Heysel, 40 anni dopo: una tragedia da non dimenticare

La notte del 29 maggio 1985 fu una notte di orrore, tragica. Così la descrive Darwin Pastorin nel suo libro ‘Il gentiluomo’, dedicato a Gaetano Scirea, che della Juventus era il libero e il capitano. “La notte dell’Heysel. Il sangue sulla Coppa dei Campioni, su quel settore Z: Juventus-Liverpool, trentanove morti, quasi tutti italiani, innocenti tifosi bianconeri travolti dalla furia degli hooligans inglesi, pestati, calpestati, Bruxelles in fiamme, le lacrime, la tribuna stampa presa d’assalto dai vivi: ‘Chiamate casa. Dite che siamo salvi, per favore, dite che siamo salvi’. Tu, Gaetano, parlasti alla gente: ‘State calmi, giocheremo per voi’. La Juve vinse 1-0 in una situazione irreale, tra barelle a bordocampo e tifosi in festa, tra vecchi cronisti in lacrime e chi non si rendeva nemmeno conto della tragedia…”. Buona parte dei giocatori bianconeri, quelli più rappresentativi, poco tempo dopo, prepararono un breve documento mentre erano in ritiro con la Nazionale che si preparava ai Mondiali in Messico. A scriverlo li aiutò il giornalista Gianni Minà. Volevano che fosse chiaro e non ridondante, ma che esprimesse il loro profondo dolore e senza alcun equivoco manifestasse la loro presa di distanza da una vittoria bagnata di sangue. La squadra voleva dire alla gente, in un’epoca nella quale non esistevano ancora i social, le pay tv, l’informazione talvolta ossessiva e ossessionante di oggi, che scendere in campo dopo quel macello aveva rappresentato soltanto un modo per aiutare le forze dell’ordine a circoscrivere, a bloccare e arrestare quelle belve umane che avevano originato quella sciagura. E per permettere a infermieri, medici e volontari di portare soccorso ai feriti. Racconta ancora Pastorin, parlando a un immaginario Gaetano , “quando parlavi dell’Heysel ti venivano le lacrime agli occhi. Anche in quella stanza d’albergo dove mi trovavo a Napoli, quel 3 settembre del 1989 mi sono venute in mente le tue lacrime mentre parlavi di quella notte a Bruxelles, dove il calcio smarrì l’ultima sua purezza, dove il pallone mostrò la sua faccia terribile e violenta”. Quel maledetto e impronunciabile Koning Boudewijnstadion, come lo chiamavano i belgi in fiammingo, altrimenti detto Stade Roi-Bauduin o stadio Re Baldovino, era un profilo già lugubre a vederlo dall’esterno. Sorgeva nel viale di Maratona di Bruxelles, Era stato edificato fra il 1929 e il 1930 e sulle prime era stato battezzato come Stadio del Giubileo, salvo poi nel secondo dopoguerra decidere di identificarlo con il quartiere nel quale faceva brutta mostra di sé, l’Heysel. Il suo aspetto non era molto migliorato nonostante una prima ristrutturazione avvenuta negli anni ’70, che tuttavia aveva permesso il rilascio di una nuova agibilità per gli incontri internazionali di calcio. Quell’ammodernamento, per dirla tutta, già nel 1985 era ritenuto vecchio e la struttura era considerata da tempo obsoleta e piuttosto fatiscente. In fondo era pur sempre vecchia di mezzo secolo, molto lontana da standard ritenuti più moderni, soprattutto in termini di sicurezza e di salubrità. Ma un po’ le burocrazie politiche, un po’ quelle sportive avevano chiuso gli occhi. Fino al punto da concedere all’impianto di potere ospitare la finale della più importante manifestazione calcistica europea per club, nonostante le evidenti criticità dell’intera architettura - più volte da più parti sottolineate - e delle aree circostanti, fra le quali luoghi simbolo della capitale come l’Atomium e un grande parco cittadino. Già qualche ora prima della partita, in vista dell’apertura dei cancelli, cominciarono ad affluire comitive di tifosi, moltissimi in arrivo dall’Italia, giunti in Belgio per tifare Juventus. Per i meno giovani quel match reca in sé il desiderio di riscatto dopo le due finali perdute contro l’Ajax e l’Amburgo , entrambe per 1-0. Stavolta di fronte c’è il Liverpool dai colori ‘rossi’ e dalla furia incontenibile. E’ il Liverpool di Joe Fagan, che può contare su campioni del calibro di Bruce Grobbelaar, Phil Neal, Steve Nicol, Kenny Dalglish, Ian Rush, Paul Walsh, John