Storie di Matteo Marani: "1964, il Bologna Paradiso"

L'INCHIESTA

Un racconto dell’Italia attraverso il calcio di quell’epoca. Una storia che racconta di una squadra, quella guidata da Fulvio Bernardini che vinse, nell’unico spareggio della Serie A, uno scudetto dei miracoli. Documenti inediti, interviste esclusive e contributi storici compongono l'appuntamento firmato da Matteo Marani per il ciclo Storie. Disponibile su Sky on demand

Su quell’erba hanno posato i piedi i più grandi della storia. Maradona, Van Basten, Baggio, Lineker a Italia ‘90. Su quell’erba, negli Anni 30, spuntò il Bologna più forte di sempre, lo squadrone che tremare il mondo fa. Sei scudetti vinti in meno di vent’anni. Ma solo una volta – una volta soltanto – su quel verde è sceso il Paradiso.

Alla quinta giornata del campionato 1962-63 il Bologna batté 7-1 il Modena. Era l’ottobre 1962. In sala stampa, l’allenatore Fulvio Bernardini cercò di trasmettere la soddisfazione per lo spettacolo offerto dai suoi calciatori, ma non trovò altre parole. Disse: “Signori, così giocano solo gli angeli in Paradiso”.

Era il sigillo, l’etichetta migliore da apporre a un’avventura straordinaria. Una squadra di giovani, guidata da un allenatore amante del bel calcio, stava sovvertendo le gerarchie. Nella stagione seguente, il 1963-64, il Bologna si ritrovò di fronte il Milan, trionfatore in Coppa dei Campioni pochi mesi prima; e l’Inter, che la Coppa Campioni – o Champions, se preferite – l’avrebbe vinta al termine dell’annata. Il Bologna fece qualcosa di incredibile, di totalmente inatteso. Un gruppo partito dal basso, e con meno mezzi di tutti, arrivò a contendersi lo scudetto nell’unico spareggio nella storia della Serie A.

Il 7 giugno 1964 faceva un caldo tremendo in città. Ma più che le cicale, dalle finestre si sentivano frinire le radio. Ore 17.30. Tutto era sospeso e immobile nelle strade e sotto i portici. A Roma, allo stadio Olimpico, il Bologna sfidava la Grande Inter di Herrera. È la storia degli indiani, di Davide, di chi sogna la rivincita sul più forte. Dalla cabina Rai, arrivò la voce di Niccolò Carosio.

Il 1964 è un anno importante per il Paese. Da pochi mesi si è chiuso il boom durato dal 1958 al 1963. L’Italia ha cambiato pelle. Non è più contadina, ma industriale. Non vive più in provincia, ma in città. In pochi anni sono cambiati soprattutto abitudini e riti.

Il simbolo, quasi un feticcio, è diventato l’elettrodomestico. Frigoriferi, aspirapolveri, televisori. L’Italia compra a rate, firma cambiali, perché ha fiducia nel futuro. E spende per mandare a scuola i figli. Molti di loro saranno protagonisti, quattro anni dopo, della maggiore contestazione nella storia della giovane Repubblica: il Sessantotto.

Anche l’Emilia sta cambiando. Nel 1964, a Sant’Agata Bolognese, ha aperto gli stabilimenti Lamborghini. Un nuovo modello emiliano si afferma sul piano nazionale e internazionale, grazie alle esportazioni. I successi della domenica, nel calcio, si incrociano con quelli delle piccole-medie imprese del territorio. Si gioca a pallone come si vive nella vita.

