La bruciante eliminazione del Senegal per la regola del fair play non cancella il grande percorso di Aliou Cissé, unico allenatore nero ai Mondiali
Dopo la vittoria del Senegal nella sua partita inaugurale contro la Polonia, le nostre timeline di Twitter si sono riempite di una GIF che aveva tutto per diventare rapidamente virale, e infatti lo è diventata.
L’esultanza di Aliou Cissé, con un’espressione tra il serioso e il trasporto mistico (concentratevi sul suo sguardo, nei tre secondi finali), trasmette un’empatia quasi incontrollabile, forse perché incarna tutti i lati più affascinanti delle epiche minori. Aliou è giovane (il più giovane CT di questi Mondiali, 42 anni), porta i dreadlock (neppure il CT della Giamaica nel ‘98 li portava!) e un paio di occhiali vistosi e molto glam. Durante tutta la partita lo abbiamo visto fare gesti sconclusionati.
Ed è l’unico allenatore nero del Mondiale, il settimo della storia dei campionati del mondo.
Il Senegal si è imposto sulla Polonia divincolandosi dai cliché che vogliono le squadre africane soltanto leggerezza e atletismo, perpetuazione dello stereotipo della velocità e della resistenza, semplicemente dimostrandosi squadra tatticamente organizzata e disciplinata (e Fabio Barcellona l’ha ben spiegato qua). È stata l’unica nazione africana ad arrivare all’ultima giornata con la possibilità di qualificarsi per gli ottavi del Mondiale, fomentando aspettative simili a quelle del 2002, quando è avanzata fino ai quarti di finale (perdendo solo, forse immeritatamente, dalla Turchia). La sconfitta contro la Colombia, e un risultato nella classifica fair play peggiore di quello del Giappone, ha però condannato il Senegal all’eliminazione, ancor più bruciante in considerazione della maniera in cui ha preso forma. Per la prima volta dal 1982, nessuna squadra africana è riuscita a superare la fase a gironi.
Il fardello dell’uomo nero
Nella conferenza stampa prima dell’esordio al Mondiale, Cissé ha acceso la miccia di una riflessione importante: «Sono l’unico allenatore nero in questa Coppa del Mondo. È vero, ma è un discorso che mi dà noia. Credo che il calcio sia uno sport universale, e il colore della pelle conti davvero poco».
Nel dirlo Aliou non ha un tono risentito: la sua è una rivendicazione non rancorosa, semplicemente ne prende atto. Nel 2014 il FARE (Football Against Racism in Europe) ha commissionato uno studio: un sondaggio tra club calcistici di Inghilterra, Francia e Olanda che ha messo in evidenza come solo il 3% degli allenatori o membri degli staff tecnici siano neri o rappresentanti di una minoranza.
Secondo Simon Kuper, ciò dipende dal fatto che un allenatore viene scelto anche in termini di rappresentatività e autorevolezza: e il profilo più autorevole, forse cavalcando un luogo comune trito e ritrito, è quello di un allenatore che sembri un allenatore, vale a dire: un uomo bianco, tra i 40 e i 60 anni.
«Il fatto è che noi neri sappiamo giocare ma non prendere decisioni», ha detto con ironia caustica Florent Ibengé, allenatore della Nazionale della Repubblica Democratica del Congo, che spesso viene citato insieme a Cissé come uno dei migliori esponenti della nouvelle vague degli allenatori africani: giovani, locali, con un’idea di gioco chiara in mente.
Gli ha fatto eco Cissé: «Non è che perché ho i dread sono un tipo che prende le cose alla leggera. Questi sono preconcetti. Puoi dirmi che sono il peggior allenatore di tutto il Senegal, ma sono sicuramente quello che ha più voglia di vincere».
In effetti il motivo per cui Cissé è stato scelto per guidare i "Leoni della Téranga" muove i passi esattamente dal sovvertimento di questo principio, chiamiamolo “pregiudizio di inadeguatezza” dell’allenatore nero: la squadra gli è stata affidata nel 2015, dopo il licenziamento di Giresse, nel tentativo da una parte di porre una fine al falso mito del “sorcier blanc”, dello stregone bianco, ma anche, dall’altra, di riportare un senso di disciplina e di squadra all’interno dello spogliatoio, oltre che un progetto tecnico solido.
«Nello spogliatoio del Senegal c’è sempre stato un problema di disciplina», confessa Amara Traoré, predecessore di Cissé e suo compagno durante la mitica spedizione del Senegal ai Mondiali del 2002. «Ci sono giocatori che arrivano a farsi chiamare imam».
