Fuggire, sopravvivere, vincere: la storia di Nadia Nadim

E’ il 1995 quando i fondamentalisti islamici talebani, che hanno preso il potere in Afghanistan, irrompono in Herat, una delle città più grandi dell’ovest del Paese preparando da lì la loro violenta marcia sulla capitale Kabul. Nadia ha sette anni, non percepisce ancora il senso di quello che sta per accadere al suo Paese, già sconvolto da una lunga guerra contro il tentativo di occupazione sovietica e ora attraversato da continui conflitti civili che sembrano volgere a favore delle frange ideologicamente più radicali, animate da studenti delle scuole coraniche e sostenute da un ampio movimento che si diffonde a macchia d’olio dall’Iran al Pakistan e ora fino alle porte di casa sua. Da difensori del Paese, i talebani si sono fatti improvvisamente i nuovi minacciosi portatori della idea di costituire un Emirato Islamico e stanno facendo terra bruciata attorno a tagiki e uzbeki. E la caccia ai ‘nemici’ è senza quartiere. Nel mirino ci sono anche gli uomini dell’esercito regolare afghano. Il generale Rabani Khan Nadim è il papà di Nadia, il cui compito è tentare di organizzare una resistenza in città, nella speranza di riuscire a sconfiggere la furia di quegli invasati assetati di sangue e di conquista. Una lotta impari che in pochi mesi si esaurisce fra morti e feriti e con il rapimento degli ufficiali. Nadia vede rapire il padre ed è l’ultima volta che ne ode la voce. "Era un grande uomo, sembrava James Bond, era sportivo e intelligente. Aveva un’aura speciale, quando entrava in una stanza la sua presenza si sentiva. Lo hanno portato via, nel deserto, e lo hanno ucciso". Da quel momento, nel Paese nel quale le donne stanno giorno dopo giorno diventando donne, imparando a sopravvivere senza dare l’impressione di esistere, mamma Hamida prende le redini della famiglia. E’ il 1996 quando Nadia scopre cosa vuol dire essere orfani in mezzo al terrore. "Mamma aveva 57 anni. Era una donna intelligente ed educata. Era incredibile. Ma per fortuna era anche molto coraggiosa, come sono tutte le donne afghane. E ha deciso di fuggire verso una nuova vita. Da sola con cinque figli tra i 12 e i 2 anni. È morta qualche anno fa, in un incidente terribile". Quando ne parla, Nadia ha gli occhi lucidi. Hamida aveva capito in fretta cosa stava accadendo intorno a lei, aveva compreso il futuro di costrizioni e umiliazioni che già all’uscio di casa, aveva perso il padre dei suoi figli e non era disposta a sacrificare anche la loro libertà, un futuro di opportunità, di democrazia e di sogni davanti a una nube di oscurantismo rigido e illiberale, specie nei confronti delle donne. Aveva giurato a sé stessa che avrebbe portato in salvo quel che restava della famiglia. A ogni costo. Stretta fra il desiderio di scappar via e la paura di essere scoperta, sequestrata, uccisa come Rabani Khan. "Si stava chiusi in casa. C’era paura di qualsiasi cosa. Dell’Afghanistan ricordo tutto, il prima e il dopo i Talebani. Io ho vissuto due storie differenti. Prima era tutto normale e le donne lavoravano, come mia mamma nella scuola. Eravamo felici. Dopo è diventato impossibile vivere". Che forza d’animo Hamida. Era riuscita a fare tutto nell’ombra, a trovare un passaggio in macchina e anche qualcuno, soprattutto, disposto per soldi a rischiare la pelle per guidare fino in Pakistan. Da lì, allo scalo di Islamabad con i risparmi di una vita, aveva acquistato sei biglietti per l’Italia, ottenuto i visti e una volta a destinazione, aveva fatto fruttare un contatto con un trasportatore clandestino che tutti stipati in un camion, li aveva portati in Europa del Nord. "Avevamo i soldi e ci siamo potuti permettere dei tempi più brevi, chi non ha il denaro fa viaggi interminabili". Nadia è la secondogenita, nata nel 1988. E’ il 2000 quando arriva in Danimarca. L‘impatto con la nuova realtà non è dei più semplici. Nadia è costretta a crescere in fretta, deve dare una mano anche alla mamma. Non ha molto tempo per sé. Ma ben presto ritrova il suo più vero amico: il pallone. "Mi trovavo nel campo profughi e accanto c’era uno stadio dove una squadra di