 19 maggio, mentre sta per cominciare la Giunta Coni. Con lui ci sono il vicepresidente Primo Nebiolo e il segretario Mario Pescante, altrettanto fermi nella loro volontà. La riunione, come indica il verbale, riprende alle 14.40. Carraro apre la discussione, in un tripudio di sostenitori: Onesti, Nebiolo, Gattai e tutti gli altri sono con lui. "Al termine del lungo ed esauriente dibattito – scrivono - il Presidente conferma che in sede di Consiglio Nazionale sarà sottolineato l’unanime orientamento della Giunta favorevole alla partecipazione alla XXII Olimpiade di Mosca". La riunione si chiude alle 15.10. È stata rapida. Il Rubicone è varcato.
L’indomani, a 24 ore dalla riunione a Palazzo Chigi e dalla replica della Giunta Coni, si vota nella sala d’onore del Coni. Direttamente dal verbale di scrutinio, osserviamo le crocette poste accanto alle federazioni: 29 favorevoli alla trasferta a Mosca, 2 astenute e 3 contrarie. Il no è di vela, sport equestri e pentathlon, legate al mondo militare. La notizia è sui quotidiani: "Il consiglio Nazionale del Coni ha deciso. Lo sport italiano va alle Olimpiadi" (21 maggio). Un documento esclusivo, conservato dall’ottimo archivio storico del Coni, svela la partita più ampia che si è giocata. Nello stenografico di Giunta del 2 luglio, Carraro racconta dell’incontro avuto con Cossiga: “Il giorno 19 maggio il governo ha redatto un documento che tutti conosciamo. Quando il presidente Cossiga mi ha consegnato questo documento, non mi ha aggiunto parola, se non dicendomi: "A noi farebbe effettivamente piacere che il CONI non andasse". Con coraggio, il Coni ha disobbedito, contando sull’autonomia assicurata dal Totocalcio. Il 4 luglio ha inviato al Cio il Telex per l’iscrizione. Senza questa carta, redatta in francese, Mennea non avrebbe mai vinto l’oro.
Nell’incontro con Carraro, Cossiga non ha menzionato gli atleti dei gruppi sportivi militari. Nel loro caso il divieto resta. Per andare all’estero, hanno bisogno del passaporto. In mezzo ci sono possibili medaglie, ad esempio Marcello Guarducci nel nuoto o Massimo Di Giorgio nel salto in alto. La storia degli atleti militari è pagina triste e poco narrata del nostro sport. Boicottati e mai risarciti. A quelli dell’atletica leggera, Pietro Mennea dedica il libro di ricordi, con l’elenco dei nomi. A bloccarli è il ministro della Difesa Lelio Lagorio, socialista. È categorico.
"Caro Presidente Carraro, faccio seguito ai nostri colloqui per fornirle una risposta conclusiva sulla questione della partecipazione ai prossimi Giochi olimpici". Segue un no garbato, ma fermo. La firma in calce del ministro spegne le speranze. L’Italia va a Mosca senza una parte cospicua di atleti, senza bandiera, senza inno. Nella cerimonia inaugurale, che colpisce più per l’oscurità di fondo che non per specifiche ragioni, nessun azzurro sfila dietro al cartello Coni, malgrado Dino Meneghin abbia provato fino all’ultimo. Pure l’Afghanistan ha marciato coi suoi pochi atleti, applauditi con affetto dal pubblico moscovita. È uno stadio austero, diverso da quello che diventerà dopo la ristrutturazione degli Anni Duemila, oggi senza più pista di atletica leggera e con spalti colorati. Nell’impianto che ospiterà la finale dei Mondiali di calcio 2018, il 28 luglio ’80 Mennea sta per scrivere la storia.
Alle 20.15 di Mosca, Pietro è dunque sui blocchi di partenza. Due giorni prima è rimasto fuori dalla finale dei 100 metri, sesto in semifinale con un pessimo 10.58. In viso è teso, tesissimo. Il sorteggio delle corsie ha lasciato dubbi. Il presidente della Fidal Nebiolo parla d’imbroglio dei giudici inglesi, sebbene non possiamo essere noi a dare lezioni. Sui 200 metri, le peggiori corsie sono la prima – in cui corre il cubano Silvio Leonard, che chiuderà quarto - e l’ottava, occupata proprio da Mennea. L’italiano da lì non vede nessuno, può solo captare alle spalle lo scozzese Allan Wells, in settima. Con il foglio di gara, integrato dai tempi finali, possiamo vedere l’ordine di partenza.