Il boom, nonostante i difetti generati dalla crescita incontrollata, nel 1964 ha restituito agli italiani un Paese cresciuto. Gli addetti all’industria sono saliti dai 5 milioni e mezzo del 1952 agli 8 milioni del 1962. Nello stesso periodo, i contadini sono scesi da 8 a 5 milioni. Esplode il terziario, l’Italia degli uffici. Nel tempo libero si legge la narrativa economica, novità dell’epoca. È l’anno di Giuseppe Berto con il Male Oscuro. Si guardano i film al cinema, specie 8 e mezzo di Fellini. E si ascolta musica, moltissima musica, nei giradischi o alla radio. Gino Paoli e Gianni Morandi, bolognese di Monghidoro, Bobby Solo e Adriano Celentano. Ma anche gruppi come i Dik Dik ed Equipe 84. E le donne, da Ornella Vanoni a Mina. Proprio una 16enne, Gigliola Cinquetti, la sera del primo febbraio ‘64 trionfa a Sanremo con “Non ho l’età”.

La sedicenne Gigliola Cinquetti vince il 14° Festival di Sanremo, condotto da Mike Bongiorno

La musica e la moda segnano l’emancipazione delle ragazze, le prime cresciute fuori dalla guerra. Vestono in minigonna e con una libertà sin lì sconosciuta. Pure i maschi sono più disinibiti dei padri. Ma è nei consumi che si registra la maggiore novità. Le automobili portano i primi casi di traffico in città e i primissimi interrogativi sull’inquinamento. Nel 1964 viene completata l’Autostrada del Sole. Dopo la pietra iniziale posta nel 1958 tra Milano e Piacenza, l’A1 arriva adesso a Napoli, 755 chilometri totali. La parte più difficile da attraversare è quella tra Firenze e Bologna, tra viadotti, tunnel e ponti appenninici, in una sfida d’ingegneria.

È la strada che ha percorso anche Fulvio Bernardini. La vicenda del Bologna 1964 non può che partire dall’uomo che ha messo insieme l’impresa. A Firenze, nel 1956, Bernardini aveva portato in dote alla città il primo scudetto della storia, grazie al brasiliano Julinho e all’argentino Montuori. Romano di nascita, Fuffo – come viene chiamato dai tifosi - è stato uno dei primi calciatori laureati. È un esteta del calcio, ama i campioni, i piedi buoni. Sarà ribattezzata così la sua Nazionale, utile a svezzare Bearzot verso il successivo titolo mondiale. Bernardini sbarca a Bologna nell’estate del 1961. Nulla sarà più come prima.

Fulvio Bernardini allenò il Bologna dal 1961 al 1965

A Bologna il dottor Pedata, soprannome che gli ha dato Gianni Brera, trova dei giovani interessanti. Il più importante è Giacomo Bulgarelli. Ha 21 anni, possiede un talento smisurato. Gioca avanzato, ha un tocco elegante, come il suo tratto umano. Ha fatto il liceo classico San Luigi, si esprime in un italiano forbito, dote che lo porterà dopo la carriera a diventare un apprezzato commentatore tv. Partito dalla provincia bolognese, Portonovo di Medicina, Giacomino ha debuttato in prima squadra nel 1959. Ma è con Bernardini che diventa titolare indiscusso, guadagnandosi il Mondiale in Cile. Scrive Gianfranco Civolani: "Era il calcio artistico e corale. Attaccava, difendeva, volteggiava".

Giacomo Bulgarelli con la maglia rossoblù

Accanto a lui c’è un altro giovane, altrettanto decisivo nello scudetto. Ha un carattere burbero, da friulano chiuso. In realtà ha un cuore d’oro. Ezio Pascutti parla con i gol. Chiuderà la carriera in rossoblù con 130 reti segnate in meno di 300 partite, senza nemmeno un rigore calciato. Con loro ci sono capitan Pavinato, lo stopper Tumburs, Marino Perani e l’architetto del centrocampo Romano Fogli. Bernardini fa alcune mosse decisive: imposta Furlanis terzino e prende dalla Lazio il libero Franco Janich, detto “Armeri”, espressione dialettale che indica sì la passione per gli armadi antichi, ma anche la stazza fisica. Le pedine chiave per la vittoria sono straniere. Il primo si chiama Helmut Haller, un napoletano di Germania per quanto sorride e si gode la vita. Il presidente Dall’Ara, malgrado ami poco viaggiare, è andato in Baviera per prenderlo. L’altro è Harald Nielsen, danese, più silenzioso, ma porta la concretezza offensiva di cui il Bologna ha disperato bisogno. I suoi 21 gol nel famoso anno di grazia 1963-64 spingeranno la squadra al raggiungimento della vetta.

