Stade de France e Bataclan: non possiamo dimenticare gli orrori di Parigi

Il 26 luglio del 1966 Manuel Dias aveva 14 anni. Viveva a Mertola, una deliziosa cittadina dal sapore medievale di meno di 3.000 anime posta su una collina dell’Alentejo che domina il fiume Guadiana, nel sud del Portogallo. E quel giorno non aveva né tempo né voglia di cedere alla quotidiana ansia oppressiva che il regime di Salazar, il famigerato Estado Novo, aveva calato come una cupola di piombo sull’intera nazione. Certo, le libertà civili erano lacerate e gli oppositori repressi nel sangue; certo la dittatura fascista spezzava le ali a qualsiasi sogno ingessando l’intera società nella camicia di Nesso del controllo militare, del corporativismo e della guerra coloniale. Ma quel giorno lì c’era Inghilterra-Portogallo, semifinale mondiale. Ed Eusebio, il mozambicano che incarnava le contraddizioni e le ferite inferte dal regime, era la stella che in campo faceva dimenticare per qualche ora ogni depressione. Manuel era tifoso dello Sporting, fresco vincitore della Coppa delle Coppe e linfa vitale per quella Nazionale che, alla sua prima partecipazione al torneo più importante del mondo, aveva battuto nientemeno che il Brasile grazie a otto suoi giocatori. Vero, Pelé era infortunato, ma Eusebio aveva dimostrato di esserne degno rivale rifilando un poker personale anche alla sorprendente Corea di Pak-Doo-Ik, il dentista che aveva umiliato l’Italia. La tv in quegli anni era un oggetto sociale, più che individuale, ed era la calamita che attirava nei bar gran parte della comunità. Mertola non faceva eccezione. E fu da quel piccolo cubo in grado di illuminarsi con immagini in bianco e nero che Manuel vide quella partita, attraversata dal ciclico movimento di quella banda grigio scuro che percorreva di tanto in tanto lo schermo dal basso in alto quando la sintonizzazione non era perfetta. Bobby Charlton invece lo fu, perfetto. E la sua doppietta rese inutile il rigore con cui Eusebio illuse il Portogallo di poter riacciuffare gli inglesi: 2-1 e fine dei sogni mondiali. Per alimentare quelli di una vita migliore, Manuel dovette attendere ancora qualche anno, quando la sua famiglia riuscì a fuggire dal morso della dittatura partecipando a quella che fu una vera e propria diaspora: più di un milione di portoghesi lasciarono il Paese cercando rifugio e nuove prospettive in Francia. Lui e i suoi genitori finirono a Reims, dove Manù trovò lavoro in un’azienda siderurgica. Non sarebbe stato il suo unico impiego, perché negli anni si sarebbe dedicato anche alla ristorazione e all’abbigliamento prima di diventare autista per la Regnault, azienda che si occupava del trasporto delle persone e che rispondeva a sue due grandi passioni: la guida e la socialità. Sì, perché Manù amava guidare, anche per ore e senza sosta. E adorava farlo trasportando altre persone, con le quali intratteneva volentieri amabili e leggere conversazioni, soprattutto se il tema centrale diventava il calcio. Gli capitava spesso di accompagnare gruppi di tifosi allo stadio, magari da Reims a Parigi, ed era quell’autista cui confidare le speranze nel viaggio di andata e cui affidare gioia o delusione in quello di ritorno. C’era sempre empatia, condivisione, analisi e passione nei suoi dialoghi. Qualche volta perché entrava allo stadio insieme ai suoi clienti, più spesso perché pur restando fuori seguiva un rituale che lo rendeva comunque informato e competente: parcheggiava, consumava uno spuntino al posto di guida e infine raggiungeva un locale qualsiasi, purché dotato di televisione, per bere un caffè guardando la partita sullo schermo. Come nel ’66 a Mertola. A quel punto il rendez-vous a fine partita era infarcito di considerazioni competenti e puntuali, nel