3 maggio 1975, West Ham-Fulham 2-0: la finale di FA Cup più inglese della storia

Cifra tonda, 50 anni. Dal 3 maggio 1975, giorno della finale di Coppa d’Inghilterra tra West Ham United e Fulham, solo la seconda finale tra squadre londinesi in oltre 100 anni di storia. Considerando l’alto numero di club della Capitale fa specie che la prima fosse arrivata solo nel 1967, Chelsea-Tottenham : era stata la famosa ‘Cockney Final’, appellativo ambiguo perché è vero che fino a inizio Novecento ‘cockney’ identificava l’intera Londra, ma successivamente era passato a contrassegnare solo zona e popolazione della parte est, a cui né Chelsea né Tottenham appartengono. Una finale, tornando a quella del 1975, che profuma tuttora di quegli anni Settanta unici nella storia del calcio inglese, su molti fronti: quello estetico, ad esempio, col trionfo di divise pulite, già quasi tutte con il simbolo del club sul petto - dettaglio che per decenni era comparso solo nelle finali - ma ancora semplici nel disegno e prive di sponsor, cosa che dava un maggiore respiro allo sguardo. O quello tecnico-tattico, perché per un contrappasso di cui leggerete tra poco fu il periodo dei talenti creativi che alle doti naturali abbinavano spesso, coerentemente con la moda di quel tempo, capigliature vistose, basette formidabili e maglie fuori dai pantaloncini, quasi ad esporre una volontà e un atteggiamento controcorrente strascico degli anni Sessanta, che nel calcio erano stati meno rivoluzionari che non nella musica, ad esempio. Non tutti quei talenti furono compresi: personaggi come Stan Bowles, Rodney Marsh, Charlie George o Tony Currie, tutti attaccanti o centrocampisti offensivi, misero assieme la miseria di 32 presenze in nazionale perché in quel periodo in Inghilterra prevaleva un calcio difensivo, fisico, aggressivo, distruttivo, spesso esemplificato dal Leeds United di Don Revie e dal suo esponente più feroce, Norman ‘Bites yer legs’ Hunter, Giocatore dell’anno 1974. Non è casuale, anche se è curioso, che i due libri più completi sulla decade, ‘Get in on’ e ‘All crazee now’ , abbiano in copertina due diverse scene di giocatori che si prendono a pugni: nella percezione, era quella l’immagine simbolo del periodo. Facile allora capire perché i creativi fossero guardati con sospetto e utilizzati con parsimonia, a volte in occasioni inadatte e contorni non ideali. Di Bowles, ad esempio, si ricorda soprattutto la mediocre partita a Roma, contro l’Italia il 17 novembre 1976, nel girone di qualificazione ai Mondiali, che fu la penultima delle sole cinque disputate con la maglia dei Tre Leoni, e con tre allenatori diversi. L’ultimo dei quali fu proprio Revie, che lasciò il posto a Ron Greenwood prima della partita di ritorno contro gli Azzurri, ma nemmeno Greenwood, che pure era cresciuto nel rispetto della tradizione del bel gioco esaltata dal suo West Ham, gli diede spazio. Era insomma un periodo particolare, indimenticabile per chi ha avuto la fortuna di viverlo e magari tende ad esaltarlo pur comprendendo il contrasto tra l’estremo fascino di quegli anni e la mancata qualificazione ai Mondiali 1974 e 1978 della nazionale. Quella inglese: perché quella scozzese, con molti giocatori influenti in First Division, sia nel 1974 sia nel 1978 fu protagonista, anche se nel secondo caso la spedizione argentina, nata con prospettive di gloria, si risolse in un disastro. Lo scrittore Daniel Abrahams ha scelto per un libro sul 1971-72 il titolo ‘Football’s greatest season?’, la stagione più bella di sempre, e quel punto interrogativo finale è un omaggio al fascino del dubbio, nonostante le motivazioni forti : incontestabile il fatto è che, pur con l’emergere del Liverpool nella loro seconda parte, gli anni Settanta videro ben nove