A Roma un'Accademia sta cambiando la vita a tanti

Quando un giorno è arrivato Paulo Dybala al campo, come dice lui “per rubargli un sorriso”, i ragazzi gli hanno chiesto le solite cose - un selfie, un autografo - solo che a un certo punto qualcuno si è toccato l’orologio e gli ha detto grazie, grazie mille, ma adesso abbi pazienza dobbiamo giocare, perché tra giocare e guardare non c’è partita. Soprattutto se prima non hai fatto altro che guardarle, le partite: essere respinto, stare in disparte perché ti hanno considerato un legno storto, inadatto. Quando un giorno Paulo Dybala è arrivato tra i ragazzi autistici dell’Accademia di calcio integrato di Roma, come dice lui “per rubargli un sorriso”, allora ha scoperto che il pallone è rotondo come in quel proverbio che vorrebbe spiegare così ogni possibile sorpresa, ma soprattutto che un pallone ha la forza e la potenza di arrotondare certi spigoli che s’inventa la vita. Il progetto ha compiuto dieci anni in estate. Quando nacque nel mese di giugno del 2015, nessuno avrebbe immaginato né la durata né l’impatto sulle giornate ordinarie e confuse di decine e decine di famiglie. Un progetto ideato da Patrizia Minocchi, Alberto Cei e Maresa Bavota con il sostegno della Roma, cominciato con i bambini di una ventina di scuole della città e animato dall’idea che potessero stare insieme, e perfino reggersi, due mondi descritti da due parole e due concetti lontani: da una parte l’autós, il termine coniato dal neurologo Eugen Bleuler per provare a definire persone che stanno dentro sé stesse; e dall’altro sport che ha nel suo etimo la radice del divertimento, che è espressione di una condizione fisica e sviluppo delle relazioni sociali, prima che arrivino l’agonismo e i risultati. Tenere insieme questi due punti era un po’ una visione, un po’ un’utopia. Ha funzionato. Il racconto di questi dieci anni di missione al centro sportivo Pio XI dei Cavalieri di Colombo, in zona Vaticano, è adesso in un podcast in tre episodi molto delicato, si intitola ‘Chiamami Mister’, lo hanno scritto i giornalisti Aligi Pontani e Giuseppe Smorto, la voce narrante è di Daniela Di Giusto, disponibile su tutte le principali piattaforme. Un podcast nel quale l’ex bambino Lollo oggi maggiorenne ricorda di quando il primo giorno non sapeva proprio come sarebbe andata, e non c’è sforzo di immaginazione, non c’è fantasia che possa avvicinarsi al grado di inquietudine che deve aver sentito dentro, e vissuto, e combattuto, e odiato, e vinto, fino a desiderarne di più, a volere nuove prove, nuovi calci a un pallone, fino a volerne fare una professione. Lollo, Luca, Gabriele e altri giovani adulti tra questi ex bambini sono diventati a loro volta istruttori, parte di un pool composto da psicologi, medici, logopedisti, 28 persone che seguono individualmente i piccoli calciatori arrivati all’Accademia con una diagnosi di spettro autistico. Quelli fra i 6 e i 9 anni svolgono attività di gruppo e fanno giochi con il pallone, gli adolescenti seguono un vero programma di allenamento con partite otto contro otto, cinque contro cinque, contro i giocatori e le giocatrici della scuola calcio della Roma. Oltre i pregiudizi, oltre le barriere. ‘Diversità’ Per sostenere l’esame da assistenti istruttori, gli ex bambini che un tempo venivano scartati si sono preparati con 2.000 ore di attività sul campo, così da poterne trascorrere tre al computer, rispondere a 36 domande, restare concentrati sullo schermo, senza che - di nuovo, pure qui - il loro sforzo sia raccontabile, neppure da Dickens. Agnese Rago e Maria Lucia Castellana, due delle tutor per l’esame, non hanno mai adoperato con loro il termine ‘disabilità’ ma ‘diversità’, per misurare la consapevolezza di quella parola. Nel podcast ‘Chiamami Mister’, una delle fondatrici Maresa Bavota spiega che “sembrava tutto assurdo all’inizio, entrare nel mondo dell’autismo attraverso il calcio era una sfida da sperimentare”. L’hanno vinta puntando sulle famiglie, sfidandole a considerare i loro figli dei mini calciatori alla pari dei normodotati. Un percorso lento per il quale padri e madri possono non essere pronti, abituati come sono al principio dell’esclusione. Una seconda fase del progetto si chiama ‘Dopo di noi’, ed è l’indicibile peso dei genitori dentro queste case, cosa sarà di lui, di lei, quando io non ci sarò più. È finanziato con l’otto per mille della chiesa valdese e punta sulla formazione per trovare un’occupazione nello sport. Oggi i ragazzi che stavano dentro sé stessi hanno un gruppo Whatsapp dove si parlano tutte le sere. Quanto è bello il calcio quando arriva fin qui.

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A Roma un'Accademia sta cambiando la vita a tanti

Angelo Carotenuto