corso delle quali l’ottica di chi aveva vissuto il match dagli spalti poteva confrontarsi con quella di Manù, che aveva osservato le stesse azioni dalla tv. Il tutto condito dal suo sorriso discreto e da qualche battuta su quella girata finita fuori di un centimetro o su quella geniale apertura dalla quale era quale si era originato il gol. Manù, insomma, a Reims era una sorta di istituzione, tanto che i tifosi che prenotavano un pullman o un van dal signor Bouscatel, chiedevano espressamente che alla guida ci fosse lui. Cosa che accadde puntualmente anche quel 13 novembre 2015, il giorno di Francia-Germania. La particolarità di quella richiesta era duplice: in primo luogo non è frequente che chi affitta un mezzo di trasporto per un gruppo di persone si concentri anche sull’identità dell’autista. E in secondo luogo, cosa ancor incredibile, Manuel Dias era in pensione ormai da tre anni. Finestra temporale che non aveva affatto scalfito, evidentemente, il piacevole ricordo di quel signore che con il suo accento portoghese colorava di simpatia la lingua francese un po’ come fa Mourinho quando innerva di cantilena ‘genovese’ l’idioma italico. Del resto Manù non disdegnava di interrompere l’oasi del suo meritato riposo accettando saltuariamente qualche viaggio che gli facesse riassaporare il piacere della guida e quella frizzante socialità sportiva. Indispettendo un poco la moglie, quella donna che Manuel aveva conosciuto nel seno della nutrita comunità portoghese formatasi in Francia in seguito alla fuga dal regime di Salazar: “Ma questo è l’ultimo viaggio, stai tranquilla”, l’aveva rassicurata Manù, frase che aveva ripetuto anche ai figli ormai trentenni preoccupati che il padre non si sfiancasse in un’attività logorante. Francia-Germania era un’amichevole, ma è una sfida classica del calcio europeo sempre piena di significato, prestigio e rivalità. Allo Stade de France, oltre a 60.000 spettatori, erano presenti anche il Presidente François Hollande e il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, giusto per dare ulteriore lustro a un appuntamento di gala. E per raggiungerlo in tempo, malgrado l’organizzazione un po’ raffazzonata e tardiva, occorreva accelerare: da Reims a Parigi ci vogliono due ore, ma di venerdì un po’ di più. Molti di quei tifosi che avevano deciso di assistere alla partita erano reduci dalla loro giornata di lavoro e la partenza fissata intorno alle 18.30 non garantiva di arrivare a destinazione prima del fischio d’inizio delle 21.00. Ma tutto sommato non importava, l’ingresso ritardato non avrebbe certo rovinato la serata di festa. Manù si mise alla guida come altre mille volte, chiacchierò di tutto con i suoi ‘ospiti’ come altre mille volte, raccolse speranze e attese calcistiche come altre mille volte. Senza patemi, senza fibrillazioni per il possibile ritardo. Arrivò sul piazzale dello Stade de France pochi minuti dopo l’inizio della partita, fece scendere tutti, salutò cordialmente e guardò il gruppo dirigersi verso l’ingresso D, mentre dall’interno le note degli inni nazionali avevano già lasciato spazio alle sottolineature corali delle giocate delle due squadre. Poi chiamò la moglie: “Tranquilla, siamo arrivati. Leggero ritardo, sì, ma la partita è appena iniziata. Io ora vado a bere un caffè, ci sentiamo più tardi”. Nessuno l’avrebbe mai più risentito. La sua passeggiata verso il locale lambiva l’ingresso dello stadio e lì, probabilmente, notò quell’uomo agitato che pochi istanti prima era stato respinto dagli steward e dai poliziotti a guardia del varco D. Si chiamava Ahmad al-Mohammed, o almeno così c’era scritto sul suo passaporto, era arrivato in Europa dalla Siria il mese precedente ed era stato accolto nell’isola di Leros, in Grecia, come