vincitrici diverse della FA Cup tra 1970 e 1979, unica a ripetersi l’Arsenal , e sei vincitrici diverse del campionato, uniche plurime appunto il Liverpool e il Derby County , e in quel 1974-75 della finale tra West Ham e Fulham la classifica della prima divisione vide cinque punti di differenza tra la prima, il già citato Derby County, e la sesta, lo Sheffield United, ed è qualcosa che fa impressione anche se all’epoca la vittoria valeva due punti e quindi era meno facile creare e colmare distacchi. È anche abbastanza normale che in un calcio più fisico che tecnico, e con un numero risicato di talenti puri, il divario tra i team fosse minore e le partite fossero spesso battaglie a fil di nervi, più arrosto che fumo, più vigore che tecnica, anche per via di campi spesso impraticabili ma accettati quasi senza battere ciglio, con la sorta di stoicismo derivante dagli strascichi dell’atteggiamento di rassegnata sopportazione tenuto durante la Seconda Guerra Mondiale. In questo panorama variegato, spicca la finale West Ham United-Fulham, 2-0, per un motivo molto particolare: è stata, e sarà probabilmente per sempre, l’ultima finale vinta da una squadra interamente composta da giocatori inglesi e con un allenatore inglese, John Lyall. Una particolarità ovviamente diventata tale a posteriori, anche se già all’epoca qualcuno notò l’assenza di calciatori scozzesi, che peraltro parevano tutti concentrati in alcune squadre, tra cui Manchester United e Leeds United. Il Fulham aveva un’irlandese, il centrocampista Jimmy Conway, e per il resto tutti inglesi come gli avversari. E come la giornata in sé, riassunto di quel periodo. Un pomeriggio grigiastro, che diede al mondo che guardava - da noi, i fortunati che potevano ricevere il canale della Tv Svizzera italiana - un’idea di inglesità ora perduta, anche nelle sottigliezze: il colore era sul campo, nel prato, nelle maglie bianche del Fulham e in quelle amaranto-azzurre del West Ham, mentre gli spalti erano ancora quelli di gran parte della storia originale del calcio inglese, ovvero popolati di tifosi che in una occasione speciale come quella potevano essere creativi con le loro sciarpe, le loro bandiere e con i loro striscioncini individuali, perlopiù con motto di spirito, ma che sapevano di essere comparse e non protagonisti, non avevano cioè ancora la mentalità moderna esibizionista e narcisista delle scenografie e coreografie che hanno vasta circolazione sui social media ma impatto, sul campo, vicino allo zero. Una Inghilterra che per certi versi ricordava ancora quella in cui chi giocava guadagnava poco più di chi lo sosteneva dalle tribune, e che poteva essere rappresentata da parecchi dei giocatori impegnati quel giorno, a partire da Bobby Moore, capitano storico del West Ham e della nazionale… che però vestiva la maglia del Fulham, da circa un anno, marzo 1974. E neppure era capitano, onore toccato per anzianità di servizio al centrocampista Alan Mullery, anche lui già detentore della fascia dell’Inghilterra, in quella che agli occhi di molti fu la finale dei vecchietti: 34 anni appena compiuti Moore, 33 Mullery, 58 l’allenatore Alec Stock, uno che nel 1957 era stato per 11 partite anche sulla panchina della… Roma e dieci anni dopo aveva portato il Queens Park Rangers a vincere la Coppa di Lega da squadra di terza serie. E del resto il Fulham stesso arrivava a Wembley da squadra di seconda divisione, reduce da un campionato chiuso al nono posto, mentre il West Ham aveva terminato al tredicesimo in First Division. Una sfida dunque tra squadre non particolarmente considerate, quasi come la finale di Coppa di Lega di un mesetto prima, giocata da due squadre di seconda divisione, Aston Villa e Norwich City. Il West Ham, con Lyall al primo anno