L'attaccante Ezio Pascutti: 130 reti con la maglia del Bologna dal 1955 al 1969

L’anno precedente, nel 1962-63, il Bologna si era classificato quarto. La squadra aveva incassato il doppio dei gol dell’Inter tricolore. In estate, Dall’Ara ha comprato il portiere del Mantova William Negridetto carburo per il distributore di benzina della famiglia. L’ultimo tassello mancante è stato messo. Sebbene il compito rimanga arduo contro le due migliori squadre d’Italia e d’Europa. In un decennio, i mitici Anni 60, Milan e Inter collezionano 5 scudetti, 4 Coppe dei Campioni, 3 Intercontinentali. Nella sfida sul campo c’è qualcosa in più: la diversità dei modelli sociali e politici. L’industriale Milano, fatta di acciaio e cemento, contro l’artigianale Bologna, cooperativa e solidale. È sempre così: si gioca come si vive.

Bologna è nel pieno della sua espansione: nel censimento del 1961 ha registrato 450mila abitanti, 100mila in più di 10 anni prima. Aumenteranno ancora, fino a sfiorare i 500mila a fine decennio.

In città ci sono due figure fondamentali: il sindaco Giuseppe Dozza e il cardinale, Giacomo Lercaro. Il primo ha fatto parte della resistenza ed è esponente del Partito comunista italiano, il secondo guida la diocesi bolognese dal 1952 ed è influente anche in Vaticano.

I due hanno pochi motivi per piacersi, hanno fatto cammini diversi, invece si trovano in fretta. È la storia di Don Camillo e Peppone, scritta da Guareschi poco lontano da qui. Ma è anche la storia di quanto sta avvenendo nell’Italia di quel tempo. Quella del centrosinistra.

Dall’incontro tra Dozza e Lercaro scaturisce un nuovo welfare emiliano. Nel 1964, iniziano i lavori per la complanare, da tutti chiamata tangenziale. È la prima a scorrere per intero dentro a una città. Bologna segna un altro primato nazionale con l’introduzione degli asili nido: tre strutture pilota per un centinaio di bambini. Le donne bolognesi sono le più occupate al lavoro e serve supporto. Quel modello emiliano di asili, e reggiano in particolare, verrà copiato nel mondo. Palmiro Togliatti, segretario del Pci, esalta Bologna per la prova di convivenza tra cattolici e comunisti pochi mesi prima di morire, a Yalta, il 21 agosto 1964.

Se a Bologna il binomio Pci-Dc dà risultati, anticipando il compromesso storico degli Anni 70, a livello nazionale è l’incontro tra cattolici e socialisti a segnare la svolta. Nel 1962, dopo un percorso durato dieci anni, è nato il primo governo di centrosinistra. Il presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, ha ottenuto l’appoggio esterno del leader socialista Pietro Nenni. Un anno dopo, concluso un breve esecutivo guidato da Giovanni Leone, tocca ad Aldo Moro varare il primo dei suoi tre governi coi socialisti dentro la stanza dei bottoni. Sul tavolo ci sono vari punti: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, attuata dal 1962 nonostante la resistenza di Confindustria, l’istituzione delle Regioni e la riforma della scuola media unica, su cui si areneranno molte speranze. Ma l’apertura porta segnali forti. Il principale riguarda le case popolari: un milione e mezzo costruite in 10 anni. Il 15% dei nuovi edifici a Milano, il 35% a Bologna. Servono a sostenere un’immigrazione costante, dal Sud al Nord, dalla periferia al centro. Alla fine del processo, nel 1971, avranno cambiato casa oltre 9 milioni di italiani.

