Brasile-Uruguay story: 70 anni dalla tragedia Mondiale del "Maracanazo"

Mondiali

Alfredo Corallo

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Il 16 luglio del 1950 si consumò a Rio de Janeiro uno dei più grandi drammi sportivi di tutti i tempi: il Brasile, padrone di casa dei Mondiali e favoritissimo alla vigilia, perse la partita decisiva contro l'Uruguay al Maracanà davanti a 200mila spettatori in preda alla disperazione. Protagonista di quella sfida Ghiggia, che segnò il gol del definitivo 2-1, scomparso nel 2015 proprio nel giorno dell'anniversario del "Maracanazo"

Il 16 luglio del 1951 - nel primo "anniversario" del Maracanazo - dagli scaffali delle librerie newyorkesi si affacciava un romanzo destinato ad avere un discreto successo: il titolo della versione originale era The Catcher in the Rye, che in Italia sarà tradotto ne Il giovane Holden, pubblicato da Einaudi con una copertina bianca e blu - casualmente - come i colori della maglia che la Seleção indossava ai Mondiali del 1950. Il libro esordiva con il protagonista che assiste a una partita di football delle superiori nel suo ultimo giorno in quella scuola, espulso dall'istituto per le troppe insufficienze e costretto - inevitabilmente - a rivedere il suo futuro. Un po' quello che accadde ad Alcides Edgardo Ghiggia con il Peñarol, nel 1953, quando decise di volare in Italia - alla Roma - dopo la squalifica di otto mesi che gli era stata inflitta in Uruguay per aver aggredito un arbitro, reo di avergli annullato un gol. Era già "Ghiggia", l'uomo che aveva fatto piangere il Brasile. Ribelle, introverso, come il protagonista del racconto di J. D. Salinger. E dispettoso: l'attaccante uruguagio - di sangue genovese, giocò anche con l'Italia da "oriundo" tra il '57 e il '59 - fu l'ultimo ad andarsene dei 22 in campo al Maracanà e scelse proprio il 16 luglio (del 2015) per farlo. Morì 88enne, d'infarto, come le decine di brasiliani che non ressero al dolore della sconfitta in quel drammatico pomeriggio di 70 anni fa.

La vigilia

"Quando avevo già chiuso la porta e stavo tornando nel soggiorno, lui mi gridò qualcosa, ma non capii bene. Sono quasi sicuro che mi urlò 'Buona fortuna!'. Spero di no. Accidenti, io non griderei mai 'Buona fortuna!' a nessuno. È una cosa tremenda". Un giovanissimo Holden dei nostri tempi direbbe che sì, sai che sfiga. Ma all'ombra del Cristo Redentore erano talmente sicuri di vincere la loro prima Coppa Rimet da ignorare tutte le più convezionali regole della scaramanzia: il signor Reader non aveva ancora fischiato l'inizio della partita che a Rio de Janeiro era già tutto un Carnevale; oltre mezzo milione di magliette con la scritta "Brasil campeão 1950" coloravano la metropoli e alla vigilia del match la stessa Federcalcio locale aveva regalato a ogni giocatore un orologio d'oro con incisa la dedica "Ai campioni del mondo". Il quotidiano O Mundo uscì con una gigantografia della Nazionale, titolando: "Estes são os campeões do mundo". Come se non bastasse, con le squadre già schierate in campo, risuonò come una vera maledizione il discorso del generale Ângelo Mendes de Morais, prefetto del Distretto Federale: "Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo. Voi, calciatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti. Voi, che non avete rivali in tutto l'emisfero. Voi che superate qualsiasi nemico. Siete voi che io saluto come vincitori!".

