Quando una partita può cambiare la storia di un Paese

Per qualcuno il calcio è solo un gioco dove 22 persone corrono senza motivo dietro a un pallone. Per altri è un mezzo per divertirsi, soffrire, emozionarsi e passare il tempo con le persone a cui si vuole bene. E poi c’è anche chi, dietro a una partita, vede una ragione di profondo riscatto sociale, dopo anni di pregiudizi e immotivato disprezzo. È quest’ultimo il caso della Norvegia e del Bodø/Glimt, squadra e Paese che oggi vediamo come modelli di comportamento, economia e civiltà, ma che fino a non molti anni fa, per l’esattezza 50, erano nel bel mezzo di una profonda spaccatura interna e che proprio una partita di pallone ha contribuito a ricucire. Questo è il racconto della storica finale di Coppa di Norvegia del 1975. A causa delle difficoltà negli spostamenti da una parte all’altra del Paese, che di fatto obbligava ogni atleta ad avere un lavoro al di fuori del calcio, il professionismo in Norvegia è diventato realtà solo all’inizio degli anni ’80. Una qualunque trasferta, prima di abituarsi a utilizzare gli aerei, richiedeva almeno tre giorni: uno per l’andata, uno per la partita e uno per il ritorno, dal momento che le città più vicine a Bodo distano qualche centinaio di chilometri, e gli spostamenti su strada, soprattutto durante le stagioni fredde, richiedevano diverse ore di viaggio. Nessun datore di lavoro era disposto a sobbarcarsi una ‘responsabilità’ del genere. Figurarsi spostarsi per tutto il Paese, sfidando oltre alle intemperie anche i pregiudizi: “Tra gli abitanti del nord e quelli del sud in quel periodo c’era una profonda spaccatura sociale”, racconta a Insider Steiner As, professore di storia residente a Bodo. “Le persone di questa parte della Norvegia erano viste come selvaggi, indisciplinati, semplici, poco istruiti e arretrati, solo per il fatto di abitare in zone remote e difficili da raggiungere”. Per molti anni infatti, tra la distanza e gli stereotipi, la Norvegia era spaccata a metà. Le squadre del Nord e quelle del Sud, tra cui c’era anche una certa differenza tecnica per via della differenza di qualità nelle strutture di allenamento , disputavano due campionati separati, di cui solo quello con le squadre di Oslo e dintorni, più forti e attrezzate, veniva considerato come ‘ufficiale’. “Per certi versi è lo stesso tipo di differenza che c’è fra il Nord Italia e il Sud Italia, per clima, stile di vita e quantità di opportunità lavorative”, spiega ancora il professore. “Il dominio calcistico del Bodø/Glimt di questi ultimi anni per molte persone è tuttora insolito: è come se in Italia la squadra da battere fosse il Palermo. Sarebbe strano”. Una prima apertura arrivò solo nel 1963, quando in Coppa di Norvegia, l’equivalente della nostra Coppa Italia, venne data a tutti i club del Paese di partecipare, a prescindere dalla città o dalla zona di provenienza. Non che nelle prime edizioni le cose fossero davvero cambiate: Lyn Oslo, Skeid, Rosemborg, Fredrikstad e Strømsgodset si alternarono per più di un decennio. Come prevedibile, tutte formazioni o di Oslo o di altre grandi città del Sud del Paese. Le cose cominciarono a muoversi nel 1974, quando il Bodø/Glimt arrivò fino alle semifinali della competizione, perdendo poi 5-0 contro il Viking, una delle superpotenze dell’epoca , ma eliminando lungo il percorso due grossi club del Sud come Rosemborg e Sarpsborg, entrambi dopo tempi supplementari. Nonostante le netta sconfitta, fu il primo mattoncino della rivoluzione culturale che sarebbe avvenuta nei mesi successivi. Nell’edizione del 1975 il Bodø/Glimt, ormai tra le squadre più affermate del nord del Paese, si presentò ai nastri di partenza con una grande consapevolezza figlia del risultato dell’anno precedente e con maggiore fiducia grazie all’innesto in squadra di Harald Berg, per quattro stagioni uno dei migliori centrocampisti del campionato olandese, tornato in patria per chiudere la carriera nel club della sua città . Il percorso dei gialloneri in quella Coppa di Norvegia fu esaltante: 4-0 al Tromsø nel derby del Nord al primo turno, 3-1 allo Skeid campione in carica agli ottavi, 2-1 al Viking nei quarti per vendicare la sconfitta dell’anno precedente e 1-0 in semifinale contro lo Start di Kristiansand, l’ennesima grossa città del sud di questa storia. Il 26 ottobre del 1975, esattamente 50 anni fa, il Bodø/Glimt entrava all’Ullevaal Stadion per la finale contro il Vard Haugesund, che un po’ a sorpresa aveva eliminato il più quotato Rosenborg. Ancora prima del calcio d’inizio la storia era stata fatta: mai nessun club del Nord era arrivato a giocare la finale di coppa nazionale. “Entrammo in campo solo pochi minuti prima che la partita cominciasse, perché non ci era stato consentito svolgere il riscaldamento dentro lo stadio”, racconta a Insider Jacob Klette, che di quella squadra era centrocampista ‘part-time’, dal momento che di professione faceva l’ottico, perché come per la maggior parte dei suoi compagni il calcio era solo una passione e non un lavoro. “Usciti dal tunnel ci trovammo davanti a 27mila persone, di cui almeno la metà erano vestite di giallo e di nero. Migliaia di persone erano arrivate da Bodø e dal Nord, attraversando tutta la Norvegia, solo per fare il tifo per noi. Sembrava di giocare in casa, non a Oslo”. Quel giorno c’erano tutti i motivi per fare la storia, anche perché per la prima volta la partita di finale era trasmessa in diretta nazionale, eccezionalmente a colori. Dopo una prima frazione molto combattuta, il Bodø/Glimt al 70° passò in vantaggio, per poi chiudere i conti all’89° e assicurarsi la coppa. La storia era stata ufficialmente fatta. Con un retrogusto amaro: “Sul momento non realizzammo davvero la portata dell’impresa”, spiega Klette, “Perché pochi giorni prima avevamo perso la partita decisiva per essere promossi in prima divisione. Eravamo contenti solo a metà, la coppa di sembrava un premio di consolazione. Ci abbiamo messo del tempo per realizzare cosa avevamo fatto”. Questo perché fino agli anni ’70 i playoff per accedere alla massima serie erano decisamente sbilanciati nei confronti delle squadre del sud della Norvegia, mentre quelle del nord, oltre a vincere il proprio campionato, dovevano giocare anche degli spareggi. Di soddisfazioni calcistiche se ne sarebbero tolte in futuro, la prima solo due stagioni dopo, centrando la tanta desiderata promozione nella massima serie, ma ciò che compirono quel giorno andò ben oltre il valore sportivo: “Non riesco nemmeno a descrivere a parole quel giorno”, confida Klette con un pizzico di commozione e nostalgia, “Fino a quel momento cercavamo persino di imitare gli abitanti del sud. A partire da quella coppa, negli anni a seguire, diventammo un popolo solo”. Il calcio, come detto all’inizio, è tante cose diverse: per qualcuno è stato addirittura un veicolo per fare la storia e cambiare il proprio Paese.

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Simone Dagani