La vera rivoluzione di Sinner parte dallo staff: sono loro i personaggi dell'anno

Il tennis nasce come sport individuale, ma ormai vive di rapporti collettivi. Piaccia o no, a volte li celebra, altre li interrompe senza troppi preavvisi. In questo finale di stagione, il circuito offre due immagini contrapposte: il divorzio improvviso di Carlos Alcaraz e Juan Carlos Ferrero e il matrimonio sempre più solido tra Jannik Sinner e il suo gruppo di lavoro. La separazione tra Alcaraz e Ferrero è arrivata e appartiene a quelle notizie che non hanno bisogno di conferme: basta leggerle una volta per capire che sono vere. È successo in piena preparazione invernale, a poche settimane dall’Australian Open, il momento in cui di solito si consolidano certezze, non si smontano progetti. L’annuncio è passato dai social, ma a restare impressa è una frase di Ferrero: “Mi sarebbe piaciuto continuare”. Inaudito: per una volta il politicamente corretto lascia spazio a una dichiarazione vera. Nel linguaggio del tennis, equivale a dire che qualcosa si è rotto prima ancora di essere spiegato. Pare che la frattura sia nata durante le trattative per il rinnovo del contratto. In teoria una formalità, di fatto la spaccatura. Rapida, definitiva, senza possibilità di mediazione. E questo nonostante i risultati suggeriscano l’opposto: Alcaraz è reduce da una stagione dominante, due Slam e numero uno riconquistato. Ferrero lo aveva preso ragazzo e accompagnato fino al vertice, costruendo uno dei sodalizi più longevi e vincenti del tennis moderno. Proprio per questo, la rottura ha fatto rumore. Le vere motivazioni le sanno solo loro, e a questo punto non contano più. Corsi e ricorsi, seppe rompere anche Sinner con Piatti, padre putativo per lui quanto Ferrero lo è stato per Carlito. Solo che Sinner al tempo era ancora in rampa di lancio, lo spagnolo è già ultraconsolidato. Ma cambia poco, le separazioni tra giocatori e allenatori sono fisiologiche. Agassi, Federer, lo stesso Djokovic hanno spesso tratto giovamento dai nuovi stimoli che può dare una panchina diversa. Oggi Sinner è il prodotto di un lavoro collettivo che non ha mai cercato scorciatoie, iniziato da Riccardo Piatti e proseguito con Simone Vagnozzi. Uomini scelti per accompagnare l’evoluzione tecnica di Jannik ogni volta in cui è servito fare un salto di qualità. Piatti lo ha reso professionista, Vagnozzi hanno poi aggiunto variazioni, coraggio, soluzioni offensive. Rapporti costruiti nel tempo, lontano dalle urgenze mediatiche. Darren Cahill, in particolare, il coach dei numeri uno. L’uomo che ha portato Hewitt e Agassi in cima al ranking e che con Sinner ha fatto una lavoro controcorrente: non rivoluzionare, piuttosto rifinire. Video, confronti, pazienza. “Dai grandi del passato c’è sempre qualcosa da imparare”, ha spiegato più volte. Un’idea che funziona solo se il contesto è stabile. Intorno, Umberto Ferrara, preparatore fisico e custode del lavoro meno glamour, quello che Sinner sopporta più che amare. Palestra, equilibrio, prevenzione. Un ambito silenzioso, che non finisce sui social ma si vede nei match lunghi, nelle stagioni senza crolli, nella continuità ad altissimo livello. E di pomate non si parla più, per fortuna. Il tennis non offre formule universali. C’è chi cresce cambiando, e chi migliora restando. Alcaraz ha interrotto un percorso che sembrava intoccabile, aprendo una nuova fase tutta da decifrare. Sinner, invece, continua a investire sulla stabilità, come se il vero vantaggio competitivo oggi fosse sapere con chi scendere in campo, ogni giorno, anche quando non si gioca. In un circuito che ama le rotture improvvise e glamour, restare insieme è quasi un atto rivoluzionario.

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La vera rivoluzione di Sinner parte dallo staff: sono loro i personaggi dell'anno

Stefano Meloccaro