Barcellona contro Psg non sarà mai una partita come le altre, soprattutto in Champions

Més que un partit. Alla catalana, primo perché si gioca a Barcellona e poi comunque il catalano affonda le sue radici anche nel francese, quindi a Parigi non avranno problemi a capire. Soprattutto, perché quella fra Barcellona e Paris Saint-Germain è davvero più di una partita. Somiglia quasi alla trama di un film di Tarantino, con i capitoli che già da soli sono un’opera d’arte, ma poi messi uno accanto all’altro prendono una forma diversa raccontando storie, intrecci, personaggi che abbagliano. L’effetto, per intenderci, è lo stesso che fa a Vincent Vega/John Travolta aprire quella famigerata valigetta in Pulp Fiction. Resti, semplicemente, a bocca aperta. Volete un esempio? Banalmente, Luis Enrique ha giocato otto anni a Barcellona, dal 1996 al 2004, e tre li ha passati lì da allenatore vincendo la sua prima Champions League, nel 2015 a Berlino contro la Juventus, e plasmando uno dei tridenti più forti di sempre: la MSN, Messi-Suarez-Neymar. O, se preferite, meraviglia-sulle-nuvole visto che quei tre insieme erano qualcosa di onirico. Già, Neymar. Il suo passaggio dal Camp Nou al Parco dei Principi nel 2017 per 222 milioni di euro non solo è ancora il trasferimento più caro di sempre, ma rappresenta il bivio nella storia del Paris Saint-Germain. Il segnale dato a tutto il mondo: siamo in grado di fare qualsiasi cosa e con chiunque. Anche strappare un giocatore così al grande Barcellona. Neymar che poi tre anni dopo era in campo a Lisbona nella finale di Champions 2020, quella dell’era Covid, a perdere 1-0 contro il Bayern Monaco di Flick e Lewandowski. L’unica coppa vinta da Hansi e Robert, oggi simboli guarda un po’ proprio del Barça. Entrambi i club possono dire di aver fatto indossare la propria maglia agli stessi tre palloni d’oro: Ronaldinho, Messi, Dembélé. Ma anche in questo caso ogni personaggio ha la sua storia. Leo a Parigi ci era andato quasi per forza, obbligato a trovarsi una squadra dopo il rifiuto del club della sua vita di rinnovargli il contratto. E infatti a Parigi Messi non si è mai integrato, né nella squadra né in città, cosa che ha ribadito varie volte. Dinho invece aveva fatto il percorso contrario, fenomeno sì ma quasi sconosciuto a Parigi fra il 2001 e il 2003, a Barcellona è diventato leggenda. E poi c’è Dembél’Or, come lo hanno soprannominato in Francia. Ousmane Dembélé, il Pallone d’Oro che non ti aspetti, costato circa 150 milioni al Barcellona per prenderlo dal Dortmund quando era l’enfant prodige del calcio europeo, in Catalunya non ha mai dimostrato di valere anche solo l’idea di spendere tutti quei soldi per lui. Un trasferimento, insieme a quello da 135 milioni di Coutinho dal Liverpool, che ha dato il via di fatto poi al periodo finanziariamente complicato che il Barça sta vivendo ancora oggi. Notti insonni passate a giocare ai videogame, atteggiamento svagato, perfino una dieta non proprio da atleta professionista… Risultato? Una caterva di infortuni e, in campo, prestazioni quasi umorali: alcune partite giocate da fenomeno, altre inversamente proporzionali al suo talento, tipo l’andata della semifinale di Champions League del 2019 vinta 3-0 contro il Liverpool. Quel giorno Dembélé aveva riassunto in pochi secondi la sua avventura blaugrana, incespicando tutto solo davanti ad Alisson all’ultima azione e sbagliando un gol che, dicono in Inghilterra, ha caricato parecchio la banda di Klopp. Che poi infatti al ritorno ad Anfield avrebbe scritto una delle pagine più incredibili della storia dei Reds con quella rimonta epica, il 4-0 e la qualificazione alla finale, poi vinta, di Madrid contro il Tottenham. In quell’errore c’era tutto il fallimento del progetto Dembélé a Barcellona e, paradossalmente, anche la molla pronta a scattare per rilanciarsi a casa, a Parigi. O meglio, molto vicino a casa, visto che lui è di Évreux, un’ora e mezza di autostrada dalla Tour Eiffel. Per riuscirci, però, ha avuto bisogno però proprio di un allenatore con il dna blaugrana. Atipico, a dire il vero, perché Luis Enrique prima di tutto non è catalano ma asturiano. Non è cresciuto nella Masia ma nelle giovanili del suo amato Sporting Gijón, poi cinque anni al Real Madrid prima di arrivare appunto sulle Ramblas. Insomma un mix meno dogmatico, rispetto per esempio al suo amico Pep, che lo ha portato a declinare a modo suo quella maniera tutta catalana di intendere il futbol, sfruttandola nel caso di Dembélé per cambiargli ruolo e carriera. Il nostro centravanti è lo spazio, diceva Guardiola all’inizio della sua avventura da allenatore citando il maestro Cruijff, e Luis Enrique la scorsa stagione lo ha ricordato a Ousmane, diventato attaccante concreto e dal pressing feroce, un nueve molto falso nella teoria ma terribilmente vero nei numeri, con un’annata da 35 gol e la vittoria di tutti i trofei in palio, sia quelli di squadra che individuali. Més que un partit, insomma, per tutti questi motivi più uno. Il più importante, quello che più delle star, dei milioni e degli intrecci, ha trasformato Barcellona-Paris in qualcosa di diverso. 8 marzo 2017, ritorno degli ottavi di Champions. E c’è ancora di mezzo Luis Enrique, che dalla panchina del Camp Nou aveva assistito alla remuntada del siglo: Barça che aveva perso 4-0 l’andata a Parigi, per poi vincere in casa 6-1 con tre gol fra l’88’ e il 95’. A fine partita, per rendere l’idea dell’euforia dei tifosi, Gerard Piqué aveva detto: “Fra nove mesi controllate le nascite negli ospedali della città…”. E in effetti il picco c’era stato. Quella sera di inizio marzo di otto anni fa Lamine Yamal era un bimbo che stupiva nelle giovanili del Barcellona e sognava un giorno di scrivere anche lui qualche pagina del copione di una partita così, magari da attore protagonista. Ci aveva già provato due stagioni fa, Barcellona eliminato ai quarti dal Paris e lui che si stava ancora affacciando dalla finestra della casa dei fenomeni. Adesso invece quel giorno è arrivato.

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Barcellona contro Psg non sarà mai una partita come le altre, soprattutto in Champions

Niccolò Omini