Da tifoso a capitano della squadra del cuore: il sogno di ogni bambino che gioca a basket

Ce lo ricordiamo tutti quel giorno: il primo giorno in cui siamo entrati in un palazzetto o in uno stadio a tifare la nostra squadra del cuore. Il luogo è sempre lo stesso, ma la magia dello sport è capace di trasformarlo, di cambiarlo, perché ognuno ha il proprio di ricordo. C'è chi è rimasto a bocca aperta per i colori dei tifosi, chi per l'immensità di un campo. Matteo Librizzi detto 'Libro' — capitano della Pallacanestro Varese, la squadra della sua città, la squadra del suo cuore — ricorda il rumore. Di quelli improvvisi, enormi, come se qualcuno avesse aperto una porta e fossi stato investito da qualcosa: "Eravamo tutti insieme, io e i miei compagni di squadra, quello che ti colpiva, lì al palazzetto di Masnago, era quanta gente ci fosse, quanto casino, quanto rumore. Era enorme". Oggi 'Libro' ha invertito la sua prospettiva: il luogo è sempre lo stesso, ma ora guarda le tribune dal campo, dove gioca e lotta da capitano, centimetro di parquet su centimetro di parquet. "L'emozione è la stessa, sin dal riscaldamento. E lo sguardo va sempre là, in tribuna, dove un tempo c'ero anche io. Ed è tutto enorme, anche da qui...". Perché diventare capitano della tua squadra del cuore a 22 anni è emozione pura. È il sogno di ogni bambino che gioca a basket. E lui lo ha raccontato in esclusiva a Sky Sport Insider. L'abbraccio con la nonna Matteo Librizzi, classe 2002. Ovviamente di Varese, una delle città dove il basket mescola sacro e profano, con una netta predilezione per il sacro. Lì è passata la storia del gioco, è passione che attraversa le generazioni, un libro di emozioni che si tramanda senza mai cambiare. 'Libro' lo sa, lui che ha vestito entrambi gli abiti: "Uno dei ricordi più belli era venire al palazzetto la domenica con la mia famiglia, che fosse con mamma, papà o i miei zii — dice Matteo, con lui abbiamo viaggiato nel tempo, dal passato al presente e viceversa —. È sempre stato un motivo per stare insieme, anche ora che vengono tutti a tutte le mie partite". In una recente intervista a Sky Jannik Sinner ha raccontato un aneddoto legato alla sua primissima volta a Wimbledon: il ricordo di uno sguardo di intesa col papà in tribuna . Ecco, anche Matteo Librizzi ha vissuto un momento simile: "Con mia nonna, il giorno del mio esordio a Masnago in quintetto base contro Trento . Finita la partita sono corso ad abbracciarla. È stato qualcosa di spontaneo che ci porteremo dentro per sempre". Perché qui il basket è anche una questione di famiglia, come spesso è lo sport e il tifo. Di leggende raccontate ai piccolini al pranzo della domenica, al posto delle fiabe. Ovviamente poco prima di andare al palazzetto a tifare. "La prima persona che ho chiamato da capitano? Mamma" Oggi la famiglia Librizzi al palazzetto a tifare continua ad andarci, ma uno di loro dentro il campo è diventaro attore protagonista: "Da bambino si ha sempre il sogno di diventare un giocatore di basket — prosegue il capitano di Varese sfogliando davanti a noi l'album dei ricordi —, ma farlo davvero e farlo per la squadra della propria città è impagabile". Intanto un po' di cronologia: Librizzi inizia a giocare a livello giovanile alla Robur et Fides, prima di passare alla Pallacanestro Varese e poi salire in prima squadra. I primi minuti in campo coi grandi a Trieste, nel gennaio del 2021; la stagione seguente gioca in doppio tesseramento, con Varese in A e con la Robur in B; poi arriva coach Roijakkers ed entra stabilmente nelle rotazioni. Nel gennaio 2022 il primo quintetto base a Masnago e i primi punti della carriera in una giornata da sogno, la partita del tenero abbraccio con la nonna. Dal novembre 2024 di Varese ne è il capitano: "La prima persona che ho chiamato quando me l'hanno detto? Mamma. Orgogliosissima, alla mia età veniva sempre al palazzetto. La passione arriva da quella parte di famiglia, con zii e nonno, tutti giocatori di basket e tutti tifosi di Varese". Il 13 come Steve Nash, Poz e La Play Siamo nello spogliatoio del palazzetto, Matteo Librizzi ci parla dalla sua postazione. C'è una scritta bizzarra che ci incuriosisce, attaccata con nastro adesivo bianco all'armadietto rosso: 'Liberto'. "E' come mi chiamava Roijakkers, l'allenatore che mi ha fatto entrare in questo spogliatoio". Un po' scaramanzia e un po' gratitudine. E poi c'è il suo numero, il 13. Sulle sue spalle da tante stagioni, dopo una primissima annata col 30: "È il numero che mi è stato dato dal primo allenatore quando ancora ero al minibasket, Gianfranco Pinelli — racconta 'Libro' —. Era quello del suo giocatore preferito, Steve Nash, ed era il numero che dava ai leader di ogni annata. Se eri il 13 avevi una responsabilità in più. Da allora non l'ho mai lasciato". L'idolo assoluto? "LeBron James, ci giocavo alla Play, ma come giocatori modello dico Kyrie Irving e Iverson, anche per quello che rappresentava fuori dal campo". Poi, a Varese, non si scappa: "Se sei di questa città non puoi che aspirare a essere un po' come Pozzecco. Lui accendeva Masnago come nessun altro...". Ecco, l'ultima grande vittoria da queste parti resta lo scudetto della stella del 1999 con Poz dai capelli rosso fuoco, tre anni prima nella nascita di Librizzi: "Zii e mamma me l'hanno raccontato, non c'ero ma è come se fossi stato lì. A volte mi fermo a guardare qualche highlights di quella finale. Qui in città se ne parla ancora oggi". Questione di religione, appunto. Un consiglio ai bambini che sognano di giocare a basket In quel 1999 da scudetto c'era un blocco varesino, su tutti Meneghin e Vescovi. Oggi ci sono Librizzi e Assui. Perché essere nato a Varese e giocare per la tua squadra del cuore è anche una questione di responsabilità: "Ha i dentro qualcosa di innato per cui combattere — spiega Matteo —, ti fa dare qualcosa di più in difesa, nelle palle vaganti. Quando sono diventato capitano ho avuto bisogno di qualche giorno per capire cosa significasse esserlo per la squadra che ho sempre tifato". Con le emozioni che si raddoppiano: "Ci provo a mettere un filtro da professionista, a vivere le partite meno emotivamente e in modo più analitico, per capire dove ho sbagliato e dove poter far meglio. Ma sono di Varese, sono stato e sono ancora tifoso della Pallacanestro Varese e per una sconfitta ci soffro più degli altri". La città oggi è sempre la stessa dove è cresciuto quel piccolo bambino tifoso di Varese. Di diverso ci sono solo altri piccoli tifosi, che oggi lo fermano per strada, lo chiamano capitano. Matteo a ognuno di loro regala una foto e un sorriso. "L'unico consiglio che mi sento di dare è il modo in cui ho vissuto io la pallacanestro, cioè viverla come un divertimento, perché quando ti diverti ti viene facile impegnarti anche in quelle cose meno divertenti. Dare tutto, sempre, ogni allenamento è importante". È così che i sogni si realizzano.

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Marco Salami