L’avvio di Mennea è tutto sbagliato. Si solleva troppo presto, riducendo la spinta iniziale. A Formia ha provato ogni giorno quei movimenti. Qualcuno darà la colpa al bisogno di scattare, all’urgenza di correre e di ridurre i tempi della messa in moto. Forse è solo nervosismo. Quello che è certo è che Pietro si vede sfilare davanti in quarta il giamaicano Don Quarrie, primo nei 200 a Montreal, e soprattutto Wells, che lo infila sulla sinistra. Lo scozzese è un velocista potente e alle spalle ha il vento leggero della gloriosa vittoria nei 100 metri. Corre libero.
Pietro al contrario è contratto, preoccupato. Quando la curva sta per terminare, e dunque arriverà la resa dei conti sulla precisa posizione, cerca di trovare il ritmo. In pochi ci credono. L’allenatore Vittori è sconsolato. "Ho pensato che si stesse mettendo male". Pure i giornalisti in tribuna nutrono poca fiducia. "Quel veleno – dirà Mennea – è stato il mio carburante per vincere". Pietro è fatto così. Vince contro tutti, meglio ancora quando viene dato per battuto. All’uscita della curva, inizia un’accelerazione che lo sport mondiale non ha mai visto. Vi ricordate i 100 metri utili a lanciare i secondi 100? Accade l’incredibile allo stadio Lenin, cuore del parco Luzniki. La voce di Paolo Rosi, un altro gigante mai abbastanza omaggiato, si accende capendo che Pietro può farcela.
Recupera, recupera, scandisce al microfono. Inizia piano, ma è un crescendo incessante. Per cinque volte ripete la parola “recupera”, fino a quel finale e incredulo: "Ha vinto". Sì, Mennea ha davvero vinto. In quei 10 secondi è riuscito a fare quanto altri nemmeno potevano immaginare. Si è fidato di se stesso, della debolezza che si trasforma in forza, ripensando ai Natali trascorsi a Formia ad allenarsi, all’acqua senza bollicine, ai ritiri infiniti e alle migliaia di chilometri percorsi per correre 100 metri. Questi 100 metri. A poco dall traguardo, Mennea sopravanza Wells, conquistando le Olimpiade che la guerra e la politica volevano negargli.
Nei 100 metri finali di Mosca c’era l’essenza di Pietro. La miseria del Dopoguerra, dei baby senza boom, la polvere e la fame del Sud, le prese in giro per essere piccolo e storto, ma pure sublime e splendido quando si distendeva in velocità battendo le automobili a Barletta. A Mosca non erano stati solo 20 secondi e 19 centesimi, tempo scritto sul cronometro che valeva una medaglia d’oro, erano stati vent’anni di rinunce costanti e di un coraggio speciale.
Quella vittoria di Mosca diede a tanti la speranza e la consapevolezza che la vita non è questione di talento e basta, ma è prima di tutto impegno e sacrificio. Che qualunque sforzo può essere ripagato in fondo a un cammino. Anche se cresci ultimo in una casa piccola, con la fatica di finire il mese, anche se tutti appaiono più forti, belli e ricchi di te. Pietro vinse a Mosca solo perché aveva tenuto acceso il cuore. Un’unica frase gli passò nella testa all’uscita dalla curva: se non vinco stavolta, non vincerò più un’Olimpiade. Si caricò l’ultimo sforzo, guardò a ciò che gli altri finalisti in pista non vedevano, ossia l’oltre, e andò a prendersi un pezzo di eternità.
A casa, davanti alla televisioni, milioni di italiani esultarono e piansero. Ha scritto Candido Cannavò: "Gli ultimi 50 metri di Mennea resteranno nella memoria di quanti hanno avuto la fortuna di vederli e soffrirli come uno dei capolavori dell’atletica". C’erano i tifosi, la numerosa famiglia di Mennea a Barletta, Pertini che ricordava di esserselo fatto promettere, c’era una generazione di bambini che si sarebbe portata dietro per il resto della vita la più grande emozione mai avuta in dono dallo sport. A nome di quei bambini di allora, caro Pietro, un grazie enorme, ovunque tu sia.