Il sindaco Giuseppe Dozza e Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna dal 1952 al 1968

Se Lercaro è il simbolo bolognese di una chiesa che si apre al sociale, agli emarginati, a livello superiore Giovanni XXIII è stato il Papa che ha cambiato la dottrina cristiana col Concilio Ecumenico II. Prima di morire, nell’estate del 1963, ha fatto in tempo ad aprire al terzo mondo e a cambiare il linguaggio della Chiesa. Si è rivolto ai fedeli come non era mai successo prima.

L’aria di rinnovamento nel Paese deve estendersi anche al calcio. È quello che il Bologna si incarica di fare. All’inizio della stagione 1963-64 il Milan va subito in testa, la squadra di Bernardini mette però in fila dieci vittorie e il 12 gennaio aggancia i rossoneri. L’Inter sta risalendo, ma tutto pare favorevole al Bologna. Il gioco è splendido, tecnico e corale, condito dalla fantasia di Haller, dalla classe di Bulgarelli, dai gol di Nielsen e Pascutti, autori delle due reti con cui la squadra vince il primo marzo a San Siro con il Milan. Quella domenica il Bologna si sente addosso lo scudetto, invece mancano meno di 64 ore al caso più sconvolgente della sua storia.

Mercoledì 4 marzo la città sta godendosi la giornata di fine inverno, quando all’improvviso l’Ansa conferma la notizia anticipata da un giornale milanese della sera. Nella partita contro il Torino, cinque giocatori rossoblù sono stati trovati positivi all’antidoping.

È uno shock. Le dosi di amfetamina rinvenute nelle urine di Pavinato, Perani, Tumburus, Fogli e Pascutti – questi i cinque accusati – sembrano esagerate. Il sospetto muove il club, che spera nella giustizia sportiva, ma muove soprattutto Mario Cagli, un avvocato civilista. La sua non è solo la figura di un ottimo professionista e di un appassionato di calcio, quanto di un intellettuale. Scrive libri e articoli per i giornali, corrisponde con Umberto Eco e altri protagonisti della vita culturale italiana. La sua immagine ci viene restituita, allo stadio, dalle foto conservate nel fondo donato all’Archiginnasio di Bologna. Quel luogo del sapere, una delle biblioteche più belle al mondo e nel cuore della città con l’università più antica al mondo, è un altro pezzo della nostra narrazione, perché conserva riviste, giornali, altri pezzi di quella stupenda avventura.

A Cagli si affiancano Arrigo Gabellini, noto penalista, e Alberto Magri. I tre si rivolgono il 7 marzo alla Procura della Repubblica di Bologna. Tocca al magistrato Pellegrino Jannacone disporre il sequestro delle provette delle controanalisi. Sono conservate a Coverciano, dove ha sede la Federazione italiana dei medici sportivi. A guidarla è Fino Fini, il dottore della Nazionale. Il blitz sulla collina di Firenze lo compie il maggiore dei Carabinieri Vittorio Carpinacci.

È una lotta su tutti i fronti. I tifosi del bar Otello – il covo storico della passione – alzano proteste e manifesti. Il 20 marzo la commissione giudicante della Lega calcio toglie i due punti della vittoria incriminata col Torino e ne aggiunge uno di penalità. Senza quei tre punti, il Bologna è spacciato. Fulvio Bernardini viene condannato a un anno e mezzo. Motivo per cui, in una foto diventata celebre, l’allenatore parla alla radiolina col suo Cervellati nel match giocato contro la Roma. Nel frattempo succedono altre cose: il Bologna rinvia la partita con la Spal, l’Inter vince il duello di Pasqua in Emilia e si lancia spedito verso il secondo scudetto di fila.