rifugiato. E da quel momento era diventato un fantasma, riapparso improvvisamente davanti allo Stade de France, chissà per quale motivo. Anche lui sembrava semplicemente fuggito dall’oppressione, come Manù anni prima. In particolare dalla guerra civile siriana che dal 2013 aveva già provocato centinaia di migliaia di morti facendo emergere sullo scacchiere geopolitico lo Stato Islamico forgiato nel sangue dall’ISIS. E invece era arrivato radicalizzato dal fondamentalismo e carico di odio verso un mondo che avrebbe voluto cancellare insieme alla sua stessa esistenza. Faceva parte di un commando di una decina di terroristi e il suo compito, quella sera, era quello di dare il via all’orrore: avrebbe dovuto introdursi in qualche modo allo Stade di France e avrebbe dovuto farsi esplodere in mezzo al pubblico generando una strage e provocando il panico. Altri due componenti del commando suicida sarebbero rimasti nel piazzale con l’analogo compito di farsi esplodere in mezzo alla gente che a quel punto sarebbe sciamata confusamente fuori dallo stadio. “Ecco il solito ‘imbucato’ che cerca di entrare senza biglietto” deve aver pensato Manù. In effetti Ahmad il tagliando di ingresso non l’aveva. E a ripensarci oggi sembra strano o addirittura ingenuo che un piano così terribile e diabolico fosse stato progettato senza considerare un dettaglio così determinante. Ma l’orrore a volte si muove su metodologie artigianali e grezze: comprare un biglietto avrebbe significato declinare generalità e produrre un documento, passare i tornelli di ingresso avrebbe significato sottoporsi a perquisizione e una cintura esplosiva, per quanto composta di perossido di acetone concentrato, non sarebbe passata inosservata. Non è chiaro quindi come il terrorista pensasse di entrare, quel che è certo è che fu respinto e che alle 21.20 era a un istante dall’abisso. Nel quale avrebbe trascinato Manuel Dias, a pochi passi da lui. L’esplosione terrificante fu percepita distintamente all’interno dello stadio. E dopo un brevissimo attimo di silenziosa sorpresa fu accompagnata da una sottolineatura collettiva, una sorta di ‘Olè’ sarcastico all’indirizzo del solito idiota che fa deflagrare mortaretti a sorpresa, copione classico in molti stadi europei. Solo 10 minuti più tardi, quando una seconda enorme esplosione proveniente dall’ingresso H fece tremare di nuovo lo Stade de France, il pubblico si rese conto che qualcosa di poco folkloristico stava accadendo là fuori. Timore confermato dalla terza esplosione, alle 21.53, davanti a un McDonald’s a 400 metri dallo stadio. I due terroristi incaricati della strage successiva alla prima detonazione avevano infatti cambiato strategia cercando vittime lì nei pressi, fortunatamente senza provocare morti ma ferendo decine di persone. Sull’asfalto, esanime, era rimasto il solo Manuel Dias. L’unica vittima dello Stade de France, la prima di una notte agghiacciante che avrebbe cancellato altre 129 persone. Sì, perché nel frattempo una SEAT nera, lanciata per le vie di Parigi, aveva aperto il fuoco a casaccio davanti al ristorante Carillon, poi all’altezza del Cafè Bonne Biére, poi nei pressi della pizzeria Casa Nostra, infine al cospetto del ristorante La belle équipe. Tutti locali affollati per il venerdì sera, gruppi di persone falciate senza pietà da raffiche inesorabili e casuali, corpi crivellati o feriti, esistenze innocenti stroncate senza un motivo se non quello di ingrossare i numeri di una strage concepita come epocale. Una follia che avrebbe trovato il suo parossismo al Bataclan, dove un terzo segmento del commando si introdusse durante un concerto dal vivo per eseguire l’ennesima mattanza. Manuel fu il primo di quei 130. Paradigma della morte inflitta con odio cieco e