Lo sport che visse l’esodo giuliano-dalmata

Forse i più giovani nemmeno lo sanno, che quei posti che oggi sono Koper, Rijeka e Dubrovnik, e sono Slovenia e Croazia dopo esser stati Jugoslavia, un tempo erano Capodistria, Fiume e Ragusa, ed erano Italia. E che la memoria rischi di perdersi è solo l’ultima parte del dramma. Il 10 febbraio è il giorno del ricordo. 78 anni fa, nel 1947, con la firma del trattato di Parigi, i territori italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, venivano ceduti alla Jugoslavia, costringendo all’esodo circa 350 mila profughi spinti dalla paura e dal desiderio di restare italiani. La paura aveva il volto dei partigiani del maresciallo Tito, futuro presidente della Jugoslavia. Il clima di terrore e di persecuzione aveva nelle foibe il macabro destino. Per anni è stata una storia taciuta, a volte negata, quasi sempre letta e interpretata con gli occhi delle ideologie contrapposte. Storia taciuta perché significava sconfitta. La cessione di quelle terre fu il prezzo che l’Italia pagò alla pace dopo la seconda guerra mondiale. Il silenzio sull’esodo degli italiani costretti a lasciare tutto per restare italiani, e soprattutto sulla tragedia delle foibe che lo accompagnò, fu il tacito compromesso per i delicati equilibri di convivenza democratica nella giovane repubblica post-partigiana. La storia profonda di quei posti racconta di etnie mescolate, non sempre spontaneamente, di convivenze gestite o sopportate per secoli, sotto la Serenissima di Venezia e sotto l’impero d’Austria. Poi il periodo italiano e le imposizioni fasciste, la guerra e il miraggio comunista. Una storia difficile, troppo spesso terreno per l’odio che mescolava l’etnia alla politica. In quel 1947, tra febbraio e marzo, il piroscafo Toscana fece la spola fra Pola, capoluogo dell’Istria, e Venezia, trasportando oltre quindicimila persone che lasciavano tutto verso un futuro fatto di campi profughi, di emigrazione e di esilio. Gli altri scapparono come poterono, portandosi dietro poco nulla. Famiglie di ogni estrazione, persone delle professioni più diverse: contadini, artigiani, insegnanti, notai, sacerdoti. Fra quelle storie, ce ne sono alcune di italiani che hanno fatto anche la storia del nostro sport. Perché quelle terre sono sempre state terre di sport. Da dove cominciare? Da Abdon Pamich. Scappato in treno dalla sua Fiume, quattordicenne, assieme al fratello, riuscì a ricongiungersi con la famiglia e visse per anni nel campo profughi di Novara. La passione per l’atletica lo portò fino all’oro olimpico di Tokyo 1964 nella 50 chilometri di marcia. Racconta ancora che il ricordo di quanto subito lo accompagna tutte le notti. Era nato a Fiume, quindici anni prima di Pamich, anche Ezio Loik, mezz’ala del Grande Torino cancellato dalla tragedia di Superga nel 1949. Fra i calciatori a Napoli ricordano Antonio Vojak, di Pola, con il suo record di 22 gol in una stagione che fino a Cavani nessuno era stato capace di battere. Come lui a vestire l’azzurro, quello della Nazionale, ci sono stati almeno una decina di calciatori, negli anni in cui anche la Fiumana giocava nel massimo campionato italiano: i fratelli Varglien , Marcello Mihalich , Rodolfo Voik . E poi Aredio Gimona, altro istriano che giocò nel Milan, nel Palermo e nella Juve. O quelli più giovani, nati in quelle terre negli anni ‘30 e ’40. Come Francesco Carpenetti, di Cherso, 6 stagioni e 128 presenze con la Roma negli anni ’60, gli stessi in cui Franco Sattolo era portiere della Samp e del Torino. O Lucio Mujesan, nato a Pirano, che giocò in A con il Bologna e fu capocannoniere di B con il Bari. Sergio Vatta, nato a Zara nel ’37, è stato un uomo di sport, una vita dedicata ai settori giovanili, del Torino soprattutto, e della Nazionale. Anche di ori olimpici, ce ne sono altri. Il pugile Nino Benvenuti è nato a Isola d’Istria, oggi Slovenia, nel 1938. Dopo la medaglia d’oro a Roma nel 1960 nei pesi welter tenne svegli gli italiani incollati alla radio per i suoi match mondiali contro Griffith e Monzon. C’è il mare poi, in ogni panorama di Istria e Dalmazia, quindi vela e canottaggio. Prima della guerra le medaglie olimpiche azzurre nel canottaggio venivano tutte da Zara e Capodistria. Tino Straulino e Nino Rode, di Lussin Piccolo, vinsero in coppia un oro e un argento fra Helsinki e Melboune nella classe Star della vela. Ma era istriano anche l’oro di Ulderico Sergo nel pugilato a Berlino nel ’36. Mario Andretti, nato a Montona d’Istria nel 1940, visse a lungo da bambino in un campo profughi a Lucca prima che la famiglia scegliesse di emigrare negli Stati Uniti dove la sua passione per i motori lo portò ai successi anche in Formula 1, fino a diventare uno degli italo-americani più conosciuti. Anche Ottavio Missoni, poi stilista di fama mondiale, era nato a Ragusa, oggi Dubrovnik, e nel 1948 all’Olimpiade di Londra vestiva la maglia azzurra per correre, finendo sesto, i 400 metri ostacoli. Tante storie personali, accomunate da una storia tragica e dolorosa che il tempo ha aiutato a superare trasformandola in vite diverse e distanti. Raccontare, in questo caso, serve a ricordare. Il giorno del ricordo è il tributo dovuto a quanti hanno sofferto, non solo le violenze, l’esodo, le privazioni, ma anche il tormento di un sacrificio non riconosciuto e spesso incompreso. Anche se molto è cambiato, ed è bellissima la storia di Gorizia e Nova Gorica quest’anno unite come capitale europea della cultura, ci vorrà ancora altro tempo perché gli orrori di quel periodo, che si portano dietro il ricordo di chi ha sofferto, possano smettere di dividere e diventare un ponte verso il futuro. Capire per non ripetere.

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Lo sport che visse l’esodo giuliano-dalmata

Marco Caineri