Tutta la documentazione del caso Bologna è ancora conservata negli archivi della Lega calcio. Siamo in grado di mostrarvi gli originali. L’iniziale accusa, la squalifica, l’assoluzione finale. Eh sì, perché il 4 maggio succede l’incredibile: i periti del tribunale di Bologna esaminando le provette sequestrate a Coverciano, non hanno riscontrato tracce di amfetamina. Zero. Si è trattato di una manomissione. Scatta la domanda: chi è stato? E perché? Anni dopo, il medico sociale del Bologna, Giampaolo Dalmastri,  accosterà il nome di Gipo Viani alla vicenda. Viani era all’epoca Direttore tecnico del Milan e inizialmente erano i rossoneri in corsa coi ragazzi di Bernardini. Supposizioni, ipotesi, dicerie. La cosa certa è che il Bologna è assolto dalla giustizia sportiva il 16 maggio. Vengono ridati i tre punti tolti due mesi prima. Con un documento mai visto in pubblico, vi mostriamo l’atto di chiusura delle indagini siglato dalla Procura della Repubblica.

I tre punti hanno riportato il Bologna accanto all’Inter in testa al campionato. Le ultime tre giornate, le due squadre vincono sempre. Per la prima volta si rende dunque necessario lo spareggio. La discussione si infiamma. Il presidente della Federcalcio Pasquale avanza una proposta discutibile: assegnare lo scudetto 1964 all’Inter e riconoscere al Bologna quello del 1927, tolto al Torino in seguito allo scandalo Allemandi e mai riconosciuto ai rossoblù giunti secondi. L’offerta è respinta da Dall’Ara, il quale lo rende chiaro sui giornali. Rimane da stabilire la città della sfida. La proposta è Roma, ma l’Inter teme che giocare nella città di Bernardini possa essere controproducente sul piano del tifo. E rilancia per Genova. È però chiaro a tutti che questa sorta di Superbowl italiano si debba per forza giocare nella Capitale. Il tifo di Roma sarà in effetti tutto per il Bologna, come quello dell’Italia che parteggia per il piccolo contro il grande. Prima di arrivare alla gara di domenica 7 giugno, c’è ancora il tempo di un incontro in Lega calcio tra i due presidenti.

Da una parte del tavolo siede Renato Dall’Ara, presidente del Bologna, dall’altro Angelo Moratti, numero uno dell’Inter. Dall’Ara ha una maglieria, Moratti raffinerie di petrolio. Sono due protagonisti di primo piano della nostra storia.

Dall’Ara è passato da Reggio Emilia a Bologna negli Anni 30. Ha vinto quattro scudetti. Ha un linguaggio ruspante, nel quale traduce a suo modo i latinismi: Sine qua non, siamo qua noi. Fiat Lux: faccia lui. Il suo lessico picaresco riempie le vignette di Marino sul Guerin Sportivo.

Angelo Moratti, figlio di un farmacista, ha preso l’Inter nel 1955 e sta iniziando a togliersi molte soddisfazioni. Appartiene alla buona borghesia, è seduto nel salotto del Corriere della Sera.

I due stanno fissando i premi-partita quando Dall’Ara si sente male. È un infarto, un altro colpo di scena di questo infinito 1964. Il presidente muore tra le braccia del collega e di un terzo uomo presente in sala. È il presidente della Lega calcio. 

Essendo in ritiro, i giocatori del Bologna non sono riusciti ad andare al funerale del presidente, dispensati dalla vedova Dall’Ara. "Pensate a portare a casa lo scudetto per Renato" raccomanda lei. Una città si trova divisa fra le speranza di vittoria e il lutto.

Una visita all’Archivio del Comune di Bologna, struttura che si trova alla periferia nord della città, permette di scovare ulteriori documenti utili alla ricostruzione di quei giorni. Fra la corrispondenza del gabinetto del sindaco Dozza, si trova il telegramma di condoglianze del primo cittadino alla famiglia Dall’Ara. E si trova un altro documento interessante, a riprova di quanto tra le carte ci sia sempre qualcosa di nuovo e di diverso da scoprire. Il vicepresidente del Bologna, Giuseppe Della Valle, il 5 giugno 1964 chiede l’intitolazione dello stadio a Dall’Ara. Occorreranno 19 anni perché accada.