indifferente, sprezzante e devastante. Quella notte l’obiettivo era molteplice: colpire i simboli di uno stile di vita disprezzato , infondere terrore e insicurezza in un mondo ritenuto responsabile dei mali altrui , esprimere l’inconciliabile avversione per una cultura percepita come indegna. Il fondamentalismo religioso non è mai un fine, ma quasi sempre un mezzo per reclutare la manovalanza disposta a una guerra i cui scopi sono connessi al potere, sia politico che economico. Fino a che non ci si chiederà seriamente per quale motivo esistano persone disposte a suicidarsi pur di infliggere morte e sofferenza agli altri, Manuel non avrà vera giustizia. Fino a che non si agirà per rimuovere le cause di quel degrado sociale e morale che è perfetto brodo di coltura dell’odio senza fine, si continuerà a morire. Come Guillaume Valette, 29enne sopravvissuto miracolosamente tra i corpi del Bataclan, che dopo mesi di attacchi di panico e ipocondria si è tolto la vita nel 2017 nella camera della clinica psichiatrica dove era stato ricoverato nelle settimane precedenti: “Non dimenticherò mai il rumore di quelle mitragliatrici”, aveva confidato ai genitori. Oggi c’è anche il suo nome nell’elenco delle vittime del 13 novembre. Insieme a quello di Fred Dewilde, anche lui scampato al Bataclan perché ritenuto già morto dai terroristi, ma anche lui scaraventato nel baratro dell’angoscia sino al suicidio nel 2024, poco più di un anno fa. Perché il mostro della dannazione stende le sue ali senza limiti di spazio e di tempo. Ecco, i limiti, i confini. Il mondo contemporaneo ha abbattuto in larga parte quelli fisici, ma sta alacremente lavorando per rafforzare quelli culturali. Le democrazie cedono progressivamente alla tentazione di diventare cassa di risonanza per le tendenze fobiche, difensive e divisive alimentando l’insofferenza verso ‘gli altri’. Ma poiché il ‘governo dei saggi’ teorizzato da Platone si scontra con un irriducibile limite metodologico , non c’è altra strada che difendere, custodire e migliorare quella che resta la miglior forma di governo possibile. Anche se per sua natura è soggetta a quella ‘legge del pendolo’ che alterna epoche di apertura ad altre di chiusura rispetto al rapporto con gli ‘stranieri’ e i ‘diversi’. Il 13 novembre 2025, giorno del decennale, la Francia scende ancora in campo, stavolta per qualificarsi al Mondiale e stavolta non allo Stade de France, ma al Parco dei Principi. Il suo avversario è l’Ucraina, altro luogo fisico e dell’anima che oggi è scenario di morte e distruzione. Anche lì il suono di ogni bomba rievoca la storia di Manù, al secolo Manuel Dias, che una sera di dieci anni fa decise di accompagnare un gruppo di persone verso lo svago e il divertimento di una partita di calcio. E sembra di vederlo ancora lì, davanti allo schermo per godere di uno spettacolo che dovrebbe unire e rasserenare, anche solo per qualche ora: come nel ’66, come nelle speranze di quella notte del 2015. Gli spettatori dello Stade de France, dopo ore di angosciosa attesa sul campo di gioco, uscirono intonando La Marsigliese, l’Inno nazionale francese che è urlo per la libertà contro la tirannia e che è scrigno dei valori rivoluzionari ‘liberté, egalité, fraternité’. Valori che miscelati insieme non suonano così diversi da una semplice e rivoluzionaria frase sacra: “Ama per il fratello ciò che ami per te stesso”. Vangelo? Sembra, perché questo concetto è architrave sia del Cattolicesimo che della Chiesa Ortodossa. Torah? Sì, certo, basta leggere il Levitico. Ma scritta in quel modo è una frase attribuita a Maometto, la base etica dell’Islam.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Stade de France e Bataclan: non possiamo dimenticare gli orrori di Parigi

Alessandro Biolchi