Cissé è stato ingaggiato per ribadire, facendo perno su una figura di riconosciuto prestigio suffragata dal ruolo di capitano nell’apparizione finora più importante del Senegal a un Mondiale, quella del 2002, le gerarchie tra calciatori e staff tecnico: non perché fosse un imbonitore o un maestro delle arringhe, uno stregone appunto, ma per operare una normalizzazione. E perché è un patriota, come ha spiegato il Ministro dello Sport senegalese Matar Ba, per il quale Aliou è l’incarnazione di tutto ciò che significa essere neri.
Anche se, come ha raccontato Salif Diao, durante i Mondiali del 2002 - in cui erano compagni di stanza - l’incantesimo si era rotto anche e soprattutto per il tentativo di normalizzare quell’esperienza, che nella testa di alcuni protagonisti (tipo El Hadji Diouf) rimane sempre un capolavoro di indomabilità.
Quanto conta sentirsi coinvolti
Aliou Cissé è nato a Ziguinchor, non lontano da dove Senegal, Gambia e Guinea-Bisseau si intersecano, in una città per vent’anni al centro di uno scontro perenne tra indipendentisti del Casamance e forze governative, in cui ha vissuto un’infanzia marcata dal clima di paura e dalle sventagliate di mitra.
È cresciuto in una casa piena di zii e cugini, e dalla nonna, senza i genitori che vivevano in Francia. «Non ho avuto il classico percorso dei giovani africani che vengono in Francia per giocare al calcio. Però poi non ho mai pensato di fare altro», racconta ricordando il momento in cui ha lasciato il Senegal per ricongiungersi ai suoi genitori.
La sua carriera da calciatore non ha vissuto particolare sussulti: si è affermato al LOSC, poi al Sedan, in cui giocava quando è stato ingaggiato dal PSG pre-qatariota. Gli spazi preclusi a Parigi lo hanno portato a scegliere Montpellier, dove si è preparato al momento in cui gli sarebbe stato concesso di vivere il picco più alto della sua parabola in campo: ovviamente, quello con la maglia della Nazionale nel 2002.
Era un giocatore ordinato, non si concedeva mai grandi colpi di testa. Aggressivo, ma sempre con sportività. Pieno di irruenza. Ma anche con un grande senso della dedizione, dell’applicazione.
C’è un episodio, che risale al settembre del 2002, eloquente di che tipo di professionista fosse Cissé. E forse anche di che tipo di uomo sia.
A settembre, subito dopo il Mondiale e dopo essere stato ingaggiato dal Birmingham City, al largo delle coste del Gambia la motonave Le Joola si inabissa dopo essersi imbattuta in una tormenta, causando circa mille vittime e solo una sessantina di sopravvissuti. A bordo ci sono undici membri tra zii e cugini della famiglia di Aliou, che però apprende della tragedia solo il giorno successivo: «I miei genitori non me l’hanno voluto dire, perché sapevano che stavo preparando una partita importante». Steve Bruce, l’allenatore, e i compagni invece ne vengono a conoscenza una settimana più tardi, quando Cissé, dopo essersi silenziosamente allenato senza parlarne con nessuno, chiede il permesso di partire per il Senegal, ma non prima di scendere in campo contro il West Ham.
Al suo arrivo a Dakar si impegna attivamente per organizzare un’amichevole contro la Nigeria, il cui incasso sarebbe stato devoluto alle vittime. Per Aliou l’emotività è il motore che dà vita al capitale umano: forse è proprio quello il momento in cui vengono fecondati i germogli del suo futuro da allenatore.
L’importanza dell’ordine
Al termine della carriera da calciatore, nel 2009, Cissé vorrebbe aprire una scuola calcio a Dakar. Si iscrive al corso per tecnici a Clairefontaine, dove un anno più tardi si diploma. Il suo primo mentore è lo stesso Amara Traoré, che coerente con il progetto di valorizzazione delle risorse locali che ha intrapreso la Federazione senegalese suggerisce Cissé per il ruolo di allenatore dell’U-23. È il 2011: un anno più tardi il Senegal è chiamato a giocare le Olimpiadi di Londra.
Cissé si lascia consigliare, nei primi mesi di esperienza, da Regis Bogaert, che è stato il suo primo allenatore nelle giovanili del LOSC. Da Bogaert dice di aver appreso come gestire i conflitti nello spogliatoio, come comunicare con i giocatori e con il contesto che li circonda: tutte caratteristiche che ritroviamo nelle incarnazioni meglio riuscite di un “sourcier blanc”, a partire da Hervé Renard.
