Quanta consapevolezza nelle parole degli atleti ai Mondiali di Tokyo

Ma quanto sono belle le interviste dei ragazzi dell’atletica? Ormai assuefatti alla retorica del “sono tutte finali”, “siamo un grande gruppo” e “bisognerà dare il 101%” , le parole di un atleta che ci descrive la sua fatica, la sua emozione, la sua delusione, la sua strategia di gara sono come una sorsata d’acqua fresca nel deserto. Ci sono bastate le prime giornate dei Mondiali di atletica di Tokyo per rinfrescarci e restituirci l’impressione di parole finalmente vere. Liberi dal pensiero di dover prestare attenzione a qualsiasi cosa che diranno e dalla presenza alle spalle di chi controlla che il copione venga letto a dovere, gli atleti si fanno intervistare e rispondono con una naturalezza e una sincerità a cui il mondo della comunicazione sportiva non è abituato. E la cosa ci stranisce. Probabilmente meno avvezzi a trovarsi microfoni sotto al naso rispetto ad altri colleghi sportivi, la prima notizia è che loro rispondono veramente alle domande. Nessun giro di parole per arrivare a dire altro , nessun tentativo di svicolare. Prendete Gimbo Tamberi. Pochi attimi dopo l'enorme delusione di un Mondiale in cui non ha nemmeno raggiunto la finale, è chiamato a commentare, se vogliamo a giustificarsi. Ma non lo fa. Commenta, ma non si giustifica. "Ho fatto un risultato pietoso, quindi è stato giusto così". Dichiarazioni seguite quasi immediatamente da quelle di Marcell Jacobs, in una sorta di riproposizione in toni mesti di quel magico quarto d'ora di Tokyo, quattro anni prima, quando i due 'fratelli d'Italia' cambiavano la storia sportiva del Paese. "Devo prendermi un po' di tempo per capire se vale la pena continuare a soffrire così", le sue parole che suonano come un addio. "Speravo in un tocco di magia tornando nello stadio che mi ha regalato il giorno più bello della mia vita ma non mi sento più il Marcell di una volta: la testa dice che non riesce a continuare a reggere tutte queste delusioni". Ad accomunare Gimbo e Marcell la crudezza con cui espongono i fatti, sotto gli occhi di tutti, senza provare ad addolcirli. E quando invece mancano le parole, perché può anche essere che la delusione te le tolga, non vengono sostituite da giri di parole. Nel caso di Larissa Iapichino sono passati pochi minuti da quando è rimasta clamorosamente fuori dalla finale del salto in lungo, in cui tutti la immaginavamo competere per l’oro, e già le chiedono come si senta. La verità è che deve ancora elaborarlo, non lo sa nemmeno lei come si sente, e nonostante ciò è lucidissima nel trasmettercelo: "Se sono più delusa o arrabbiata? Sono sotto shock. Mi sembra di vivere un incubo". Ma soprattutto, anche nel suo caso, zero alibi. Avrebbe potuto spiegarci che "oggi la caviglia", che "l’asse di battuta", che "la rincorsa". E probabilmente ci avrebbe anche intortato: se l’avesse fatto, le avremmo creduto. L’atletica però è anche questo: è atleta contro il cronometro o il metro, nudo. Non fornisce vie di fuga di fronte ai risultati che non vengono raggiunti. La famosa cultura degli alibi, che Julio Velasco ci sta insegnando a cancellare a suon di frasi che diventano immediatamente citazioni, nell’atletica non è mai esistita. In questo senso, sono parole da incorniciare quelle di Ludovica Cavalli, 24 anni. Nel corso della sua batteria dei 1500m femminili, a un giro dal termine, mentre corre nel gruppone con buone chance di chiudere tra le prime sei che avrebbero guadagnato la qualificazione, viene accidentalmente toccata da dietro da un’avversaria. Non cade ma perde il passo, il ritmo, il gruppo, tutto. Quando si rimette in marcia è ormai tardi per sperare in una rimonta, le altre sono già scappate. L’intervista post-gara non aspetta che si asciughino le lacrime, e lei si presenta senza nasconderle. Poi però – ancora: abituati come siamo a certi copioni – ti stupisce quando spiega cosa sia successo. "Stavo molto bene, stavo uscendo perché vedevo che partiva la gara e mi ha preso. Fa parte del gioco, non è colpa di nessuno. È andata così, ma che devo fare? Queste cose capitano a tutti, non posso fare una tragedia. Sono felice perché mi sono risentita bene dopo tantissimo". Fa parte del gioco. Capita a tutti. La verità è che dovremmo stupirci del fatto di essere stupiti. Ma a sorprendere ancora di più è quell’autoconsapevolezza superiore che gli atleti dimostrano di possedere ogni volta che parlano. Frutto probabilmente delle discipline che praticano, abituati come sono ad ascoltare quotidianamente ogni singolo muscolo del proprio corpo, nessuno sa raccontare come loro le sensazioni di una gara, nessuno più di loro sa elaborare cosa passa nella testa di uno sportivo mentre si compete e poi alla fine, che si sia vinto o perso. Trovare le parole giuste per descrivere un momento – la descrizione di un attimo – non è cosa da poco: semplicemente, è quello che spesso invidiamo ai grandi romanzieri o cantautori. Nadia Battocletti, argento nei 10mila: "Ho capito l’atleta che sono. Quando mi sono vista nel gruppo di testa sul maxischermo insieme alle più grandi, mi dicevo: 'Questo è il sogno che hai sempre fatto, non mollare perché le avversarie faticano allo stesso modo'". E poi: "Quando sono arrivati gli ultimi due chilometri mi sono detta: 'Se adesso si girano e mi guardano, io sorrido’. E così ho fatto". Sembra di correrla insieme a lei, ascoltandola. Antonella Palmisano, argento nella marcia 35km: "I pensieri mi dicevano: ‘Fermati, non è il tuo giorno’. Poi però mi ripetevo: ‘I crampi non sono una motivazione valida per fermarsi'". Campionesse che ci aprono le porte della loro mente svelandoci i loro self-talk, il dialogo interiore con cui gli atleti trovano la concentrazione e si caricano quando sono soli con sé stessi. Così come ha fatto Leonardo Fabbri, dopo il bronzo nel getto del peso. "Mi sono detto: 'In tutti gli allenamenti non hai mai sbagliato un lancio, lo sai fare, sei forte'. Finalmente sono riuscito a gestire bene il mio tallone d’Achille, quello che è sotto i capelli", dice togliendosi il cappellino e indicandosi la testa. L’avreste mai detto che il peso si lancia anche con il cervello?

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Vanni Spinella