Gli ucraini non sono arrivati agli ottavi di Champions League per caso. La squadra di Fonseca è una delle più organizzate in Europa, con un 4-2-3-1 entusiasmante
Quando parliamo dell’apporto del Portogallo al gioco del calcio negli ultimi anni la mente va istintivamente alla trinità Mendes-Mourinho-Cristiano Ronaldo e quindi, semplificando, all’ossessione per il risultato che passa sopra ogni altra cosa, alla supremazia dei fini sui mezzi. In realtà, questo piccolo rettangolo di terra all’estremità occidentale della penisola iberica sta dando molto di più a questo sport, con una scuola tattica tanto ricca quanto sottovalutata.
Negli ultimi anni i successi degli allenatori portoghesi in Europa si stanno moltiplicando e si fa fatica a trovare un altro paese con un’influenza tale sui cinque principali campionati europei e sulle coppe continentali: si va dalla sfida interna tra Rui Vitoria al Benfica e Jorge Jesus allo Sporting, alle esperienze minori ma non per questo meno significative di Marco Silva al Watford e di Paulo Sousa alla Fiorentina, fino ad arrivare ai trionfi di Leonardo Jardim con il Monaco e di Fernando Santos con la nazionale portoghese.
Come ha giustamente sottolineato Emiliano Battazzi, parte di questo successo può essere spiegato con gli studi sulla cosiddetta periodizzazione tattica effettuati a Porto agli inizi degli anni ’90 dal professor Frade, che furono portati per la prima volta sul campo da Carlos Queiroz, che rivoluzionò i metodi di allenamento ed ebbe una grande influenza sul calcio portoghese che venne successivamente.
Come ha ben riassunto Battazzi: «Con la periodizzazione tattica, si implementa un modello di gioco da subito; ogni allenamento è legato a una componente tattica, che è centrale nella metodologia, e che serve a determinare risposte quasi automatiche dei giocatori durante le varie situazioni di una partita; non si allena a compartimenti stagni (parte fisica, parte tattica, parte tecnica, parte psico-emotiva), ma tutto nello stesso momento».
Queiroz, che anche allo United con Ferguson ebbe un ruolo fondamentale (secondo Giggs: «Ci allenava, ci preparava per le partite, organizzava il team e decideva le cose che dovevamo fare»), può essere considerato una sorta di padre nobile di questa nuova generazione di allenatori portoghesi, che ha Mourinho come massimo esponente e Paulo Fonseca come uno degli allievi più promettenti al momento.
A proposito di periodizzazione tattica: un esercizio di uno contro uno durante uno degli allenamenti di Fonseca allo Shakhtar.
La storia di Fonseca è contraddistinta da una circolarità evidente e il suo punto di partenza, uno degli infiniti da cui si può partire per disegnare un cerchio, sta nel fatto è che è nato in Mozambico quando ancora era una colonia portoghese, nella città che nel 1953 diede i natali proprio a Carlos Queiroz: Nampula.
Corsi e ricorsi
Fonseca inizia ad allenare a 32 anni nelle giovanili della Estrela da Amadora, la squadra in cui ha passato le ultime quattro stagioni della sua dimenticabile carriera da centrale di difesa. Quella da allenatore, invece, all’inizio sembra avere i connotati della predestinazione, persino nelle serie minori dove inizia a muovere i primi passi: dopo Amadora, Sintra e Odivelas, nel 2009 arriva alla Pinhalnovense, una squadra di terza divisone, che porta per due volte di fila ai quarti di finale della Coppa di Portogallo.
Nel 2011 passa in Serie B, al Deportivo das Aves, e conquista promozione e nuovamente i quarti di finale della coppa nazionale. L’anno successivo arriva la consacrazione definitiva: viene assunto dal Paços de Ferreira, in Primeira Liga, e arriva, contro ogni pronostico, al terzo posto, portando la società in Champions League per la prima volta nella sua storia. Delle 41 partite giocate in quella stagione ne perde solo 6, tutte e 6 contro le tre grandi di Portogallo: Benfica, Sporting e Porto, che alla fine di quella stagione decide di ingaggiarlo nonostante avesse insperatamente vinto il campionato.
