Quando mi venne la pelle d'oca al Bernabeu

La sera del 18 novembre 2006 ho assistito a una partita, Real Madrid-Racing Santander, dalla tribuna d’onore dello stadio Santiago Bernabeu. L’allora presidente del club più famoso del mondo, Ramon Calderon, aveva invitato i direttori dei principali quotidiani sportivi europei a un seminario interno, aggiungendo al pacchetto una visita al nuovo centro sportivo di Valdebebas e, appunto, una gara di Liga nel palco presidenziale, dal lato opposto rispetto alla tribuna stampa che è il nostro normale teatro operativo. Carlo Verdelli, all’epoca direttore della Gazzetta dello Sport, non era tipo da mollare per tre giorni il governo del giornale per godersi quella che in sostanza era una vacanza. Però la cortesia dell’invito obbligava a un gesto di apprezzamento e così, visto che all’epoca mi occupavo di calcio internazionale, il direttore mi incaricò di rappresentarlo. Ricordo una visita piacevole e istruttiva, ivi compreso l’incontro con Fabio Capello, che quell’anno avrebbe vinto per la seconda volta il campionato spagnolo dieci anni dopo la prima. Non c’è dubbio, però, che il momento indimenticabile lo vissi allo stadio, e mi viene ancora la pelle d’oca a pensarci. Anzi, la ‘piel de galina’ come dicono in Spagna. Inaugurato il 14 dicembre del 1947 - e dunque il compleanno di questi giorni è il 77esimo - lo stadio di Chamartin venne intitolato a Santiago Bernabeu il 4 gennaio 1955. Fu un’intitolazione in vita, perché il presidentissimo del Real si spense nel 1978 a 83 anni, e la rara circostanza spiega il peso che la sua figura ebbe nello sviluppo del club del quale fu giocatore, capitano e allenatore fino all’incarico di presidente, retto dal 1943 fino alla morte. Quando vi risultano oscure alcune mosse di Florentino Perez, tipo la recente proposta di trasformare i soci del Real Madrid in suoi azionisti, sappiate che l’obiettivo della sua vita è quello di raggiungere e magari superare l’importanza di Santiago Bernabeu nella storia del club. È la sua ossessione. Ma torniamo a quella sera d’autunno del 2006, e al primo tuffo al cuore: alla reception della zona autorità il funzionario che guida la piccola delegazione di giornalisti, con voce giustamente grave, ci introduce a un signore molto anziano, elegante nel cappotto nero con il basco calcato in testa, curvo sul suo bastone ma con gli occhi belli vivaci. “Signori, permettetemi di presentarvi don Alfredo Di Stefano”. Ecco, se già conoscere i campioni è un’esperienza, trovarsi senza preavviso a tu per tu con una leggenda è qualcosa che può farti letteralmente tremare dall’emozione. Ricordo di aver stretto la mano a Di Stefano con una cura infinita, timoroso della sua fragilità, ma allo stesso tempo evitando una debolezza che in qualche modo avrebbe potuto offenderlo. Di lì a poco avrei scoperto chi stava aspettando per salire al suo fianco in tribuna d’onore e sedere un paio di file davanti alla mia. Ho visto decine di partite al Bernabeu, che per noi italiani è uno stadio talismano - altro che sedia del dentista - visto che ci abbiamo vinto la finale del Mondiale ‘82 , più due coppe dei Campioni/Champions League col Milan e con l’Inter . Ci sono stato spesso e avevo sempre gli occhi da luna park, perché tale è quello stadio per un amante del calcio: quando tramonta il sole oltre la cresta della tribuna e il mega schermo manda i filmati storici, quando il canto ‘Hala Madrid’ si diffonde nell’aria del quartiere Chamartin, non c’è proprio nulla che possa distrarti, che possa valere di più in quel momento. Non ho visto il Bernabeu dopo l’ultima revisione, un’opera colossale che l’ha portato avanti di mezzo secolo, e più che invidia semina scoramento in chi non riesce nemmeno ad avviare l’iter di una ristrutturazione. Sì, stiamo parlando dell’Italia. Il Real Madrid della stagione 2006-07 è una squadra frustrata da tre anni senza vittorie, perché la prima generazione di ‘galattici’ di Florentino ha riportato a casa la Champions ma ormai è invecchiata. Zidane ha abbandonato, Ronaldo combatte col peso e con le ginocchia, Beckham è sempre bellissimo ma atleticamente non più fresco, insomma il Barcellona di Rijkaard ha ‘indovinato’ Ronaldinho e da due stagioni sta facendo i suoi comodi. Capello è stato richiamato per porre fine a tutto ciò, il suo plenipotenziario Franco Baldini è tornato dal Sudamerica con una cesta di regali che a ottobre non sono ancora utilizzabili , gli effetti di Calciopoli hanno portato qui il fresco campione del mondo e imminente Pallone d’oro Fabio Cannavaro, l’attacco è comunque retto dall’enfant du pays Raul Gonzalez Blanco e Ruud Van Nistelrooy, a far la guardia dietro sono Iker Casillas e Sergio Ramos, a loro volta futuri campioni del mondo. Nel Racing di Santander, buona compagine di mezza classifica, gioca un centrocampista che in un futuro ancora più lontano porterà a casa il titolo mondiale. Si chiama Lionel Sebastian Scaloni, farà la fortuna di un altro Lionel . Studio le formazioni bevendo un calice di cava, lo spumante spagnolo, quando lo stadio improvvisamente si zittisce. Le squadre sono schierate al centro del campo, scopro in quel momento che il Real porta il lutto al braccio. Certo, l’avevo letto sui quotidiani del mattino. È mancato il giorno prima Ferenc Puskas, il grande centravanti ungherese degli anni 50-60, vincitore col Real di tre coppe dei Campioni, ‘59, ‘60 e ‘66. Un mito assoluto. La gente del Bernabeu, richiamata da un altoparlante discreto, si alza silenziosamente in piedi. La maglia numero 10 di Puskas viene stesa al centro del campo, e le note immortali di Ennio Morricone - la musica di “C’era una volta il West” - si alzano nell’aria fresca di Madrid. È allora che un signore anziano e corpulento, seduto due file davanti a noi, si solleva in piedi a fatica ma con infinita dignità. Accanto a lui Alfredo Di Stefano rimane seduto - alzarsi gli costerebbe troppo sforzo - ma si toglie il basco e stringe con forza la mano dell’amico. Il funzionario di prima è pronto a istruirci, ma ho capito da solo che quell’uomo è Francisco ‘Paco’ Gento, il terzo componente del fantastico tridente con Di Stefano e Puskas, il numero 11 accanto al 9, e insieme stanno salutando il numero 10. È una scena di pazzesca intensità emotiva, perché il megaschermo sta mandando le immagini di quelle finali, e mentre i tre stanno giocando per sempre il loro calcio paradisiaco due di loro assistono, ricordano, forse rimpiangono, di certo piangono. Non c’è stato in più di 40 anni di carriera un momento nel quale io abbia compreso meglio che cosa sia la gloria, questo motore ultimo che ispira le grandi gesta sportive molto più dei soldi, della popolarità, dei vantaggi connessi. Quando una carriera finisce la gloria è tutto ciò che resta, la memoria indelebile di quello che hai fatto, di come l’hai conseguito, dei compagni che erano al tuo fianco, dei pochi che sanno e dei tanti che immaginano, e ammirano. E di gloria sono intrisi i mattoni - o quel che diavolo hanno usato per ricostruirlo - dello stadio Santiago Bernabeu.