Uruguay: una notte da Tabarez, quel gran signore incompreso

Mondiali
L'epressione da hidalgo di Oscar Washington Tabarez, 63 anni, ct uruguagio
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In vista del match con l'Olanda dice il ct: "Siamo qui a una festa. A cui però non eravamo stati invitati...". Antidivo sobrio e colto, Oscar è il prototipo del perdente diventato vincente. Perché questo non è un Mondiale per primedonne LE FOTO E IL VIDEO

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L'OROSCOPO DI TABAREZ, NATO IL 3/3/1947

di PAOLO PAGANI

Oscar Washington Tabarez, 63 anni e l'aria da scrittore al bar del Pen Club nella pausa di un convegno, è uomo di raffinata intelligenza. Toh: un allenatore per sbaglio, quindi conosce l'ironia e persino gli equivoci della Storia: "Siamo qui a una festa. A cui però non eravamo stati invitati... Lo sappiamo bene. Siamo circondati da giganti." Capita perché se la vede con l'Impossibile per i più, l'Inaspettabile di Eraclito: semifinale contro l'Olanda, la nuova potenza Orange, quella pronosticata per una serena passeggiata estiva sino alla finale di domenica sera. E andrà pure così, andrà che a Città del Capo i giganti europei schiacceranno sul serio il paesino latinamericano, un terzo degli abitanti della Lombardia, 10mila dollari di reddito annuo procapite, ma che importa. Uruguay, senza tornare a Schiaffino o a Obdulio Varela per l'ennesima volta, è nobiltà operaia della palla: 10 partecipazioni (8 l'Olanda) ai Mondiali, due titoli in bacheca (zeru tituli l'Olanda).

E poi lui, qui e ora. Nome e cognome da divo hollywoodiano (vi sembreranno mica veri?), passato da perdente, 16 team allenati, meteora al Milan nel '96, proveniente da Cagliari e chissà come mai uno come Berlusconi scelse uno così. Zero successi. E' l'antidivo riservato, Basso Profilo, serio ma con garra, attenzione: la grinta. Basta con le litanie citazioniste: triste solitario y final, come se il romanzo di Soriano con quel titolo famoso spiegasse qualcosa in più. No, è che questo, a conti fatti, è per davvero il Mondiale degli anti-divi.

A casa Capello, coach totalitario; a casa (subito) Domenech, fanfarone arrogante; a casa (subito) Lippi, presuntoso e antipatico alfiere del Vecchio che avanza e del Nuovo che indietreggia; a casa Dunga, altro bellimbusto (malvestito) convinto di fare e strafare senza fuoriclasse; a casa Maradona, splendido cialtrone dall'Ego inversalmente proporzionale alla statura ma uguale preciso alla sua classe infinita. E a casa i cosiddetti assi del pallone: Cristiano Ronaldo, Messi, Drogba, Rooney, Kakà. Tutta gente che ha fallito miseramente, tutte primedonne, tutti campioni forse spremuti da dozzine di partite fra campionati e Champions, ma che certo in Sudafrica hanno fatto differenza solamente in negativo.

No, è il Mondiale dei Tabarez, gentiluomi e galantuomini modesti. Per lo più distanti dall'abbagliante luce dei media, che sovrespone e scotta. Come si ustiona chi sta troppo vicino al Sole. Premia l'ombra, allora, lo stare discreto in disparte. Lavoro, anonimato e bravura. Vicente del Bosque coach della Spagna semifinalista, placido 59enne baffuto e gordito, è uno così. L'impronunciabile Bert Van Marwijk, ct olandese, classe '52, ex di Feyenord e Borussia Dortmund (città di terrificante tristezza) è uno così. Joachim Loew, 50 anni, coach tedesco multirazziale, panchine di Stoccarda e Wacker Tirol in carriera, è uno così. L'occhialuto Gerardo Martino di un Paraguay sconfitto dalla Spagna per cupio dissolvi personale e sfortuna astrale, è uno così.

Vedremo se l'irresponsabile Abreu, l'uomo che segnò al Ghana col "cucchiaio" tottiano il rigore decisivo, si renderà protagonista questa sera di magie memorabili o se meriterà randellate. Vedremo se il rubio e magnifico Forlan saprà vendicare il babbo uruguagio, che nel '74 (pensate la combinazione) perse 2-0 un altro Olanda-Uruguay (doppietta di Johnny Rep). Vedremo quanto peseranno le assenze di Suarez, Fucile, Lodeiro, date tutte per sicure. Oscar Tabarez, uruguayano antico, europeo sudamericanissimo nella signorilità intrinseca, nella sobrietà, nella grande cultura non soltanto calcistica e tutt'altro che ostentata, dovrà solo ricordarsi quel che dice il suo amico Eduardo Galeano, scrittore delle malinconie e delle disonestà australi: "In Uruguay nasci e urli gol". Ne basterebbe uno in più di quelli arancioni.

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