Con una prima parte di stagione sorprendente, il piccolo Burnley si è intrufolato tra le "big six" della Premier e precede in classifica il Tottenham. In vista dello "scontro diretto", ecco il racconto di chi ha vestito la mitica maglia dei Clarets... per un pomeriggio. Innamorandosene per sempre
John Terry urla alla difesa di salire per mettere in fuorigioco il temibile Tom, l’idolo di casa già autore di una doppietta. La sua voce rimbomba in tutto il Turf Moor, lo stadio del Burnley, praticamente vuoto. Nel frattempo Gerrard prova a impostare l’azione, dopo aver sradicato il pallone dai piedi di un tizio che ha tutta l’aria di essersi fatto un paio di birre prima di scendere in campo, e in effetti è così. Mi vede: con l’indice mi mostra lo spazio in cui vuole che io mi butti, poi con una sciabolata per niente morbida indirizza il pallone almeno 20 metri più avanti. Gli faccio ugualmente l’applauso, per premiare l’intenzione, e lui mi risponde con un gesto di scuse. I calciatori “veri” di solito fanno così, e noi non vogliamo essere da meno.
È solo una delle tante memorabili azioni, diciamo così, di cui conservo il ricordo: di quando sono stato un giocatore di Premier League. Titolare nel Burnley, con la maglia numero 7. Per un pomeriggio. La verità è che per giocare questa partita ho pagato, ma in questo caso avviene tutto nella legalità e anzi, si fa anche del bene visto che a organizzare la cosa è l’ormai nota Football Aid, l’associazione che da anni raccoglie fondi destinati alla beneficenza con la semplice quanto geniale idea di realizzare il sogno di ogni tifoso medio: giocare per una volta nella vita nella sua squadra del cuore.
Ogni club (hanno aderito quasi tutti quelli di Premier e Championship, oltre ad alcuni scozzesi) a fine stagione mette a disposizione il proprio stadio per un giorno: da Old Trafford a Stamford Bridge, da Anfield a Craven Cottage, fino a Turf Moor, appunto. Poi, durante l’anno, è aperta la caccia: si sceglie la squadra che si preferisce (e di conseguenza lo stadio in cui giocare) e le maglie, dalla 1 alla 11, vengono messe all’asta dando la possibilità a chiunque di comprarsi il ruolo e il proprio pezzetto di sogno. Io, con circa 300 sterline, mi sono assicurato un pomeriggio da ala destra del Burnley.
È brutto dirlo, ma con le casacche delle big che arrivano a costare anche migliaia di sterline (provate a partecipare all’asta per la 7 del Manchester United…) la scelta è stata dettata da ragioni che con il sentimento hanno ben poco a che vedere. Ma da quel giorno in poi, vi garantisco, si inizia a guardare al club prescelto con occhi diversi. Il Burnley non era la mia squadra del cuore, e non è stato nemmeno un colpo di fulmine. Piuttosto un innamoramento lento. Torni a casa con la tua maglia sudata come cimelio e con un carico di ricordi distorti e annebbiati, e ti ritrovi improvvisamente a chiederti “Quanto ha fatto il Burnley?” nel weekend. Oggi è la prima squadra di Premier di cui controllo il risultato, esulto ad ogni gol del neozelandese Chris Wood, il nostro bomber da 4 reti in stagione, ed eccomi qui ad attendere come un vero tifoso Burnley-Tottenham, scontro diretto che vale il sesto posto in classifica, dopo che noi Clarets ci siamo intrufolati tra le “big six” (un punto davanti al Tottenham, appunto) con una prima parte di stagione da stropicciarsi gli occhi. All’andata finì 1-1, pareggio proprio di Wood al 92°. Solo due settimane prima avevamo battuto 3-2 a domicilio il Chelsea di Conte campione in carica, tanto per dire di cosa siamo capaci quest’anno. Adesso gli Spurs verranno a farci visita a Turf Moor con il loro gioco spumeggiante e l’attacco da 31 gol (16 i nostri), ma noi opporremo la nostra solita resistenza, giocheremo quel calcio di palla lunga e linee strettissime dietro (lo chiamiamo catenaccio? Massì, dai) che ci ha portato così in alto, e che noi calciatori per un giorno abbiamo riprodotto alla perfezione, quel pomeriggio. Chissà se quelli che hanno giocato con la maglia del City, invece, facevano i triangoli di Guardiola.
Trecento sterle non sono poche, certo, ma ecco un breve elenco delle emozioni a cui ti danno diritto: entrare nello spogliatoio e trovare le maglie personalizzate appese e i completi piegati ordinatamente sulla panchina (kit che poi resta ai giocatori per ricordo), uscire dal tunnel e vedere lo spicchio verde di campo che si allarga sempre più fino a diventare il manto erboso più perfetto che abbia mai calcato in vita mia, essere accolti dal boato del pubblico (circa una trentina di spettatori paganti – 5 sterline a testa per l’ingresso – tutti amici e parenti dei giocatori), trovarsi al centro di un tipico stadio all’inglese – raccolto, pulito, curato – e, paralizzati dall’emozione, cercare di assorbire tutta la magia di quegli istanti, stampandosi nella memoria il maggior numero possibile di dettagli. Spogliatoi, arbitro, guardalinee, allenatori: tutto come nel calcio “vero”.