È il momento in cui Fonseca sembra diventare davvero un predestinato: d’altra parte al Porto ci si aspetta da lui una nuova età dell’oro, dopo quelle di Mourinho e Villas Boas. Le cose iniziano bene, Fonseca vince la Supercoppa, ma poi il destino gli sfugge dalle mani, nonostante provi a guidarlo con le parole. A gennaio dice che: «Saremo campioni all’ultima giornata», ma nemmeno due mesi dopo viene esonerato con il Porto ancora terzo in classifica e a 9 punti dal Benfica capolista. Anni dopo dirà: «Forse sono arrivato troppo presto al Porto. Le cose oggi andrebbero diversamente».
La sua carriera smette di avere la forma della linea retta – una freccia orizzontale verso il successo – e ricomincia dal Paços de Ferreira, chiudendo un primo ciclo. La sua carriera deve tornare indietro per andare in avanti. Dopo un’annata interlocutoria al Paços de Ferreira, nell’estate del 2015 Fonseca viene chiamato dal Braga, che ha appena chiuso una grande stagione con una delle delusioni più cocenti della sua storia recente: dopo essere arrivato quarto in campionato, è uscito sconfitto dalla finale di Coppa di Portogallo, vittima dello Sporting ai rigori, dopo essere stato in vantaggio fino al 93esimo. Il Braga non arrivava in finale di Coppa del Portogallo dal 1998 e non la vince addirittura dal 1966.
L’anno successivo, con Fonseca in panchina, il Braga finisce ancora una volta quarto, con lo stesso identico numero di punti della stagione precedente, e arriva nuovamente in finale di Coppa di Portogallo: questa volta però non c’è lo Sporting – che il Braga ha eliminato agli ottavi per 4-3 ai tempi supplementari – ma il Porto. La partita sembra seguire un percorso lineare: il Braga dopo un’ora di gioco è sul 2-0. André Silva, però, dopo aver segnato un primo gol al 61esimo del secondo tempo, pareggia con una rovesciata senza senso a meno di quattro minuti dalla fine.
La partita si trascina fino ai rigori, proprio come l’anno precedente, ma questa volta è il Braga a sollevare la Coppa di Portogallo, esattamente 50 anni dopo l’ultima volta. Finita la partita, Fonseca apre la conferenza stampa dicendo: «Ho sempre pensato che la storia non si sarebbe ripetuta».
Il rigore che regala la Coppa di Portogallo al Braga.
In Ucraina
Oltre al successo in patria, il Braga quell’anno stupisce anche in Europa League, arrivando fino ai quarti di finale dopo essere arrivato primo nel suo girone (davanti al Marsiglia) e aver superato Sion e Fenerbahce. Ai quarti viene fermato dall’ultimo Shakhtar Donetsk di Mircea Lucescu, che gli rifila un totale di 6-1 sui 180 minuti. Nonostante ciò, è proprio alla luce di quell’incontro che il club ucraino decide di affidare a Fonseca la pesantissima eredità lasciata in estate dal leggendario allenatore romeno, che si trasferisce allo Zenit dopo 12 anni a Donetsk. La fine di un ciclo corrisponde all’inizio di uno nuovo.
La scelta di accettare l’offerta dello Shakhtar Donetsk non è scontata: non solo perché Fonseca si troverebbe a gestire la fase di transizione dopo la fine dell’era di un allenatore ingombrante come Lucescu, ma anche perché nell’estate del 2016 il club ucraino sembrava in piena smobilitazione. Nel bel mezzo della guerra civile ucraina, che lo ha costretto a spostarsi prima a Lviv e poi a Kharkiv, lo Shakhtar ha venduto Teixeira, Douglas Costa, Fernando e Luiz Adriano senza sostituirli. Sono due anni, inoltre, che non riesce nemmeno a vincere il campionato.
Fonseca arriva portando la sua eredità, a partire dalla periodizzazione tattica, con la necessità però di lavorare sul gruppo già a disposizione (nell’anno e mezzo di sua gestione non c’è stato praticamente nessun acquisto rilevante, se si esclude il terzino brasiliano Dodô, arrivato nell’ultima sessione di mercato per sostituire Srna, scomparso dopo essere risultato positivo all’antidoping nel settembre scorso). «È la prima volta in tutta la mia carriera che dopo le vacanze inizio a lavorare subito con il pallone, sulla tattica», dice l’attaccante brasiliano Eduardo dopo uno dei primi allenamenti.