La Nazionale brasiliana del 1950

 

La partita

Tanta arroganza poggiava - in realtà - su basi solidissime: la Seleção guidata dall'ex centrocampista del Flamengo Flávio Costa poteva contare su gente come Barbosa, Friaça, Zizinho, Chico, Ademir, Jair, che avevano passeggiato contro Svezia e Spagna (rispettivamente in due "set": 7-1, 6-1); e avrebbero sollevato la Coppa anche pareggiando con la Celeste di Fontana che invece aveva sofferto e non poco con svedesi e iberici (2-2 e 3-2, in rimonta) in questo particolarissimo girone all'italiana a 4 squadre, senza una vera finale (l'unico nella storia). Ma il gol di Friaça, che avrebbe dovuto definitivamente scatenare la festa della Torcida, si rivelò un boomerang: complice un colpo di genio del capitano uruguaiano Obdulio Varela, che fece di tutto per ritardare la ripresa del gioco, l'atmosferà al Maracanà s'incupì. Così, in meno di un quarto d'ora, tra il 66' e il 79', le reti di Schiaffino e Ghiggia trasformarono quella che doveva essere una giornata di gloria in una tragedia. Nel 2009, quando a Ghiggia fu consegnato - molto sportivamente - un posto nella Walk of Fame del tempio brasiliano, Alcides non si smentì: "A sole tre persone - disse - è bastato un gesto per far tacere il Maracanã: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e io...". 

Alcides Ghiggia "posa" con il Maracanà
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La versione di Rimet

Qualche anno dopo arrivò la "confessione" di Jules Rimet, che all'epoca era presidente della FIFA: "Era tutto previsto, tranne il trionfo dell'Uruguay. Al termine della gara, avrei dovuto consegnare la coppa al capitano della squadra campione. Un'imponente guardia d'onore si sarebbe dovuta formare dal tunnel fino al centro del campo di gioco, dove mi avrebbe atteso il capitano della squadra vincitrice (ovviamente il Brasile). Preparai il mio discorso e mi recai presso gli spogliatoi pochi minuti prima della fine della partita (stavano pareggiando 1 a 1 e il pareggio assegnava il titolo alla squadra locale). Ma mentre attraversavo i corridoi il tifo infernale si interruppe. All'uscita del tunnel, un silenzio desolante dominava lo stadio. Né guardia d'onore, né inno nazionale, né discorso, né premiazione solenne. Mi ritrovai solo, con la coppa in mano e senza sapere cosa fare. Nel tumulto finii per incontrare il capitano uruguaiano, Obdulio Varela, e quasi di nascosto gli consegnai la statuetta d'oro, stringendogli la mano, e me ne andai, senza riuscire a dirgli una sola parola di congratulazioni".

Un murale a Rio sui Mondiali del 1950
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Dal Maracanazo al Mineirazo

Le conseguenze di quella disfatta furono nefaste. Oltre una trentina di persone - per la delusione, ma anche per aver investito forti somme di denaro in scommesse sulla vittoria del Brasile - si tolsero la vita. Il Paese, sprofondato in un'angosciante depressione, restò in lutto per tre lunghissimi giorni. Emblematica l'immagine evocata dallo scrittore Nelson Rodrigues: "È la nostra Hiroshima". E sul portiere Barbosa - considerato il principale colpevole della sconfitta - si abbattè la condanna eterna dell'intero popolo brasiliano. Anche la maglia bianca fu "bandita" e dopo i Mondiali in Svizzera del 1954 furono scelti i colori nazionali verde e oro, che contribuirono magicamente al trionfo del 1958 e di altre 4 successive edizioni dei Mondiali. Non quella del 2014, quando la competizione tornò a essere ospitata dal Brasile, che riaggiornò - sciaguratamente - il manifesto del 1950: "Il nuovo Maracanà è nostro, e anche la Coppa"; finché i 7 gol incassati in semifinale dalla Germania al Mineirão di Belo Horizonte non riportarono alla mente dei brasiliani quel tremendo pomeriggio del 1950,  in barba alla lezione sulla fortuna impartita dal giovane Holden.

"Il nuovo Maracanà è nostro e anche la Coppa del 2014"
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