calcio femminile si allenava. Era la prima volta che vedevo delle donne giocare a pallone. Le guardavo e scoprivo che erano felici. E col passare del tempo sentivo di volere sperimentare anche io quella stessa felicità. E così mi sono innamorata del pallone. Mi fa felice perché mi fa tornare una bambina di dieci anni. Allòra non saprei dire se avessi talento, ma sentivo che giocando facevo qualcosa di speciale". E così, di pomeriggio in pomeriggio, Nadia è diventata una vera calciatrice. Un’attaccante. E a sedici anni è stata ingaggiata dall’Aalborg B52, la squadra di una bella città dello Jutland che l’ha subito adottata e presa in simpatia. Da lì è passata al Team Viborg per maturare e poi - nel 2006 - è stata tesserata dallo Skovbakken. Alla polisportiva dell’Idrætsklubben è rimasta fino al 2012, collezionando tre presenze e realizzando quattro reti. Intanto, già maggiorenne ha preso la cittadinanza danese e si è impegnata nello studio proseguendo ben oltre le scuole superiori e iscrivendosi al corso universitario di medicina. I suoi progressi scolastici vanno di pari passo con quelli sportivi. Nei tre anni fra il 2012 e il 2015 gioca con il Fortuna Hjørring, con cui vince la Eliteserien e con cui ha la possibilità di partecipare anche alla Women's Champions League. Gioca solo otto partite e segna quattro reti. Ma il suo apporto è decisivo. "Vincere è un’emozione grande. Per me la competizione è ossessione". Per due stagioni va in prestito agli Sky Blue di New York e complessivamente in ventiquattro gare realizza tredici reti. Poi va a Portland , prima di tornare in Europa. Dal campo profughi alla Nazionale danese e al Manchester City il passo è breve e poi Paris St. Germain e dal 2021 al 2023 al Racing Louisville. In questo giro del mondo, in totale Nadia gioca 67 gare e segna 32 gol. Nel frattempo riesce anche a laurearsi e specializzarsi in chirurgia ricostruttiva e a imparare perfino a suturare da sola su sé stessa le ferite che riporta sui campi da gioco e sgraditi souvenir dei tacchetti delle avversarie. Ma il suo pensiero è sempre rivolto al suo amato Afghanistan, che intanto ha attraversato anche la lunga e sanguinosa guerra guidata dagli Usa e dalla Nato dopo l’11 settembre del 2001 e dal 2021 è ripiombata nell’incubo di una nuova ascesa del potere talebano. "La situazione delle donne in Afghanistan è molto triste, vedo un futuro nero. Posso provare a dar loro voce, raccontare le loro storie, parlarne al mondo. Ma loro devono lottare e mantenere viva la speranza, senza mollare mai". Nel 2024 Nadia Nadim arriva anche in Italia, acquistata dal Milan, preceduta da una ricca bacheca nella quale spiccano un titolo danese, uno francese, una coppa di Svezia, una coppa di Danimarca e anche il titolo di vicecampionessa europea conquistato sette anni prima, nel 2017 a Enschede, con la Nazionale danese sconfitta dalle padrone di casa dell’Olanda per 4-2 in una gara nella quale, su calcio di rigore, Nadia aveva aperto al sesto minuto di gioco le marcature, marcando la seconda delle due reti messe a segno nel torneo. Ora è una donna vincente, che si è realizzata, ma non dimentica niente. Vuole essere la voce di chi non ha voce, di chi è costretto a subire le angherie dei miliziani fondamentalisti, gli stessi che le hanno ucciso il padre. A Milano Nadia gioca ventidue partite, ma segna solo una rete. Non lascia un grande ricordo sportivo. In compenso impara l’italiano, che le consente di immagazzinare la sesta lingua fluentemente parlata. Finché c’è stata Hamida, Nadia ha avuto la certezza che non potesse mai accaderle nulla. Ora però tocca a lei fare la differenza. E’ anche per questo che ha studiato medicina, per indossare il camice una volta terminata la carriera da atleta e poter aiutare le persone, avere un impatto sulla vita degli altri. Come ricorda sapeva avere anche il padre prima di essere ucciso. "Forse ho ereditato da lui la freddezza nei momenti più difficili e la capacità di restare focalizzata sull’obiettivo. E mi manca. Ma oggi che anche mia mamma non c’è più, ho perso un esempio di combattente. Lei non si è mai arresa, non aveva timore di