Il primo allenamento di Fonseca allo Shakhtar.
Il primo anno, lo Shakhtar di Fonseca torna a dominare il campionato ma fatica in Europa. Dopo essere uscito ai playoff di Champions League (persi ai rigori contro lo Young Boys), finisce in Europa League, dove nel girone ritrova il Braga, che batte sia all’andata che al ritorno. Dopo essere passato da primo del girone, però, viene eliminato ai sedicesimi di finale dal Celta Vigo, ai supplementari.
Il gioco di posizione di Fonseca
La difficoltà di fronte a cui si trova l’allenatore portoghese è quella di trasmettere la sua fiducia nel gioco di posizione ad un gruppo di giocatori eterogeneo, che mette insieme alcuni grandi passatori (come il portiere Pyatov, il centrale di difesa Rakitskiy e il mediano Fred) e altri grandi accentratori di gioco (Bernard, Marlos e Taison). Quello che ne esce fuori è un 4-2-3-1 estremamente fluido, che cambia struttura posizionale a seconda delle situazioni di gioco, e che cerca di attaccare e difendersi con il pallone.
L’idea alla base del gioco di Fonseca è quella di una squadra che non debba mai deformare la propria struttura in reazione a ciò che fa l’avversario: lo Shakhtar cerca sempre di essere in una situazione di controllo, sia col pallone che senza, devono essere gli avversari a disordinarsi per cercare di ottenere un vantaggio.
In fase di prima impostazione, ad esempio, lo Shakhtar insiste su un possesso lento e ragionato, che coinvolge molto anche il portiere, in modo da attirare il pressing alto avversario, allargando lo spazio tra le linee avversarie in verticale. In questa fase di costruzione dell’azione la squadra ucraina si dispone il più delle volte con un 3-4-3 a diamante, attraverso la salida lavolpiana di uno dei due mediani (di solito Stepanenko, il meno tecnico tra i due), la discesa delle due ali a centrocampo e l’allargamento dei terzini.
In questo modo, la squadra di Fonseca moltiplica le linee di passaggio per il portatore di palla per facilitare il superamento delle linee di pressione avversarie. Se il pressing avversario è particolarmente efficace, i difensori possono sempre tornare indietro dal portiere, che di solito, in assenza di altre alternative, cerca con il lancio lungo in diagonale il terzino sul lato opposto, che rimane larghissimo e altissimo per andare in uno contro uno e avviare la transizione (un’arma utilizzata con grande profitto nella partita d’andata contro il Napoli).
Contro le squadre che si difendono nella propria metà campo, e che permettono quindi di salire con il pallone fino al centrocampo, invece, lo Shakhtar porta inizialmente tutti i suoi quattro uomini offensivi tra le linee avversarie, con le ali (Marlos e Bernard) strettissime e vicinissime al trequartista (Taison) e alla prima punta (Ferreyra), mentre i terzini garantiscono l’ampiezza rimanendo alti contemporaneamente. Con questi sei uomini ad occupare i corridoi verticali del campo, la squadra di Fonseca si piazza nella trequarti avversaria con una sorta di trapezio rovesciato, la cui base è rappresentata dai due mediani.
Da questa forma iniziale, lo Shakhtar cerca di sviluppare dei movimenti codificati, da eseguire il più delle volte di prima, che hanno lo scopo di liberare un uomo alle spalle della linea difensiva avversaria, faccia alla porta.
Per esempio: il mediano serve l’ala nel mezzo spazio spalle alla porta; la sua ricezione tira fuori dalla linea il terzino avversario; l’ala restituisce palla indietro di prima al mediano, che a sua volta lancia l’esterno basso che sta attaccando lo spazio liberato dalla salita del terzino avversario.
Qui manca la sponda indietro ma il principio è lo stesso.
O ancora: quando la palla arriva sull’esterno al terzino, l’ala taglia velocemente dall’interno all’esterno; lo spazio alle sue spalle viene occupato dalla prima punta, o dal trequartista, che riceve tra le linee il passaggio in diagonale del terzino e chiude il triangolo verso l’ala.