in panchina dopo il passaggio di Greenwood al ruolo di general manager, aveva iniziato vincendo a Southampton 2-1, punizione del terzino sinistro Frank Lampard e colpo di testa dell’attaccante Bobby Gould. Nel turno successivo, i sedicesimi di finale, 1-1 in casa con lo Swindon Town nel fango ma vittoria 2-1 nella ripetizione in campo avverso, dopo un primo tempo chiuso in svantaggio per 1-0, con sfida successiva in casa contro il QPR, vinta 2-1, anche qui in rimonta e su un campo fangoso, forse oltre il praticabile. Condizioni che il West Ham ritrovò ai quarti di finale, nella trasferta dell’8 marzo ad Highbury contro l’Arsenal, in un’atmosfera che stava crescendo di tono, come è normale quando si passano tre turni e come era normale in tempi in cui non è corretto dire, come ci è stato tramandato con faciloneria, che la coppa fosse più importante del campionato, ma sicuramente aveva un posto di primissimo piano, fonte com’era della possibilità, da gennaio in poi, di dare un senso e una memorabilità anche ad una stagione altrimenti mediocre. E se aggiungiamo che la finale era l’unica partita tra squadre di club ad essere trasmessa in diretta, dando quindi a giocatori e società una vetrina rara, si comprende come questa miscela di tradizione, speranza, opportunità e solennità fosse formidabile nel creare momenti indimenticabili. Ad Highbury, del resto, ci fu la svolta: Lyall, infatti, ritenendo che la difesa dell’Arsenal fosse vulnerabile sulla velocità diede una maglia da titolare ad Alan Taylor, un rapido attaccante 21enne, ex meccanico in un garage, che Greenwood aveva preso a fine novembre per 40.000 sterline, prezzo mediobasso per l’epoca, dal Rochdale, club di quarta divisione. Prima di procedere all’acquisto, il general manager del West Ham si era accertato che Taylor non avesse giocato nelle due partite dei turni preliminari di FA Cup, circostanza che gli avrebbe impedito di vestire la maglia degli Hammers nella medesima competizione, e la saggezza di Greenwood fu premiata pochi mesi dopo. Quel giorno ad Highbury la partita fu davvero memorabile: stadio strapieno, centinaia di tifosi ospiti pericolosamente infiltrati nella North Bank, ovvero il settore di quelli Arsenal, e una fanghiglia protagonista tanto quanto i giocatori. Al 15’ del primo tempo infatti un tiro innocuo dell’ala sinistra Pat Holland si impantanò prima che il portiere avversario Jimmy Rimmer potesse raccoglierlo, e sul pallone si avventarono due giocatori del West Ham, il secondo dei quali, Graham Paddon, raccolta la respinta di Rimmer su un primo tentativo, mise in mezzo per il tocco da distanza ravvicinata, sul secondo palo, proprio di Taylor. Qualche minuto dopo, un retropassaggio errato del capitano Billy Bonds, che voleva risolvere una situazione complicata per via del pallone incontrollabile, permise al centravanti dell’Arsenal di anticipare il portiere Mervin Day , che lo abbatté in area di rigore per quello che pareva un rigore indiscutibile, ma l’arbitro Ken Burns non fermò il gioco, sostenendo che Day avesse cercato di prendere il pallone, e Taylor raddoppiò a inizio secondo tempo con un destro sul primo palo, correndo poi verso la tribuna con le braccia alte, un festeggiamento che si sarebbe rivisto più avanti. In semifinale il West Ham incontrò al Villa Park, di fronte a 58.000 stipatissimi spettatori, il favorito Ipswich Town, primo in classifica e allenato da Bobby Robson: nonostante un paio di infortuni, l’Ipswich dominò la partita che però finì 0-0, per cui fu necessaria la ripetizione quattro giorni dopo a Stamford Bridge, lo stadio del Chelsea, scelta contestata da Robson perché troppo ‘casalinga’. Furono in 45.000 ad assistere alla partita, ancora una volta giocata in condizioni atmosferiche