dire ciò che pensava, ma ha avuto la forza di proteggere me e i miei fratelli quando ha messo la nostra vita in mano a persone che non avevamo mai incontrato prima". Dall’Italia Nadia vola in Svezia all’Hammarby , dove gioca poco ma impara la settima lingua. Non si puo’ certo dire che sprechi le occasioni che le càpitano lungo il cammino. Oggi gioca ancora nell‘HB Køge, in Danimarca, dove è ritornata prima di appendere gli scarpini al chiodo, dopo essere stata premiata con il Women’s Golden Foot, un riconoscimento che le ha consentito di lasciare le proprie impronte sulla Champions Promenade, una particolare Walk of Fame in stile Hollywood Boulevard sul lungomare del Principato di Monaco. Dell’infanzia parla spesso e ogni tanto ripensa al suo primo incontro con la palla. "Me la regalò papà e io ci giocavo nel cortile di casa, ben protetta dagli sguardi di chi giudicava il calcio un pericoloso mezzo di colonizzazione occidentale, un altro buon motivo per non amare i talebani… una realtà nella quale, dopo venti anni che tentavamo di uscirne, siamo ripiombati e ci troviamo punto e a capo". In Afghanistan non le è rimasto nulla, mamma Hamida per concretizzare la fuga, che in principio doveva approdare nel Regno Unito, vendette tutti i beni di famiglia. "Papà era generale dell’Afghan National Army, avevamo dei possedimenti. Mamma diede via tutto. Aveva programmato di rifugiarci a Londra dove avevamo dei parenti. Invece dopo il viaggio, quando ci fecero scendere, ci ritrovammo in mezzo alla campagna anziché sotto al Big Ben. Ci avevano scaricati a Randers e la cosa lì per lì ci gettò nella disperazione". Comprensibile, visto che Randers, a un’ora da Aalborg e situato proprio alla foce del Gudenå, è un medio borgo di origini vichinghe, non esattamente accostabile alla capitale inglese. Ma evidentemente doveva essere destino. Un proverbio afghano dice che ‘anche la fine di ogni notte più nera è bianca’ e proprio in Danimarca ‘den lille Zlatan’, come iniziarono a chiamarla quando arrivò in nazionale , Nadia ha trovato la sua strada e il suo riscatto. Cosa non facile per chi, perso l’affetto più caro in modo così violento e altrettanto violentemente sradicato dalle proprie origini, scopre da un giorno all’altro di dover imparare a vivere suo malgrado nella condizione di rifugiato. "E’ una sensazione che ho provato per la maggior parte della mia vita fuori dall’Afghanistan. Non sarei mai andata volontariamente dove sapevo di poter non essere accettata, ma sono stata costretta a farlo. Ma nonostante tutto la felicità puo’ esistere. Oggi mi sento cittadina del mondo e sono un mix di culture. Mio fratello maggiore è medico, le mie sorelle sono infermiere, io sono chirurgo. Vorremmo fare qualcosa assieme. Vorrei aiutare chi è sfigurato". E i talebani? "La religione è una cosa personale, non devo dimostrare niente a nessuno. È un rapporto tra me e Dio. Prego fino a tre volte al giorno, perché lo sento, non per obbligo. Non ho mai messo il velo. Ognuno dovrebbe essere libero di fare quello che vuole col proprio corpo". In Afghanistan le è rimasto solo qualche parente. "Sono orgogliosi di me. So di essere un buon esempio, se una cosa è possibile per Nadia lo è per tutti, questo è il messaggio che voglio dare. Non sono mai tornata in Afghanistan, forse in futuro, perché il mio sogno è far crescere il calcio femminile in Paesi come il mio. La mia giovinezza non è stata facile: la vita non si sceglie, è bella la vita con quello che si ha. La vita è breve e io voglio essere felice". Sempre in equilibrio fra il leggere e il pensare, Nadia è stata inserita tra le personalità più influenti al mondo da ‘Forbes’. Per la sua scelta di mettere la propria visibilità al servizio delle donne e delle ragazze di tutto il mondo è “Campionessa UNESCO per l’istruzione delle ragazze e delle donne”. Nadia ne è certa: “Ciò che nessuno potrà mai togliere è la speranza di avere, un giorno, degli strumenti utili a cambiare la vita di ognuno. E quando finalmente li avrete, dateci dentro. E non smettete mai di sognare in grande".

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Lucio Rizzica