Wark. Ma la Juventus di Tacconi e Cabrini, Scirea e Tardelli e Paolo Rossi, Platini, Boniek non può temerlo e poi - a gennaio - lo ha già battuto in Supercoppa Europea, 2-0 in mezzo alla neve, con Zibì Boniek a folleggiare in contropiede e diventare per l’avvocato Gianni Agnelli e per tutti il ‘bello di notte’. E’ il Liverpool dei tifosi indomiti che cantano alla squadra ‘You’ll never walk alone’. Ma purtroppo è anche il Liverpool degli hooligans. Da tempo in Inghilterra la subcultura violenta negli stadi si è affermata attraverso un fenomeno teppistico che si manifesta attraverso esplosioni di tifo molto aggressivo, che sfocia spesso e volentieri in disordini e risse in occasione degli incontri di calcio delle squadre cui sono associati i tifosi al seguito. Gli scontri con le forze dell’ordine e con tifoserie avversarie sono all’ordine del giorno in tutta Europa. I giovani barbari provenienti da oltre Manica sembrano essere i più pericolosi. A Torino,, in occasione della Supercoppa, si sono visti poco, ma la polizia belga e quella italiana sono molto preoccupate per la massiccia affluenza di ‘firm’ che si attendono per la finale di Bruxelles. Che qualcosa non stia andando per il verso giusto anche all’Heysel è chiaro sin da subito. Mentre da una parte si dirigono verso lo stadio famiglie al completo, tifosi festanti, eccitati, mamme con ragazzini al fianco, bambini eccitati seduti a sventolare bandierine sulle schiene dei loro papà, dal lato opposto arrivano orde vocianti e rabbiose di supporter rabbiosi, con le birre in mano, gli animi inquieti e le mani che prudono. Per questioni di ordine pubblico la tifoseria juventina viene concentrata nella curva a destra della tribuna centrale, che era divisa nei settori O, M e N. La curva opposta aveva subìto la medesima divisione, con differenti concentrazioni di tifosi. Nei settori X e Y erano stati sistemati i tifosi del Liverpool, ma anche alcuni virulenti fans del Chelsea: gli ‘Headhunter’. Poi c’era un ultimo settore, una sorta di zona neutra, completava la curva. Erano biglietti che non rientravano nei pacchetti venduti al tifo organizzato e dunque erano per questo tutti stati dirottati nel settore Z. Perciò nel settore ZETA, accanto alle frange più brutali del tifo albionico si erano ritrovati dei tifosi normali, turisti del calcio, gruppi di amici, di parenti, le sopra citate famiglie con bambini al seguito. Assiepate in un settore che a livello strutturale era piuttosto precario, poco attrezzato per resistere a grandi spinte, a pressioni eccessive, a zuffe di massa, tafferugli violenti, assalti ringhiosi. Quando le intemperanze degli hooligans sfiorarono il livello di guardia, tutti i responsabili della sicurezza allo stadio compresero che la più grande stupidaggine era stata già consumata. E che tornare indietro sarebbe stato impossibile. Perché già era impossibile contenere l’ira bestiale di quegli animali feroci in cerca di sangue. L’inizio della partita era previsto per le 20:15, quando a fine maggio è ancora giorno. Ma in un attimo tutto divenne buio e tetro. Fra gli inglesi e quel ‘settore Zeta’ c’era uno spicchio di curva vuoto, come una sottile e indifesa terra di nessuno. Dalle 19.00 gli hooligans avevano iniziato a cantare e rumoreggiare, indirizzando cori e offese verso i tifosi italiani. Venti minuti più tardi, chissà perché, chissà come, l’agitazione aumentò e l’attenzione di quei barbari si spostò verso quella fragile e vulnerabile area. I più esagitati presero ad attaccarsi alle reti di sbarramento e a scuoterle come a volerle tirare giù. Dal ‘settore zeta’ qualcuno indicò quel che stava accadendo, ci fu chi mandò a quel paese quei pazzi, chi cercò di capire, chi si allarmò subito. Ci furono moltissimi che però neppure si accorsero di quello che stava accadendo a pochi metri di distanza, distratti com’erano dalla febbre dell’attesa e dall’emozione della vigilia del grande match. La rabbia degli hooligans, col passare del tempo, tuttavia non diminuì, anzi ne arrivarono altri che con maggiore furore e determinazione si diedero da fare per cercare di buttare giù le recinzioni che separavano i