Bologna contro Milano è un duello che appassiona l’Italia del calcio, ma non solo quella. Sono di fronte due modi opposti di intendere tifo, lavoro, vita. Milano è dura, calvinista, difficile da digerire per i 200mila operai aggiuntisi in pochi anni. È l’alienazione che emergerà potente nei libri di Luciano Bianciardi, altro collaboratore del Guerin Sportivo, e di Paolo Volponi. Nel 1964 viene inaugurato la prima linea della metro, la Rossa, negli stessi mesi in cui Bologna apre invece alla costituzione dei nuovi quartieri, una politica vicino ai cittadini. La città mantiene dimensioni umane. Anche le sue aziende sono lontane dalle fabbriche del Nord. L’80% dei lavoratori è occupato in ditte con meno di 25 dipendenti. Nonostante ciò, il 12% delle importazioni tedesche arrivano dall’Emilia. Il ciclo produttivo è scomposto sul territorio, in filiere: la ceramica a Sassuolo, la maglieria a Carpi, l’automobile a Modena. È quella che il sociologo Arnaldo Bagnasco definirà la Terza Italia.

Né nord, né Sud. La Terza Italia è un sistema fatto di cooperative, circoli sociali, partito di massa. Nella Casa del popolo si gioca a carte o a bocce, senza perdere di vista il progresso sociale.

Un progresso che diventa il centro dell’opera di un grande intellettuale come Pierpaolo Pasolini, tifosissimo del Bologna sin dai primi anni di vita in Friuli. Nei suoi film, nelle Lettere luterane che pubblica sul Corriere della Sera, si concentra sulla distinzione tra sviluppo e progresso. Anche quello dei costumi sessuali, per i quali decide di intervistare la squadra del Bologna. Rivisto con gli occhi di oggi, l’imbarazzo dei giocatori suscita tenerezza.

La rivalità tra Inter e Bologna si ripete in Nazionale. Dopo il disastro del 1962 in Cile, la squadra azzurra viene affidata a un piccolo romagnolo. Non si chiama Arrigo Sacchi, bensì Edmondo Fabbri, detto Mondino.

Chiude la porta agli oriundi, che hanno dato poco alla Nazionale, e apre ai giovani italiani. I giornali milanesi gli chiedono di giocare con Picchi, libero dell’Inter, emblema del catenaccio. Invece lui preferisce Janich del Bologna. L’Italia torna a vincere in Austria dopo molti anni e tutto è orientato al meglio. Almeno fino al pomeriggio del 1966 a Middlesbrough.

È Italia-Corea. Quattro giocatori del Bologna e tre dell’Inter in campo. Segna Pak Doo Ik, che non è un dentista, ma resta la più grande sconfitta del nostro sport.

Mondino Fabbri dovrà nascondersi in un convento per sfuggire all’ira dei tifosi. Altro che Ventura.

Edmondo Fabbri ct della Nazionale dal 1962 al 1966

In ventimila, da Bologna, scendono a Roma il 7 giugno del 1964. È il gran giorno dello spareggio. L’Inter, dieci giorni prima, nella finale al Prater contro il Real Madrid di Di Stefano, ha alzato al cielo la prima Coppa dei Campioni. Un trionfo che trasmette sicurezza a Mazzola e compagni in previsione del duello-scudetto. La squadra si è preparata ad Appiano Gentile, al fresco dei pini. Al contrario, il Bologna è andato a Fregene, sul litorale romano. Bernardini conosce bene il caldo di Roma e cerca l’acclimatazione per la domenica. Si dimostrerà una mossa vincente.

L’altra è quella di inserire il terzino Capra al posto dell’infortunato Pascutti. Viene messo in marcatura su Corso. La finale di Vienna e il caldo appesantiscono i muscoli dell’Inter via via che passano i minuti. Il Bologna continua a giocare leggero, sicuro di sé, e nel secondo tempo colpisce due volte. La prima rete arriva al minuto 75 con Romano Fogli, un diagonale su punizione. Un urlo, 400 chilometri a nord, squarcia Bologna. Nove minuti più tardi, su assist dello stesso Fogli, Nielsen firma il 2-0. L’arbitro Concetto Lo Bello, il più famoso direttore di gara italiano, fischia la fine.