In ogni caso, la grande densità centrale che lo Shakhtar crea tra le linee serve esattamente per moltiplicare questo tipo di combinazioni e facilitare le giocate di prima dei suoi interpreti, riducendo lo spazio tra i giocatori e quindi il margine di errore.
Avere tanti uomini in zona palla, poi, significa anche facilitare il recupero immediato del pallone, che diventa anche più pericoloso proprio perché recuperato nella parte centrale del campo. Lo Shakhtar, infatti, estende la propria pretesa di controllo sul pallone e sullo spazio anche quando perde il possesso.
Sempre per via dell’idea che bisogna deformare il meno possibile la propria struttura posizionale, lo Shakhtar fa poco affidamento al pressing alto direttamente sulla prima costruzione avversaria, proprio perché lo costringerebbe ad allungarsi sul campo aumentando lo spazio di ricezione per gli avversari.
Senza palla, quindi, la squadra di Fonseca si sistema in un 4-4-2 d’attesa, che però cerca di rimanere il più compatto e alto sul campo possibile, con i due attaccanti che cercano di schermare le linee di passaggio verso il centrocampo e la linea difensiva che sale schiacciandosi sul centrocampo. In questo modo, lo Shakhtar non diminuisce solo lo spazio di ricezione tra le linee (anche con uscite molto aggressive sia dei centrali che dei terzini nei mezzi spazi) ma anche, più in generale, lo spazio di gioco per la squadra avversaria, attraverso la linea del fuorigioco.
Se gli avversari riescono a rompere questa struttura, per esempio con una ricezione tra le linee, la squadra di Fonseca cerca di restringere ulteriormente lo spazio intorno alla palla, comprimendosi in orizzontale. Se un’ala avversaria riceve nel mezzo spazio, questa non verrà aggredita solo alle spalle dal terzino, ma anche ai lati dal mediano e l’ala di riferimento.
Le fragilità dello Shakhtar
È un modo di difendersi ambizioso, perché cerca di allontanare il più possibile l’avversario dalla porta, ma per questo non privo di rischi. Con una linea di difesa così alta, innanzitutto, lo Shakhtar lascia molto spazio tra la difesa e il portiere, che può essere attaccato verticalizzando direttamente dalla difesa o dal centrocampo. I due centrali, Rakitskiy e Ordets, sono piuttosto lenti e legnosi nella copertura della profondità e anche Pyatov non è sempre pulitissimo nelle uscite.
Anche le due ali, Bernard e Marlos, non sono irreprensibili nel seguire i tagli degli esterni avversari fino alla linea di difesa, facendo sì che i terzini si ritrovino spesso in pericolose situazioni di due contro uno, soprattutto quando devono uscire in maniera molto aggressiva sul ricevitore avversario nel mezzo spazio.
I pregi della Roma, con una manovra che si sviluppa sempre in verticale, anche da posizioni molto profonde di campo, e soprattutto sfruttando i triangoli di fascia, sembra incastrarsi molto bene con queste debolezze. Ma è ritrovando la perfezione nei meccanismi di pressing alto e riaggressione che la squadra di Di Francesco può davvero togliere allo Shakhtar la fiducia di giocare con il pallone, che rimane la prima arma offensiva e difensiva della squadra di Fonseca.
Il gioco di posizione si basa sulla fiducia, per l’appunto: di gestire il possesso anche vicino alla propria porta, di rimanere nella posizione assegnata per non deformare la struttura collettiva, che l’allenatore con le sue idee possa aumentare il tuo valore e portarti quindi alla vittoria.
Fonseca chiede questa fiducia ai suoi giocatori, basandola su quella che lui ha nel suo percorso futuro. «Non so quando sarà», ha detto all’inizio della passata stagione. «Ma un giorno sarò in una finale di una coppa europea». Il suo percorso per adesso ha seguito dei cicli, ma non senza smettere di avanzare, come un’onda. Il suo ciclo allo Shakhtar sembra adesso nel punto più alto, non sappiamo quando inizierà a chiudersi, ma nel frattempo avanza.