settori. Volevano sfondare le reti di sbarramento, era chiaro ormai. Volevano lo scontro con gli italiani. Solo che da quella parte non c’erano tifosi organizzati, ma famiglie e gente che allo stadio era andata solo per vedere una partita di calcio. Non ‘ultras’ bene o male preparati all’idea che le cose possano degenerare . E poi quella era una curva italiana venuta a tifare una squadra italiana, non era una tifoseria bianconera. C’erano molti immigrati in Belgio, studenti che potevano permettersi solo dei biglietti non troppo costosi. Quando le reti incominciarono a cedere, approfittando del ritardo degli agenti in servizio, gli hooligans incominciarono a invadere il ‘settore Zeta’ come una mandria di bufali inferociti, provocando un’ondata improvvisa di arretramento negli spettatori spaventati da quell’assalto feroce. Un indietreggiamento tanto precipitoso quanto disordinato e reso ancora più caotico dal panico e dalla ricerca angosciata di una via di fuga disperata. Ci fu chi cercò di sfondare le recinzioni opposte e si ritrovò schiacciato contro il filo spinato che circondava i cancelli di acciaio che chiudevano gli accessi, chi cadendo venne calpestato dalla folla urlante e atterrita. Ci fu chi si ritrovò ammassato contro un muro di contenimento già traballante che sotto l’enorme spinta finì per cedere del tutto, lasciando precipitare uomini donne e bambini al di sotto dello spalto. Chi era più avanti riceveva un spinta enorme da dietro da quelli che cercavano scampo mentre gli hooligans si riversavano a decine nel settore, e intanto urlavano e menavano le mani e roteavano cinghie e bastoni. E giù dagli spalti cadevano i tifosi a decine, come stelle a San Lorenzo, uno sopra l’altro, a grappoli, a colmare un vuoto di una ventina di metri d’altezza. Il tifo organizzato della Juventus, confinato nei settori O, M e N, capì in fretta cosa stava accadendo dal lato opposto dello stadio e in tanti presero d’assalto le recinzioni per entrare in campo e correre a vendicarsi degli inglesi. Era un finimondo. Al quale si aggiunse con notevole ritardo un battaglione a cavallo della polizia belga, la cui caserma era a circa un chilometro di distanza dallo stadio e che intanto era stato allertato e convocato sul posto. I cavalieri entrarono sul terreno verde, sul quale intanto affluivano le prime vittime dell’assalto bellicoso e qualche hooligan desideroso di scontrarsi con i tifosi juventini riusciti a invadere il rettangolo di gioco. Sembrava un folle e tragico carnevale, una scacchiera di pedoni e cavalli, alfieri e pezzi che cadevano e correvano in ogni direzione. Tutti contro tutti. Mancava un quarto d’ora all’inizio della partita. Ma quale partita? L’altoparlante annunciò di non lasciare i propri posti perché la finale si sarebbe giocata. Ma che partita? Con quale tranquillità? Con tutto quel marasma di cavalli e delinquenti, feriti e lacrime, urla e botte. Con che stato d’animo? Ma chi più pensava al pallone? Il pallone che non si era ancora mai visto neppure per un piccolo accenno di riscaldamento da parte delle squadre. Con tutto quel disastro intorno chi avrebbe mai avuto voglia di pensare alla partita? Molte fra le televisioni del circuito europeo interruppero le trasmissioni. Il governo belga iniziò a parlare di stato di assedio a Bruxelles. Si cercò una soluzione per sedare i tumulti e ristabilire, a fatica, l’ordine e un minimo di calma apparente. Con un’ora e mezzo di ritardo, per una disposizione congiunta tra l'UEFA, le federazioni italiana, inglese e belga, il locale Ministero dell'Interno, il sindaco e la polizia della città , la partita ebbe inizio. Ciò avvenne poiché si arrivò alla conclusione che uno sgombero prematuro dello stadio avrebbe potuto aumentare il numero di vittime. Già, perché in quella sciagurata serata di Bruxelles morirono 39 persone. Trentadue italiani, quattro belgi, due francesi e un irlandese. I feriti furono circa seicento. E l’evento sportivo passò in secondo piano, diventando per tutti ‘la strage dell’Heysel’. La strage avvenuta in uno stadio che cadeva a pezzi, la cui parete esterna era stata costruita con blocchi di