Conceição, sempre troppo sopra o troppo sotto il tono giusto

Il Milan ha trovato un centravanti ma ha perso troppo. In una serata che è il compendio di una stagione che confonde qualsiasi logica, di sussulti e crolli, di imprese e disfatte, di momenti polari e così ravvicinati da non lasciar nessun tipo di forza e di posa, se qualcosa rimane è una pagina chiara fra le pagine scure : rimane appunto Santiago Gimenez. È l’Acquisto Uno di un nuovo Milan che vuole superare i difetti di quello recente, riuscendo solo a riproporli in tragedia. Sono bastate poche partite per salutare un arrivo d’altri tempi , un giocatore che per forza, anagrafe, ruolo va a ricostruire un senso di tutto . Con Rejinders, Leao, Fofana, Pulisic visualizza un Milan protagonista, evoluto, di forza attuale ed espansione futura. Un nucleo, si direbbe se davanti ci fosse una coscienza di squadra. L’importanza di un acquisto così va oltre le statistiche: finalmente un posto decisivo nella tattica di una squadra e nell’immaginazione collettiva di un popolo viene affidato a tempo indeterminato, dopo anni di porzioni di campioni: quello che restava degli Ibra, Giroud, Morata, Abraham o Jovic . Con Gimenez - accanto a Santiago - può essere più facile costruire e definire ruolo e movimenti e compiti anche di Camarda. Gimenez è un centravanti di misure atletiche che oggi sembrano normali ma che sfrutta per ogni centimetro o grammo perché la sua partita è vissuta per intero, anche quando non è nel fascio di luce della telecamera. Gimenez sembra trasferire se stesso nella lotta, essenziale dove serve - nei paraggi del gol - voluminoso quando si allontana e deve relazionarsi con la squadra, con la partita, con le emozioni. Avremmo voluto che questo pezzo proseguisse attorno alle impressioni di questa natività, ed era evidente dal primo scampolo di Coppa Italia che questo giocatore poteva avvicinare la proprietà all’ambiente, in virtù della scelta che gratificava chi l’ha compiuta, scusandosi per la stessa traiettoria degli errori fatti in precedenza, subito rinnegati. Un arrivo, dunque, che sembrava finalmente presentare al popolo rossonero una dirigenza capace di muoversi in modo credibile, competente, ambizioso. In breve, e ripetendo: un giocatore da “stagione” nuova, da rilancio, da discorso forte. Come se fosse un passo indiscutibilmente giusto oltre l’inopinata, sconclusionata, cinica messa a riposo di un piccolo ciclo smantellato senza senso e conoscenza . Anno Uno che può ancora essere salvato da un campionato da rimontare ma che probabilmente non vedrà nel prossimo gruppo quel Theo fellone: ormai non può più rimediare l’errore, essendo decisivo, esiziale per il destino del Milan. Ma è del coetaneo di Rimmel che ci preme scrivere: Sergio Conceicao, tecnico che non ha saputo trovare una linea fra le emozioni distanti e polari perché lui stesso per primo è sempre troppo sopra o troppo sotto il tono giusto. In circa 50 giorni ha consumato più retorica d’un romanzo avariato, ha cavalcato tutte le battaglie più facili, quelle più suggestive per un tifo deluso, esaltato dalla miracolosa tournée araba, con le due avversarie più importanti e aspre battute in rimonta, e il conseguente trofeo, venduto con impeto western. Un imprudente racconto della vittoria che s’è logicamente ribaltato. Troppo in fretta ha voluto marcare il successo, così da essersi costretto da subito ad additare altri per le sconfitte , o le sofferenze, rincorrendo giocatori per il campo, punendo e assolvendo e punendo ancora e perdonando ancora ma non troppo: un disorientamento che deve aver minato la credibilità del tecnico, comunque truffato proprio dai graziati. Nell’agire è stata troppo ostentata la posa. L’evocazione del mestiere. Il Milan aveva bisogno di organizzazione e di cultura del gioco. Di trovare un equilibrio che permettesse ai giocatori talentuosi ma dispersivi e un po’ traditori di stare insieme e coprire il campo. Di livellarsi , di trovare un’andatura fra quella polarità premessa nelle righe iniziali e questo poteva avvenire con un lavoro squisitamente “tattico”, con un pensiero di squadra. Invece, in questi giorni intensi si è visto l’umore di squadra, i nervi, la reazione, la pulsione, l’impeto ma mai un’idea forte, appunto: un senso e una coscienza. Qua e là qualcosa di sfuggente, come i cambi di questa serata sbagliata contro il Feyenoord, arrivato a San Siro con molte assenze e un gol da difendere evaporato subitissimo. Quando, dopo che il balordo Theo aveva intossicato la partita, sono usciti Gimenez e il sapiente Pulisic, due giocatori che comunque contribuivano con le loro caratteristiche e sensibilità al rimasuglio di logica compromessa da Hernandez, ognuno è stato assalito da cattivi pensieri, vedendo Joao Felix spegnersi a poco a poco per i troppi tentativi dimostrativi e sfibranti. Anche perché il ragazzo ha giocato 4 partite in 10 giorni e tutte intere a parte i dieci minuti finali contro il Verona: in 10 giorni ha pareggiato il minutaggio di 5 mesi di Premier, per dire. Oh, sia chiaro e netto: a noi Felix piace, o meglio; piace moltissimo l’idea del giocatore che potrebbe - o poteva essere. E che speriamo di vedere qui, in rossonero, ora. Ma era lui il calciatore da togliere, per conservare un raziocinio di squadra. L’allenatore l’ha spiegata con il fiato corto del centravanti, e in generale con il fatto che è pagato per scegliere . I cattivi pensieri sono rimasti lì, vaganti e forse vaneggianti, quel dubbio che quando un uomo ricorra a frasi, pose e posture così virili scopra il timore che tutto questo sia messo in discussione, magari dalla sudditanza verso i veri padroni del gioco, quei procuratori che è bene averli dalla propria parte. Un dubbio recondito che vorremo cacciar via dalla testa e dai tasti che lo esprimono, ma deve aiutarci lui mostrando una squadra capace di giocare partite intere e serie.

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Marco Bucciantini