Harald Ingemann Nielsen, al Bologna dal 1961 al 1967

Su Stadio, il giornale sportivo della città, Aldo Bardelli, già Ct dell’Italia al Mondiale del 1950, celebra così la vittoria:

La conquista dello scudetto da parte del Bologna ha contribuito a restituire al campionato la sua antica e nobile funzione: valorizzare e premiare i valori squisitamente tecnici e sportivi del grande torneo. La vittoria del Bologna è la vittoria della modestia e del coraggio. È la conferma che il calcio, nonostante le sue recenti proiezioni spettacoli, è ancora uno sport.

Il Bologna è diventato il campione degli umili, dei delusi, dagli esclusi dai grandi traguardi, degli artigiani mortificati dalle ambiziose organizzazioni industriali incontrastate dominatrici della scena.

Il Bologna ha vinto senza una mastodontica organizzazione, senza grandi mezzi. Una società sana, guidata da un presidente di antica onestà. Una squadra di bravi ragazzi, affidata a un allenatore di riconosciuta rettitudine.

All’Olimpico, la gioia di quei ragazzi è esplosa immediata. Tutti piangono. Giacomo Bulgarelli sa di avere fatto qualcosa di immenso per la città. Dirà no alle proposte del Milan per vivere e morire fra la sua gente. Haller sorride a proprio modo, scanzonato: farà in tempo a vincere due scudetti con la Juventus nei primi Anni 70. Nielsen ha capito che quanto ha vissuto a Roma quel pomeriggio non tornerà più. Qualche delusione con Inter, Napoli e Samp prima di rientrare in Danimarca e scendere ogni tanto a Bologna a riabbracciare gli amici. E poi Perani, che del Bologna sarà pure allenatore, e Fogli, che al Milan diventerà Campione d’Europa nel 1969, ma che sotto le due Torri ha lasciato il cuore. Tutti felici. Tutti da ricordare con quella è diventata una dolce litania: Negri-Furlanis-Pavinato/Tumburus-Janich-Fogli/Perani-Bulgarelli-Nielsen-Haller-Pascutti.

I giocatori hanno preso sulle spalle Fulvio Bernardini, perché questo capolavoro l’ha messo insieme lui. Nell’epoca del catenaccio, di Rocco ed Herrera, si è imposto col gioco. Una lezione coraggiosa e utile anche per l’attualità. Ha vinto perché ha capito che i pochi soldi del Bologna potevano essere la ricchezza di fronte agli sprechi e alla presunzione di Milano. Ha vinto perché ha saputo trascinare con sé dirigenti, giocatori e una piazza innamorata del calcio.

Senza la reazione dell’intera comunità sul doping, senza la calata in massa dei tifosi all’Olimpico, senza l’anima di questa gente, non sarebbe stato possibile nulla di tutto ciò che è successo. E siccome si gioca come si vive, il Bologna ha trionfato con stile, idee, civiltà, desideri cullati nelle sue osterie. Quelle che presto canteranno Lucio Dalla e Guccini.

Il Bologna è una storia più grande di Bologna. È quella, in fondo, dello sport. Nel quale una piccola squadra, si chiami Danimarca o Leicester, si chiami Grecia o Nottingham Forest, può compiere un miracolo se ne esiste una sola possibilità. È la storia della Fiorentina dei giovani del 1969, del Cagliari ’70 di Riva, del meraviglioso Torino 76 di Gigi Radice, del Verona di Bagnoli, dell’impertinente Samp di Boskov, Mancini e Vialli. Sono le pagine che hanno cresciuto almeno due generazioni di italiani, tra imprese ascoltate alla radio, Novantesimo minuto, figurine Panini e caffè Borghetti allo stadio. Quello stadio su cui una volta, una volta solamente, è calato il Paradiso.