Bogaert completa Aliou in un aspetto che a Cissé manca: la preparazione mentale finalizzata all’ottimizzazione dell’intelligenza delle performance.
Bogaert, nella formazione di Cissé come allenatore, è la metà meno appariscente di una mela che si chiama Bruno Metsu: da loro, senza scimmiottamenti, Aliou Cissé impara alcune regole fondamentali di come si fa l’allenatore in Africa, non per questo senza volontà di disattenderle. Si circonda, nel suo staff, di ex compagni della spedizione del 2002, ma senza revanscismo; piuttosto, con la volontà di affermarsi non solo come individualità, ma come rappresentante di una categoria, di una generazione. A 36 anni porterà l’U-23 a giocarsi un quarto di finale olimpico, in cui verrà sconfitto dal Messico poi campione.
In quelle Olimpiadi Cissé lancia giocatori come Sadio Mané e Kouyaté, che formeranno l’ossatura della sua squadra attuale e che gli riconoscono una lealtà incondizionata. Da questo punto di vista, il carisma che i suoi calciatori gli riconoscono somiglia davvero a quello riservato, chissà se anche da Aliou stesso, a Bruno Metsu.
«Dopo averlo incontrato ho capito che questa era la mia vocazione. Bruno era avanti coi tempi».
Ribaltare la scala dei valori
Gli allenatori mediocri parlano e basta. I buoni allenatori riescono a spiegare. I migliori ispirano. Bruno Metsu ha sempre speso parole incoraggianti per il Cissé allenatore. Ne ha sottolineato il temperamento, il carattere, il coraggio: lo ha definito «una specie di Didier Deschamps».
Eppure Cissé è riuscito a divincolarsi dalle spire delle similitudini proprio a partire dal ribaltamento della gerarchia delle priorità definita da Metsu, che era un allenatore libertario: prediligeva il lato umano, l’aspetto amichevole, il contesto giocoso. Piacere, solidarietà, disciplina, lavoro: per Metsu era questa la scala dei valori di una squadra. Gli stessi capisaldi di Cissé, ma invertiti: perché per Cissé l’applicazione, e la disciplina, sono i primi requisiti imprescindibili.
«Bisogna essere, oltre che ottimi allenatori, bravi psicologi per avere a che fare con uomini cresciuti in Africa, che si comportano come africani in un contesto africano», ha dichiarato Salif Diao. «Gli africani sono spiriti liberi, in campo i giocatori non fanno che esprimere soltanto loro stessi. Non puoi arrivare e mettere regole, porre paletti».
Il più grande pregio che gli stessi senegalesi riconoscono a Cissé, invece, è proprio la capacità che ha avuto di imporre, in una maniera meno precettiva ma comunque intransigente, il rigore; la bravura nell’inculcare nei suoi giocatori la necessità di esprimersi non solipsisticamente, ma come si conviene ad alti livelli attraverso la cura dei dettagli.
Aliou non è una vedette: il suo profilo è umile, ma mai sottomesso. Il fatto che sia il tecnico meno pagato, e di gran lunga, tra tutti quelli ai quali sono state affidate le chiavi di una Nazionale a questo Mondiale non gli impedisce di sognare.
«Credo sia necessario coniugare un basso profilo a sogni di grandezza, senza farci trascinare dall’entusiasmo. Sarebbe un grande errore: avere calciatori che giocano nei top club europei non significa automaticamente che siamo una grande Nazionale. Né che per essere arrivati una volta ai quarti potremo automaticamente ripeterci».
«Questa è una grande generazione», ha detto della sua squadra. Forse pensava un po’ anche a sé, e alla generazione di allenatori africani che rappresenta. «Stiamo cambiando mindset. Non è solo questione di dimostrare quanto siamo bravi tecnicamente. È in gioco l’innalzamento del livello del calcio africano».
Cissé è certo che un giorno una Nazionale africana vincerà la Coppa del Mondo. «Le cose si sono sviluppate, anche se è più complicato nel nostro continente. Crediamo nel nostro calcio, non abbiamo complessi: abbiamo grandi giocatori, ora abbiamo solo bisogno di grandi allenatori».
La vittoria con la Polonia, che ha innescato un entusiasmo incendiario poi drammaticamente affievolitosi fino a spegnersi definitivamente, potrebbe comunque essere stato il primo minuscolo mattoncino della posa in opera di una cattedrale importante.
Il fatto che sia avvenuta di 19 giugno, il Juneteenth, cioè il giorno in cui negli Stati Uniti si festeggia l’abolizione della schiavitù, potrebbe passare alla storia - almeno del calcio - come qualcosa di più di una semplice coincidenza.