Boicottare o non boicottare, non è questo il dilemma

In premessa, vorrei tranquillizzare i venticinque lettori di manzoniana memoria: non state per scorrere l’ennesimo contributo sul tema: “Si deve giocare Italia-Israele?”. La domanda mi pare infatti mal posta per almeno tre motivi: quesiti che prevedono due sole risposte andrebbero sempre evitati; bisogna delimitare meglio il senso del vietare la partecipazione a qualcuno; la diatriba va molto al di là della gara di Udine. Non foss’altro che per il numero di situazioni belliche attualmente in corso. Al di là dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, l’estensione degli scontri interni ed esterni è infatti vastissima. World Population Review indica in 38 il numero di paesi e territori che in questo momento sono “in guerra” secondo la sua definizione del lemma. Crisiswatch, che considera anche i rischi di un’escalation, presenta oltre 70 casi nei quali eserciti regolari, milizie irregolari, insorgenza terroristica e gruppi criminali provocano situazioni classificabili come “conflitto armato” . In un mondo ideale, lo sport tutto deciderebbe quale atteggiamento tenere di fronte al fenomeno bellico in quanto tale. Non, quindi, rispetto alla singola e specifica situazione. A meno di non volersi avventurare nel ginepraio di chi ‘ha ragione’ e chi ‘torto’. Purtroppo quello che abbiamo plasmato non è un mondo ideale, ma profondamente diviso. Usando l’espressione “lo sport tutto”, faccio quindi ricorso a un’astrazione assoluta: con buona pace di CIO e compagnia, non esiste una sede intitolata a esprimersi nel nome dello sport in quanto tale. Se però restringiamo l’osservazione allo sport ‘ufficiale’, l’argomento diventa più pensabile . La governance dello sport professionistico mostra infatti una elevata frammentazione, che rimanda alla visione anarchica dello spazio politico internazionale. In quest’ultimo, un sistema pluralista di Stati-nazione cerca un bilanciamento con soggetti ‘altri’: il caso dello Stato-nazione Israele, del soggetto politico-terroristico Hamas e del da molti riconosciuto ma non sancito Stato palestinese è paradigmatico. Nello sport, soggetti di ieri , di oggi e di domani stanno cercando un faticoso equilibrio. Diventa perciò difficile stabilire chi può e/o chi deve decidere se qualcuno vada escluso o meno in base a un criterio di nazionalità. E, soprattutto, su quali valutazioni debba fondarsi tale decisione. Ciò varrebbe anche se i soggetti politici in senso proprio non volessero comunque dire la loro . Interrogarsi sul boicottaggio porta infatti al pettine molti e ingarbugliati nodi. L’atleta, il club o la squadra nazionale rappresentano sé stessi, la nazione o il governo di quest’ultima? Se chiedete a me, barrare ‘A’, ma la mia opinione nulla conta. Se un ente organizzatore sentisse l’imperativo categorico di escludere qualcuno o qualcosa per una valutazione politico-morale, dove dovrebbe porre l’immaginaria linea? Vanno estromessi solo i rappresentanti dei paesi che sono ritenuti colpevoli di un’aggressione unilaterale? Oppure è sufficiente il coinvolgimento in un conflitto? Criminalizzazione e repressione del dissenso sono motivo di allontanamento? Come vanno considerati affievolimenti e negazioni dei diritti civili e politici dei cittadini e/o degli sportivi? Ancora più importante: va escluso solo chi gareggia o anche chi investe nello sport d’élite? Basta un cambio di denominazione per risolvere il problema? Da un punto di vista pratico, questo è il punto più importante: le manifestazioni per squadre nazionali occupano infatti una parte minima del calendario. Il resto è fatto di club, formati da atleti di diverse nazionalità, sponsorizzati e retribuiti grazie al contributo di entità sempre più globali e sempre più interconnesse alla politica . Quale peso devono avere nel processo decisionale governi e istituzioni transnazionali? Per capire il peso di questa domanda, basta guardare a quando l’ONU, per citare solo un caso, è chiamato a valutare l’opportunità di sanzioni nei confronti di un suo membro. Nicola Sbetti, ricercatore all’Università di Bologna e studioso del rapporto fra sport e politica internazionale, rimarca che le istituzioni sportive non hanno mai posto una questione morale, limitandosi a promuovere esclusioni e boicottaggi in forza dei rapporti di forza politici. Federazioni e Comitati, legati a doppio filo ai governi delle nazioni e ai soggetti politici internazionali, non possono infatti che riflettere quanto succede ‘di sopra’. È quindi facile, e corretto, criticare la gragnuola di doppi standard determinata da questo imperfetto processo. Nessuno più attuale della Russia sospesa a differenza di Israele. Doppi standard che peraltro animano le polemiche su scenari ben più ampi di quello sportivo. Questo farraginoso assetto è messo sotto enorme pressione dalle istanze che arrivano dalla società civile. Soggetti individuali e collettivi sempre più influenti sottopongono alla fu opinione pubblica motivi per escludere atleti e squadre dalle competizioni. Ponendo il problema con un’urgenza sconosciuta al passato. La risposta di chi si trova in mano la patata bollente è quella di cercare freneticamente compromessi accettabili. Oppure, ancora meglio/peggio, di deflettere il peso della responsabilità. Le federazioni nazionali scaricano così il barile su quelle continentali, che fanno lo stesso con quelle mondiali, finché il barile arriva al CIO, che lo ri-scarica a valle. Tutto ciò mentre governi e istituzioni politiche modulano gli interventi sulla base di un sostanziale opportunismo, sacrificando credibilità sull’altare di un consenso sempre più effimero. Chi chiede un’iniziativa simbolica non può ignorare complessità e contraddizioni. Se il criterio è quello dell’utilità politica, senza un parallelo boicottaggio economico e politico della nazione reproba l’effetto dell’iniziativa sportiva è davvero minimo . Dal punto di vista morale, viceversa, ‘fare qualcosa’ rimane sempre e comunque meglio del suo contrario. Se poi quel ‘qualcosa’ poggia su basi solide, ancora meglio. Se per esempio è vero che sport e politica sono consustanziali dalla nascita, non sono sicuro che giustificherei un’iniziativa a favore della pace chiamando in causa le Olimpiadi. Nella nascita di quelle antiche e di quelle moderne ha giocato un ruolo importante la ritualizzazione della guerra, che si intendeva emulare ed esorcizzare tramite le gare. La storia ci dice che per questa via, così rassicurante ma anche così inefficace, non si favorisce un vero processo di pace. In ultima analisi non ho risposte, ma solo una sfumata opinione. Eventuali sospensioni e boicottaggi, ritengo, dovrebbero colpire i governi, non i cittadini-atleti . A prendere l’iniziativa dovrebbero essere ONU e soggetti similari, non le istituzioni sportive a macchia di leopardo. L’unico motivo che a mio avviso può giustificare un boicottaggio è infatti la penalizzazione dell’attività economica di un Paese. Uno strumento di pressione che, evidentemente, va usato solo in casi specifici e per motivi particolarmente cogenti . Esprimo infine l’auspicio che iniziativa simbolica e boicottaggio non siano considerati sinonimi. Il rischio di aderire a questo assunto è quello di trovare una scappatoia comoda: intanto giochiamo e gareggiamo, poi al resto ci penseremo. Anche ridurre una questione così articolata alla diade sì-no, però, può diventare uno dei tanti modi di non affrontarla.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Boicottare o non boicottare, non è questo il dilemma

Flavio Tranquillo