precarie, complicate dalla… neve. L’arbitro Clive Thomas annullò due reti all’Ipswich, una delle quali per un fuorigioco inspiegabile, poi Taylor segnò di testa sul secondo palo, su cross del trequartista Trevor Brooking, uno dei miti del West Ham, giocatore che pareva scivolare via senza problemi sui terreni peggiori. L’Ipswich pareggiò poco dopo in maniera comica: corner dalla sinistra battuto male da Mick Lambert, con palla rimbalzante, ma sul primo palo clamorosa svirgolata all’indietro dell’attaccante Billy Jennings e autogol memorabile, a cui nel secondo tempo rimediò ancora Taylor con un destro da lontano che diede al West Ham il biglietto per la finale. E il Fulham? Beh, un percorso a suo modo memorabile, anche se vissuto con toni meno drammatici e con quel tono quasi rilassato che caratterizzò la sua intera stagione di coppa. Ci vollero infatti ben 11 partite per portare in finale la squadra di Stock, e anche in questo caso, ovviamente, molte furono giocate con pioggia a dirotto e campi improponibili, anche se all’epoca erano spesso la norma: ai trentaduesimi di finale, 1-1, 2-2 e infine 1-0 allo Hull City, ai sedicesimi 0-0, 1-1, 1-1 e decisivo 2-1 al Nottingham Forest, che da poche settimane aveva affidato la panchina a Brian Clough ed era, come i londinesi, in seconda divisione. All’epoca, va ricordato, non si andava mai ai rigori e si giocavano ripetizioni, con tempi supplementari, fino a che una delle squadre non avesse prevalso sul campo. Negli ottavi, finalmente, una vittoria al primo colpo, a Goodison Park contro la capolista Everton, doppietta dell’attaccante Viv Busby a replicare i due gol decisivi contro il Forest, e nei quarti ancora un successo esterno, nella remota Carlisle, a togliere ai padroni di casa l’ultima illusione, in quella che stava diventando la loro unica stagione nella massima serie. In semifinale il Fulham trovò il Birmingham City, pareggiando 1-1 a Hillsborough per poi vincere la ripetizione 1-0 a Maine Road, lo stadio del Manchester City, con un gol in mischia ancora dell’attaccante John Mitchell all’ultimo minuto dei tempi supplementari, quando già si prospettava una seconda ripetizione. Ecco allora la finale a Wembley, quel 3 maggio. Con il West Ham nel ruolo di favorito, una volta tanto, e un clima da vigilia che rifletteva, anch’esso come molte storie di questa partita, i favolosi e bizzarri anni Settanta, in cui il calcio inglese diede a nostro avviso il meglio di sé, ma a volte anche il peggio: con una decisione che suscitò estrema irritazione tra i propri tifosi, infatti, il West Ham decise che la prelazione per l’acquisto dei biglietti per Wembley sarebbe andata non ai possessori di un tagliandino che - classica tradizione britannica - era stato pubblicato in ogni numero del match programme e che andava ritagliato e incollato su una cartolina, dimostrando quindi se non altro una presenza fissa alle partite, ma a chi aveva ricevuto un analogo buono ad una delle ultime partite casalinghe, con l’ulteriore beffa che quei buoni erano stati dati a chiunque fosse passato attraverso i tornelli, compresi dunque tifosi ospiti. Molti tifosi del West Ham che si erano fatti tutte le trasferte, comprese quelle di coppa, rimasero esclusi o dovettero rivolgersi ai bagarini, anche se questo inesplicabile passo falso del club non smorzò l’attesa, anch’essa dispiegata nel classico stile di quegli anni, ovvero con negozi e abitazioni del circondario di West Ham e East Ham, ma anche per chilometri e chilometri verso est, nelle cittadine dove durante la guerra erano sfollati tanti abitanti dell’East London, addobbati con nastri, rosette e bandierine fatte in casa, scenario visibile anche nel però più austero ed elegante quartiere che ospita il Fulham, che ebbe