calcestruzzo, friabile al punto che quel giorno alcuni tifosi sprovvisti di biglietto furono visti tirare calci per formare dei buchi in modo da poter salire sulle tribune. Le critiche condizioni delle stadio, insieme allo scarso controllo della folla sugli spalti, contribuirono rapidamente al crollo di un muro adiacente al ‘settore Z’, che avvenne circa un'ora prima del fischio d'inizio della finale. Il resto lo fece la furia degli uomini. Oggi di quel vecchio stadio, abbattuto e ricostruito dopo Euro 2000, rimane solo un cancello restaurato all'entrata principale. L’ostinata ubriaca e violenta ricerca del take an end che gli inglesi sostennero di aver condotto solo a scopo intimidatorio, fu la causa di un autentico dramma. Il resto lo fece la paura di semplici inermi spettatori e il mancato intervento e l’assoluta impreparazione delle forze dell'ordine belghe che faticarono persino a capire cosa stesse accadendo e arrivarono addirittura a ostacolare la fuga degli italiani verso il campo aperto, manganellandoli e respingendoli proprio in direzione dei sostenitori del Liverpool. Fra chi si lanciò nel vuoto, chi rimase ferito contro le recinzioni, chi venne soffocato dalla massa atterrita incalzante, i soccorritori faticarono a svolgere il proprio lavoro, mentre fra i tifosi bianconeri montavano la rabbia e il dolore. Le due squadre scesero quindi in campo alle 21:40 e la Juventus si laureò campione d'Europa per la prima volta nella sua storia con il groppo in gola e il cuore straziato. Nei giorni successivi i giocatori si scusarono per un eccessivo trasporto dimostrato sul momento verso il risultato sportivo, non avendo informazioni complete su quanto fosse accaduto. La polizia non aveva diffuso comunicazioni sulle vittime, le notizie erano parziali, la tifoseria del settore M non era al corrente della vera situazione e ‘gli organizzatori’ avevano raccomandato di mantenere una minima parvenza di normalità. Intanto il calcio inglese venne bandito per cinque anni dalle competizioni europee e il governo di Margareth Thatcher varò nel Regno Unito lo ‘Sporting Events Act’ e, successivamente, il ‘Public Order Act’, i primi veri provvedimenti sul calcio, dichiarando guerra agli hooligans. Per la Premier fu intollerabile che persino durante il processo gli hooligans continuassero a comportarsi in modo spavaldo, dimostrando una totale assenza di valori, di princìpi, di senso di responsabilità. Ancora, l’ennesima targa è stata apposta a ricordo di quanto avvenuto, con i nomi delle trentanove vittime e un nastro nero sotto una iscrizione in italiano ‘In memoria e amicizia’ e sopra una second iscrizione nelle due lingue - inglese e italiano - ‘Forever Bound – Legato per sempre’. E’ un bel gesto, anche se non serve a riportare indietro chi è caduto per la stupidità dell’uomo. La ferita dell’Heysel rimane aperta e restano le testimonianze dell’epoca: gli scontri fra personalità forti e i poteri forti . Oggi sappiamo che allòra ai giocatori fu detto poco o nulla, nel Terzo Millennio, con i social media, quella partita non si giocherebbe. Ma anche Lady Thatcher ebbe bisogno di una spintarella per stroncare alla radice il fenomeno hooligans: e capitò con la tragedia dell’Hillsborough Stadium di Sheffield, dove il 15 aprile 1989 in semifinale di FA Cup si affrontarono Liverpool e Nottingham Forest, nella quale a causa di disordini fra le tifoserie morirono 97 persone e altre 200 rimasero ferite. Dopo 40 anni non è dato sapere quanto ci si possa dire soddisfatti del progresso fatto nella sicurezza degli impianti e nell’attenzione all’ordine pubblico. Molto c’è ancora da fare. Da tragedie come l’Heysel bisognerebbe imparare ma l’uomo stenta. E l’amarezza più grande non è tanto nel constatare che in troppi non hanno compreso che la vita è un viaggio da vivere in continua crescita per evolversi e non un porto nel quale poltrire, quanto piuttosto che per colpa degli ignavi e dei violenti nulla riporterà più in vita chi voleva soltanto assistere a un incontro di calcio.

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Heysel, 40 anni dopo: una tragedia da non dimenticare

Lucio Rizzica