Durante il riscaldamento osservo compagni e avversari: qualcuno resta immobile, a bocca aperta, altri corrono dietro al pallone ridendo senza un perché, c’è chi si sdraia sull’erba. Siamo tornati bambini. Uno, in preda al delirio, cerca addirittura di farsi dei selfie mentre calcia in porta. Ultime indicazioni da parte dell’allenatore (solitamente una vecchia gloria del club) e poi si fa sul serio. Foto di gruppo, strette di mano, calcio d’inizio. Tra compagni ci si trova e ci si conosce lì, al momento, per cui tutto ciò che concerne l’aspetto tattico della gara è lasciato all’improvvisazione dei singoli. Si sa solo che si gioca col 4-4-2 in onore della tradizione inglese, con la nostra piccola colonia di “italians” che prova a portare un tocco di fantasia.
Anche lo spirito è tipicamente anglosassone: nessuno si risparmia o tira indietro la gamba, tutti urlano indicazioni incomprensibili come se ci si conoscesse da una vita, ci si applaude e incoraggia a vicenda. Come facciamo io e quella sorta di Gerrard con i piedi e la foga di Stig Toefting, che mi lancia in profondità. Molta profondità. Il terzino che copre le mie scorribande sulla fascia ringhia, sbuffa e non si nega mai una chiusura in scivolata: mi dice di stare avanti, che dietro ci pensa lui. Nell’altra squadra, al centro della difesa, c’è un tizio alto e smilzo, piuttosto anziano. Il 10 è la sua fotocopia con trent’anni di meno: sono padre e figlio. Sulla corsia destra, invece, trotterella un signore che gioca con gli occhialini legati sulla nuca, e impietoso arriva il soprannome di “Thorpe” che lo accompagnerà per tutta la gara. Quello che tutti chiamano “John Terry” (provate a immaginare il perché), invece, sta cercando di stabilire un qualche tipo di record, visto che si è iscritto a una decina di partite come questa e farà una specie di tour per gli stadi inglesi. Il giorno seguente, per dire, sarebbe volato a Nottingham. Qualche scarpata vola, come è normale che sia, ma poi ci si rialza e ci si abbraccia un secondo: il tempo di dirsi che va tutto bene e poi ognuno riparte per la sua strada. Niente a che vedere con i nostri calcetti “tra amici” del martedì sera, in cui ci si accapiglia per una rimessa laterale, si mandano a quel paese i compagni per un passaggio sbagliato e si ha come unico fine la vittoria. Sembra la solita retorica, quella del calcio inglese e del terzo tempo, ma è tutto vero. C’è anche la tipica pioggerellina.
Li riconoscete? Padre e figlio, due generazioni unite da una maglia: identici!
Lo ammetto: quando la difesa avversaria ha allontanato la minaccia e ho visto quel pallone impennarsi e poi scendere verso di me, al limite dell’area di rigore, per un attimo ho pensato realmente che stesse per giungere il momento. Il momento in cui avrei segnato il mio primo gol in Premier League. Concentro tutte le mie energie mentali su un unico pensiero: non lisciarla. L’importante è colpirla. Svirgola, spara alto, centrale, rasoterra… basta che la colpisci. Se poi la manderò in tribuna saranno ugualmente applausi: in Inghilterra funziona così, no?
Matt l’ho conosciuto nel prepartita, quando ci si ritrova nella club house e si scrutano i volti degli altri giocatori per provare a individuare compagni e avversari, giocando ad abbinare i ruoli: quello ha la faccia da duro, sarà un difensore, quell’altro è il classico terzinaccio, il tipo lì in fondo preferirei averlo con me piuttosto che contro, l’altro che si sta già scolando una birra speriamo sia dei loro… Insieme al gemello Tom, Matt gioca (o meglio, paga per giocare) nel Burnley da anni. Lui portiere, Tom attaccante. Tifosi veri, mica come me.
Ed è proprio Matt che spezza il mio sogno di segnare un gol da antologia, di quelli che entrano dritti nelle classifiche dei best-goal-all-time insieme al tacco di Zola, alla sforbiciata di Di Canio e alla giravolta di Bergkamp, distendendosi alla sua destra e smanacciando via il mio potente diagonale al volo (non l'ho lisciata!) destinato all’angolino. La delusione viene in parte cancellata quando, poco più tardi, lo puniamo facendogli un gran bel gol. O meglio, lo fanno i miei compagni di squadra, dato che con una triangolazione sulla destra tagliano fuori un difensore ma anche me, che assisto allo scambio come un vigile urbano in mezzo al traffico. Non importa: mi unisco ugualmente ai festeggiamenti di gruppo. In questi casi, nel gergo tecnico ma anche per farsi belli con gli amici, si dice che io “ho portato via l’uomo”. Il resto della partita (che per la cronaca finisce 5-2 per l’altro Burnley, ma vi assicuro che in campo nessuno pensa al risultato o alla vittoria) è un’infinita carrellata di passaggi sbagliati, tiri sbilenchi, stop a inseguire. Il tutto alla moviola, come ha modo di constatare chi, al termine della partita, acquista coraggiosamente una copia del dvd con i 90’ integrali del match.
Io sono uno di quelli. Torni a casa sognando di rivedere all’infinito la tua prodezza, di cui hai un chiaro ricordo ma, adesso, anche le prove filmate. Ebbene: vista in tv, quella formidabile volée perde tutta la sua magia. Il tiro arriva sì in porta, ma lento, centrale, insomma, facile facile per qualsiasi portiere. Fa anche qualche rimbalzino sull’erba prima di accomodarsi tra le braccia di Matt, che nel mio film personale si era dovuto allungare per sventare la minaccia, mentre in questa versione sembra quasi sorridermi con commiserazione. Ma io ti perdono, Matt. E quando i nostri scenderanno in campo e parcheggeranno il pullman in area per resistere agli assalti del Tottenham, noi saremo lì a soffrire insieme a loro. Uniti da quel pomeriggio che mi ha reso tifoso del Burnley per sempre.
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