meno problemi nella distribuzione dei biglietti in quanto la sua media presenze in casa era sugli 11.000 spettatori, molti meno dei quasi 29.000 del West Ham. Fu una partita poco memorabile, la finale. Poche occasioni da gol, poche emozioni vere, un West Ham quasi sempre superiore ma incapace di trasformare il volume di gioco in situazioni pericolose. Prima della partita, Lyall aveva dato istruzioni ai suoi di non permettere a Moore di toccare troppi palloni: pur se rallentato dagli anni, l’ex capitano dell’Inghilterra aveva conservato tocco e visione di gioco e Lyall voleva impedirgli di costruire dalla sua posizione di difensore elegante e raffinato, magari aiutato da Mullery pochi metri più avanti. Entrambi esperti, già vincitori di una FA Cup - Moore nel 1964, Mullery con il Tottenham nella già citata ‘Cockney Final’ - e dunque in grado di aiutare colleghi magari alle prese con l’emozione di un periodo in cui a Wembley si giocavano solo le finali e dunque metterci piede spesso rappresentava un’occasione unica. A decidere, con due gol nel giro di 4’, tra 60’ e 64’, ancora Taylor: in entrambi i casi, riprendendo respinte corte, imperfette, del portiere Peter Mellor, un 28enne dallo stile non ortodosso che era stato eroico nei turni precedenti ma quel giorno ebbe numerose incertezze. Il Fulham non riuscì mai ad essere pericoloso e il West Ham vinse dunque la sua seconda FA Cup grazie ai sei gol di Taylor tra quarti di finale e finale, tutti festeggiati con quelle braccine magre - il suo soprannome era subito stato Sparrow, Passerotto, per la magrezza - alzate a formare un angolo di 90° col gomito. Come accadeva a quei tempi, e di base fino a tutti gli anni Ottanta, prima che l’emergere della Premier League togliesse rilevanza e peso alla coppa, quel trionfo a Wembley fu festeggiato per giorni e giorni nei quartieri di tifo West Ham, compresa la sfilata dei giocatori sul classico autobus, che non fu a due piani ma un autobus normale con il tettuccio aperto, dal quale spuntavano i giocatori dalla cintura in su. Taylor, ora 71enne, tuttora orgoglioso di una carriera non eccelsa ma illuminata da quella FA Cup, ha messo all’asta non più di cinque giorni fa [28 aprile] i ricordi della finale: la maglia è stata battuta per 24.000 sterline, il pallone della doppietta - che il capitano Bonds aveva preso all’arbitro Pat Partridge proprio per consegnarlo a Taylor - e la scarpa d’oro commemorativa per 3800 ciascuno, la giacca della tuta per 2100, la medaglia per 10.000. Il West Ham vinse poi la coppa cinque anni dopo, altro anniversario perché siamo a 45 anni, superando l’Arsenal 1-0, e resta l’ultimo successo di un club di seconda divisione, evento solo sfiorato nel 2008 dal Cardiff City, sconfitto per 1-0 dal Portsmouth. Per Moore, invece, la delusione della sconfitta, accettata con dignità e amarezza. Lasciato anzitempo il rinfresco post-partita del Fulham, il difensore tornò a casa e andò a dormire. Il mattino dopo, alzandosi, vide fuori dalla finestra, nel giardino di casa, un sacco. Incuriositosi, uscì, lo aprì, scoprì che conteneva argenteria, maglie, medaglie e capì: mentre lui e la famiglia erano a Wembley, qualcuno era entrato in casa, aveva portato via tutto senza lasciare disordine ma, accortosi che il derubato era Bobby Moore, si era pentito e aveva riportato la refurtiva al legittimo proprietario. Un comportamento da ladro gentiluomo verso un calciatore gentiluomo: se volessimo proprio tuffarci in pieno nello stereotipo locale, categorie, entrambe, pienamente coerenti con quell’ultima finale vinta da una squadra con soli giocatori inglesi.

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3 maggio 1975, West Ham-Fulham 2-0: la finale di FA Cup più inglese della storia

Roberto Gotta